Il Reddito di Inclusione e i poveri da mancanza di lavoro: alcuni dilemmi dell’attivazione

Liliana Leone ragiona sulle caratteristiche e sul ruolo delle pratiche di attivazione nei sistemi di reddito minimo - dunque, anche con riferimento al Reddito di Inclusione (REI) - a partire dai risultati della valutazione della misura Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA). Leone concentra in modo particolare la propria attenzione sui casi in cui la causa primaria alla base delle condizioni di povertà sia la mancanza di lavoro e indica i problemi specifici che essi pongono alle pratiche di attivazione.

La recente misura di contrasto della povertà e integrazione al reddito denominata Reddito di Inclusione (ReI) (D.Leg. 147/2017 in attuazione L.33/2017), come la misura ‘ponte’ Sostegno per l’Inclusione Attiva (SIA) del settembre 2017, prevedono l’adesione da parte dei membri del nucleo beneficiario a un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa. Queste note si concentrano sulle pratiche di attivazione quando la causa primaria della povertà è la mancanza di lavoro (nuclei senza bisogni complessi) e si basano sui risultati della valutazione del primo anno di implementazione del SIA, realizzata intervistando 332 Ambiti territoriali sociali (ATS), pari al 56% degli ATS italiani, e esaminando otto studi di caso in altrettante regioni (cfr. Rapporto di valutazione dal SIA al REI, a cura di L. Leone, Alleanza contro la povertà, 2017).

Componenti chiave dell’attivazione nel SIA e nel REI. Alcune componenti chiave alla base del SIA, del REI e della maggior parte dei trasferimenti monetari con condizionalità soggette alla prova dei mezzi (L. Leone , F. Mazzeo Rinaldi e G. Tomei, Misure di contrasto della povertà e condizionalità. F. Angeli 2017) sono:

  • Il progetto personalizzato. In risposta a bisogni complessi che caratterizzano molti nuclei familiari in condizioni di povertà, il legislatore ha previsto che il servizio sociale professionale realizzi un’analisi preliminare e una valutazione multidimensionale per identificare i bisogni del nucleo nonché le condizioni abitative, lavorative e sociali di tutti i membri. Successivamente, sarà proposto e concordato un progetto personalizzato mirato al superamento della condizione di povertà, al reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale. Se la povertà è connessa alla sola situazione lavorativa non si dà corso al ‘progetto personalizzato’ (D. Leg 147/2017 Art.5), ma il comune contatta il Centro per l’Impiego (CPI) competente (D. Leg. 150/2015, Art 20-23) affinché convochi gli interessati che sottoscriveranno il Patto di servizio o potranno fruire di un assegno di ricollocazione spendibile per un programma di ricerca intensiva dell’occupazione.
  • La previsione di condizionalità comportamentali. I componenti del nucleo familiare devono impegnarsi i) a tenere contatti frequenti con i competenti servizi responsabili del progetto; b) a svolgere azioni di ricerca attiva del lavoro assicurando disponibilità alle attività proposte (v. Art 20- 23 D. Leg. 150/2015); c) a frequentare corsi scolastici; d) a tenere comportamenti di prevenzione delle malattie e cura della salute. Questi impegni e comportamenti si presume servano a impedire il perdurare delle condizioni di esclusione sociale e povertà (anche intergenerazionale) e a contrastare l’opportunismo (v. strategie welfare-to-work).
  • L’integrazione tra politiche sociali e servizi per l’impiego. Vengono promosse forme di coordinamento tra i servizi e in primis tra politiche sociali e politiche attive del lavoro (formazione, tirocini lavorativi, tutoraggio e accompagnamento al lavoro). Come sottolinea la recente risoluzione del Parlamento Europeo sui regimi di reddito minimo (P8_TA-PROV (2017)0403), il modo migliore per combattere la povertà e l’esclusione sociale è creare posti di lavoro dignitosi, anche tramite programmi di occupazione sociale. Il rafforzamento dei servizi per l’impiego è quindi una condizione imprescindibile per la presa in carico dei beneficiari del REI.

Povertà da mancanza di lavoro: alcuni risultati della valutazione del SIA. Nel citato rapporto di valutazione emerge una prevalenza al Sud di ‘casi non complessi’, cioè di nuclei con problemi dovuti alla disoccupazione e presi in carico direttamente dai Centri per l’Impiego. Nel Sud il 20,6% degli ATS, contro il 5,1% di quelli del Nord, ha affermato che la maggior parte dei nuclei beneficiari del SIA (da 51 a 100%) ha problemi connessi esclusivamente alla mancanza di lavoro e sono stati presi in carico direttamente dai CPI.

