Il rendimento dell’istruzione: ultime notizie

Francesca Gallo, partendo dai risultati di un recente Rapporto ISTAT, analizza i dati del mercato del lavoro italiano con particolare attenzione al rapporto tra livelli di istruzione, match tra domanda ed offerta di competenze, tassi di occupazione e performance. Gallo mette in luce come coloro che possiedono un titolo di studio elevato, da un lato, godono di un premio sul mercato del lavoro e, dall’altro, frequentemente non riescono a utilizzare in modo adeguato, nello svolgimento delle mansioni lavorative, le competenze acquisite nel corso degli studi.

Studiare conviene, sia al singolo individuo che alla società nel suo complesso. I principali indicatori del mercato del lavoro mettono in luce l’associazione positiva fra titoli di studio più elevati e tassi di occupazione. Nel 2018 in Italia, l’aumento del tasso di occupazione al crescere del livello di istruzione, supera i 20 punti percentuali al passaggio dalla licenza media al diploma e i 14 punti percentuali dal diploma alla laurea o più. Oltre ad offrire agli individui migliori prospettive occupazionali, un titolo di studio più elevato si associa a un maggior reddito da lavoro e di conseguenza a maggiori redditi complessivi, a un maggior risparmio e ad una maggiore capacità di accumulare ricchezza (Checchi, 2019)

Più in generale, l’istruzione ha un ruolo cruciale per lo sviluppo di un paese, per la sua crescita economica e sociale. All’aumentare del titolo di studio diminuiscono i divari di genere: nel 2018, il gap occupazionale a sfavore delle donne supera ancora i 18 punti percentuali, ma per quelle laureate si riduce a 8,2 punti. Anche i divari territoriali tendono ad essere meno pronunciati se si guarda a questi ultimi circoscrivendo l’analisi ai soli individui con elevato titolo di studio. Nel Mezzogiorno, il tasso di occupazione raddoppia al passaggio da un titolo di studio basso ad uno più elevato (nel Centro-nord l’aumento è del 60%), e per le donne il tasso di occupazione passa dal 18,4% se in possesso della licenza media, al 62,7% se con una laurea o più.

L’istruzione concorre all’obiettivo di una crescita basata sull’innovazione e l’accrescimento della base di conoscenza, sostenibile ed inclusiva come quella immaginata da Europa 2020 che, rispetto all’istruzione, ha posto come obiettivi comuni a tutti i paesi dell’Unione quello di portare il tasso di abbandono scolastico al di sotto del 10% e la quota di giovani con titolo terziario al di sopra del 40%. Il nostro Paese ha mostrato notevoli progressi sul fronte degli abbandoni scolastici, ma non su quello dei titoli di livello terziario: con una quota pari a 27,8% l’Italia si posiziona, infatti, al penultimo posto nella UE.

Sebbene complessivamente arretrato rispetto agli altri Paesi dell’Unione quanto a quota di giovani ‘più istruiti’, il nostro Paese sembra in difficoltà ad offrire loro una collocazione nel mercato del lavoro consona al percorso di studi effettuato. Nel 2018, il 42,1% dei giovani laureati occupati e non più in istruzione ha svolto una professione che richiede un titolo di studio inferiore alla laurea. Tale fenomeno sembra persistere nel corso della carriera lavorativa, interessando una quota superiore al 40% di coloro che hanno iniziato a lavorare da più di sei anni. Lo stesso fenomeno riguarda più della metà dei laureati occupati nelle micro e piccole imprese e assume dimensioni preoccupanti nel comparto degli alberghi e ristoranti, interessando circa otto su dieci laureati ivi occupati.

L’analisi del mismatch istruzione-lavoro ha prodotto numerosi filoni di studio sul rendimento del capitale umano; la molteplicità degli approcci non ha finora permesso di giungere ad una definizione univoca, fondamentale per i confronti internazionali, ma solo a proposte attualmente in discussione nelle principali organizzazioni che si occupano del tema (ILO, Oecd e Cedefop). Diversa, infatti, può essere l’ottica con cui si osserva il fenomeno: dal lato dell’offerta di lavoro, il mismatch si lega al comportamento dei soggetti alla ricerca di un’occupazione; dal lato della domanda, lo stesso tende a riflettere le modalità di impiego delle competenze dei lavoratori da parte delle imprese. Differenti possono essere, inoltre, le «approssimazioni» di ciò che si vorrebbe realmente misurare, ovvero il disallineamento fra il capitale umano richiesto e posseduto: il numero di anni di studio oppure il livello del titolo di studio, seppure forniscano una valutazione sommaria, sono facilmente disponibili; viceversa la misura delle competenze e delle conoscenze nel loro dettaglio, ancorché più prossima al concetto di capitale umano, è onerosa e confinata a poche indagini statistiche. Anche la natura degli indicatori utilizzati può essere diversa e richiamare aspetti soggettivi, quando la misura è sintesi di una valutazione del lavoratore/impresa, oppure riferirsi allo scostamento della situazione del singolo lavoratore/impresa da una condizione media/modale osservata o presunta.

La recente indagine Istat sull’inserimento professionale dei dottori di ricerca (Istat, 2018) permette di approfondire un particolare aspetto del fenomeno del mismatch istruzione-lavoro, con riferimento al segmento più istruito della popolazione, che pertanto, in termini di anni di studio, rappresenta il «miglior» capitale umano disponibile.

Nel 2018, i dottori di ricerca coinvolti nell’indagine (coloro che hanno conseguito il titolo nel 2012 e 2014) mostrano un tasso di occupazione pari al 93,8%. All’insieme di individui che ha iniziato l’attività lavorativa dopo il dottorato (più del 70%) è stato chiesto di valutare il rendimento del dottorato nella fase di accesso al lavoro (‘Il dottorato era espressamente richiesto per accedere alla sua attuale attività lavorativa?’) e la spendibilità del titolo nell’esecuzione dei compiti previsti (‘Secondo lei, il dottorato è necessario per svolgere la sua attuale attività lavorativa?’).

Quasi la metà dei dottori di ricerca ritiene che il titolo non sia necessario nello svolgimento delle mansioni previste, mentre è ben più contenuta (18,1%) la quota di rispondenti che non lo ritengono utile nella fase di accesso al lavoro. Questo risultato è in linea con una parte della letteratura che sottolinea lo scollamento fra le competenze acquisite nei percorsi di istruzione, che privilegiano solo alcune componenti del capitale umano, per lo più teoriche ed astratte, e le competenze collegate al lavoro e richieste dalle imprese. Secondo questa linea interpretativa, il mismatch non sarebbe dunque segnale di un eccesso di capitale umano, quanto piuttosto di un’inadeguatezza dello stesso rispetto alle competenze richieste dal mercato del lavoro.

L’ utilità formale (nella fase di accesso) o sostanziale (nello svolgimento dell’attività lavorativa) del titolo varia, nelle valutazioni dei dottori di ricerca, a seconda delle discipline (Figura 1): la formazione dottorale sembra, infatti, rispondere in modo più adeguato alle richieste del mercato per i dottori delle “scienze dure” e meno per i colleghi delle scienze giuridiche, che nel 56,7% dei casi ritiene le conoscenze acquisite non necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa.

La concomitante scarsa utilità formale e sostanziale del dottorato, che individua una condizione di mismatch istruzione-lavoro, viene dichiarata dal 17,1% degli intervistati. Si tratta di un segnale non trascurabile perché foriero di fenomeni negativi. La letteratura mette in luce, infatti, una correlazione tra mismatch, intensità del turn-over, minore produttività e, in connessione a quest’ultima, inferiore capacità di crescita e di innovazione da parte delle imprese. Le ricadute negative si registrano anche per gli individui, in termini di ridotte retribuzioni e di minore appagamento per il lavoro. Relativamente a tali aspetti, le analisi condotte sui dati dell’indagine sull’inserimento dei dottori di ricerca mostrano come, in presenza di mismatch e a parità di altre condizioni, si dimezzi la probabilità di esprimere piena soddisfazione per il lavoro svolto e si riduca del 12% la retribuzione.