Il coordinamento territoriale tra interventi sociali e di attivazione lavorativa è un punto critico. Prima dell’avvio del SIA solo nel 67% degli Ambiti del Centro/Nord e nel 33% di quelli del Sud erano state sperimentate forme di integrazione tra servizi sociali e CPI. La presa in carico dei nuclei da parte dei CPI richiede processi di coordinamento orizzontale tra servizi ed è stata in media 6 volte maggiore (18,5 vs 2,9) negli ATS in cui esistevano forme di integrazione istituzionale ed era stata costituita l’Equipe multidisciplinare. Infatti, la sottoscrizione di un protocollo di intesa tra CPI e ATS (presente quasi ovunque) non è sufficiente se è priva di una definizione operativa delle risorse e dei servizi disponibili per seguire i beneficiari del SIA.

A eccezione dei servizi di orientamento, consulenza e informazione previsti in 8 ATS su 10, tutti i servizi previsti nei progetti personalizzati risultano più diffusi nel Centro/Nord. I Centri di formazione professionale, le scuole, i servizi per le dipendenze, i servizi sanitari dedicati ai minori o altri servizi sanitari sono stati coinvolti nei protocolli di intesa sottoscritti a livello di ATS con percentuali molto ridotte, intorno al 30%,

In quasi tutti i casi analizzati emerge una difficoltà di rapporto con i CPI dovuta a diversi fattori storici e contestuali. Si segnalano in particolare: (a) il ritardo nel processo di riforma delle Agenzie per il lavoro e il disallineamento tra azioni di rafforzamento dei CPI (organici e competenze carenti) e impegni previsti dal Patto di servizio; (b) la debolezza delle competenze degli operatori circa la presa in carico congiunta della nuova utenza e la presenza di pregiudizi negativi sull’esito dei percorsi di attivazione dei beneficiari del SIA.

Due questioni. L’utilizzo del SIA-ReI per far fronte a problemi di povertà connessi prioritariamente alla mancanza di occupazione (o di un’occupazione con retribuzione dignitosa) solleva due principali questioni.

1)Proprio laddove vi sarebbe necessità maggiore di integrazione con politiche attive del lavoro sono maggiori le carenze sul versante dei servizi sociali e per l’impiego. Uno dei punti di rilievo riguarda, ad esempio, il riequilibrio del personale degli ATS e la messa a regime – con personale stabile – del servizio sociale professionale in particolare in quelle regioni del Centro-Sud (Campania, Lazio e Abruzzo), dove opera complessivamente negli enti locali e nella sanità meno di 1 assistente sociale ogni 4000 abitanti (Valore medio in Italia 1 ogni 3450 ab.).

In Sicilia, ad esempio, la percentuale di persone a rischio di povertà o esclusione sociale (55,4%) è la più alta tra le regioni dell’UE-28 (Rapporto di monitoraggio sui servizi per il lavoro, Isfol 2016). La Sicilia è la regione con il maggior numero di dipendenti nei CPI (1600 e in oltre il 99% dei casi a tempo indeterminato), ma anche con il livello di istruzione degli stessi più basso (solo 8,9% di laureati) e il carico di lavoro, e quindi di produttività, degli operatori è il più basso, al pari quello della Sardegna (la Puglia e la Lombardia hanno il quadruplo di persone in carico con DID).

Sebbene povertà e disoccupazione giovanile rappresentino una priorità, i servizi sociali, a causa del razionamento delle risorse, tendono a concentrarsi sul ‘capofamiglia’ talvolta a scapito di potenziali sinergie con azioni delle politiche giovanili ed educative (es: Garanzia giovani, IeFP). Per evitare che l’invio ai CPI delle persone disoccupate rappresenti una vera e propria delega, la misura d’integrazione al reddito va associata non solo a piani di rafforzamento della qualità dei servizi (servizi sociali e servizi per l’impiego), ma a politiche mirate allo sviluppo economico e alla creazione di occupazione.

Occorre potenziare i posti di lavoro e non intervenire direttamente sulle persone. (…) la vera uscita è creare attorno una realtà economico sociale che possa rispondere ai bisogni.” (Ass. sociale Comune di Palermo).

2) Il secondo aspetto riguarda possibili effetti paradossali delle condizionalità. Vi sono situazioni in cui s’impone il rispetto di appuntamenti presso i servizi, con un preavviso di 1-3 giorni. Tutti i membri della famiglia dovrebbero presentarsi all’incontro anche nei casi in cui, per mancanza di risorse, non è stato attivato alcun servizio o progetto personalizzato. Come si evince da uno degli studi di caso realizzati in Campania in alcuni ATS la maggior parte dei beneficiari del SIA esprime solo un bisogno economico e dunque non richiederebbe una presa in carico complessa e integrata.

“Nonostante queste caratteristiche, la scelta del servizio sociale è consistita nel mettere a punto per tutti i progetti personalizzati (…) per evitare che i beneficiari percepissero il contributo economico (la parte passiva della misura) come benefit privo di condizionalità e verifiche da parte dei servizi sociali.” (Rapporto di valutazione, 2017:170)

Conclusioni. L’efficacia delle politiche di contrasto della povertà dipende dall’implementazione e dall’adozione di un approccio globale di ‘inclusione attiva’, basato sull’integrazione di tre pilastri: un adeguato supporto al reddito, mercati del lavoro inclusivi con interventi sia sul versante della domanda (sviluppo di settori in crescita come la green economy) che dell’offerta di lavoro (formazione, riqualificazione, bilancio di competenze) e accesso a servizi di qualità.

Il ReI riguarda il primo pilastro; le strategie di attivazione che lo ispirano sono centrate prevalentemente sul versante dei soggetti beneficiari ed enfatizzano la dimensione della responsabilizzazione. Esse da sole non bastano a risolvere i problemi di povertà dovuti a debolezza del mercato del lavoro ed è improprio caricarle di simili attese. In una società che non garantisce la piena occupazione, la mancanza di occupazione non può essere prioritariamente attribuita a carenze individuali, a scarse capacità o volontà di ‘attivarsi’ o a dipendenza dal welfare. “Un’impostazione questa che ha influito sulla maggior parte degli schemi di reddito minimo che hanno incluso norme di condizionalità legando il trasferimento economico all’attivazione lavorativa del beneficiario.” (v. Cap.2 In: Leone, Mazzeo Rinaldi, Tomei 2017:5).

Le diverse forme di ‘attivazione’ sperimentate dalle regioni e dagli ATS, in raccordo con attori dell’economia sociale, possono svolgere una funzione preziosa per rafforzare i processi d’inclusione socio- lavorativa e sviluppare innovazioni. Negli studi di caso realizzati a Pordenone e Modugno sono emerse pratiche interessanti di ‘lavoro socialmente utile’ (percorsi di lavoro di comunità/di quartiere e in attività di volontariato orientate alla creazione di socialità, partecipazione sociale e cittadinanza attiva). A Brescia si stanno sperimentando modelli d’inserimento lavorativo che mirano a superare la frammentazione dei flussi dei servizi anche attraverso l’utilizzo di strumenti amministrativi innovativi (‘doti’ per la realizzazione di progetti personalizzati).

E’ oggi in corso il completamento della riforma del mercato del lavoro e il rafforzamento dei servizi per il lavoro e delle politiche attive. Sono stati stanziati finanziamenti destinati al trasferimento alle regioni del personale dei CPI, alla loro stabilizzazione e a garantire l’ingresso di ulteriori 1.600 unità di personale, di cui 600 esclusivamente dedicati alla presa in carico dei beneficiari del ReI e alla collaborazione con i servizi sociali.

Questa soluzione conferma la distinzione funzionale tra politiche attive del lavoro, in capo ai CPI, e politiche sociali in capo a comuni e ATS, e separa i percorsi dei beneficiari della misura ReI in funzione degli esiti dell’assessment e della presenza di bisogni complessi o piuttosto della sola mancanza di occupazione. Si conferma il modello d0 integrazione dei servizi sociali e per l’impiego già presente in Italia, caratterizzato da livelli bassi di coordinamento verticale e medio-bassi di coordinamento orizzontale e che, diversamente dal modello one-stop-shop adottato in Germania e Regno Unito (ma analogamente alla Svezia), non si basa su un unico punto di accesso per l’erogazione del reddito minimo e dei servizi a esso connessi.

Gli approcci con case management integrato (caratterizzati dall’integrazione fra mantenimento del reddito, occupazione e formazione) sono, invece, risultati “più efficaci di quelli tradizionali, sia perché tendono a modificare la cultura del welfare, fornendo particolare rilevanza all’occupazione e alla preparazione al lavoro, sia perché aiutano i beneficiari ad affrontare più velocemente i nuovi impegni riducendo i tempi per la risoluzione dei casi” (Leone, Mazzeo Rinaldi, Tomei 2017:175). Occorre, pertanto, evitare che la previsione di due percorsi per i beneficiari del ReI, in carico agli ATS o ai CPI, si traduca in un indebolimento degli scambi tra i servizi e in una mancanza di fatto di processi integrati di presa in carico dei nuclei più fragili e con bassi livelli d’istruzione.

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