Figura 1 – Dottori di ricerca (a) occupati dopo il conseguimento del titolo che dichiarano la scarsa utilità formale e sostanziale del dottorato per area disciplinare. Anno 2018 (valori percentuali)

Anche la società nel suo complesso non vede un adeguato ritorno degli investimenti destinati all’istruzione. Il mancato utilizzo del capitale umano può concorrere, infatti, ad alimentare la spinta dei giovani a cercare una più adeguata collocazione nel mercato del lavoro fuori dal nostro Paese: nel 2018 il 20 % dei dottori occupati che hanno conseguito il dottorato in Italia, lavora all’estero. Ciò rappresenta una perdita per il nostro Paese che dopo aver investito nella formazione dei giovani lascia che questi mettano a frutto la loro competenza altrove, principalmente nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Germania e in Francia (Figura 2).

 

Figura 2 – Graduatoria dei primi quattro paesi in cui vivono i dottori di ricerca (a) che lavorano all’estero, per area disciplinare. Anno 2018 (valori percentuali)

In linea generale il fenomeno della mobilità può rappresentare un elemento di crescita per i paesi coinvolti nel caso in cui consista in uno scambio e non in una perdita di competenze.

Il nostro Paese risulta invece poco attrattivo come meta sia per gli studi dottorali (nel 2017, gli studenti stranieri iscritti in Italia a un corso di dottorato erano il 14,9% del totale, la stessa percentuale in Francia era il 39,7% e nel Regno Unito il 42,1%) sia per il lavoro e la ricerca (quattro anni dopo il dottorato in Italia, solo il 26,3% degli stranieri lavora nel nostro Paese).

A ciò si aggiunge la scarsa propensione al ritorno da parte di coloro che si sono trasferiti all’estero, favorita non solo dalle migliori condizioni economiche (i dottori di ricerca che lavorano all’estero percepiscono un reddito superiore di quasi 1.000 euro rispetto ai colleghi che lavorano nel Centro-nord) ma anche dalle caratteristiche del lavoro svolto, che risulta più consono agli studi conclusi. Le attività di ricerca e sviluppo, che presuppongono l’utilizzo di competenze che l’istruzione dottorale è deputata a sviluppare e consolidare, coinvolgono l’88,7% dei dottori di ricerca che lavorano all’estero a fronte del 66,7% dei colleghi che lavorano in Italia. Anche il confronto del settore di impiego mostra una maggiore aderenza del lavoro al proprio percorso di studi per chi, dopo aver conseguito il dottorato in Italia ha deciso di migrare all’estero: il 43,1% risulta infatti occupato in ambito accademico, settore che rappresenta lo sbocco tradizionale per gli studi dottorali, rispetto al 24,7 per cento di chi è rimasto in Italia. Il settore della ricerca pubblica e privata registra una quota di occupati all’estero superiore di 11 punti percentuali a quella nazionale. Tutto ciò trova una sintesi nell’incidenza del fenomeno del mismatch, che riguarda un quinto dei dottori occupati in Italia e il 6,5 per cento degli occupati all’estero.

Questi risultati suggeriscono l’importanza di monitorare nel tempo il fenomeno del mismatch, unitamente agli indicatori tradizionali sullo stato del mercato del lavoro, per evitare di sottostimarne i costi che, come è stato evidenziato, non riguardano esclusivamente gli individui e le imprese ma possono ricadere anche sulla società nel suo complesso. Il mismatch richiede dunque adeguati interventi sia dal lato della domanda, ad esempio con incentivi all’assunzione di lavoratori qualificati, sia da quello dell’offerta, con un orientamento dei finanziamenti che privilegi i percorsi dottorali nelle aree disciplinari caratterizzate dalle migliori performance nel mercato del lavoro.

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