Il reddito di cittadinanza all’italiana: migliorabile ma utile

Fernando Di Nicola esamina il Reddito di Cittadinanza, recentemente introdotto e dopo aver riconosciuto la necessità di un assegno che riduca la povertà estrema, si sofferma su alcuni aspetti problematici. In particolare, osservando la distribuzione dei beneficiari e degli assegni, sostiene che saranno favoriti i nuclei monocomponente che dichiarano redditi nulli o quasi, mentre saranno penalizzate le famiglie numerose con figli minori. Ulteriori effetti indesiderati riguardano la riduzione dell'offerta di lavoro e i maggiori benefici per lavoro nero e evasione.

L’evoluzione dell’economia mondiale, con robotizzazione e globalizzazione crescente di persone, beni e servizi, sta determinando effetti distributivi sempre più rilevanti. Sono stati misurati e sottolineati l’aumento della concentrazione dei redditi e delle disuguaglianze, la crescita della frequenza e dell’intensità della povertà, una distribuzione primaria (quella che il mercato attribuisce alle varie figure prima ed al lordo dell’azione redistributiva del sistema di imposte e benefici) decisamente cambiata, che sfavorisce soprattutto le mansioni esecutive, più esposte alla concorrenza internazionale. Inoltre sono aumentati sia i rischi di carriere frammentate e espulsioni premature dal mercato del lavoro, sia le restrizioni del sistema di welfare europeo, che hanno colpito pensioni e sanità e, per questa via, hanno accentuato i rischi di cui si è detto.

L’azione redistributiva attraverso imposte e benefici è rimasta ampia, pur con qualche eccezione, ma non è riuscita a ridurre l’alta disuguaglianza nei redditi disponibili (netti da imposte e contributi, ma con i trasferimenti sociali di ogni tipo). In questo contesto è dunque del tutto condivisibile l’introduzione (di fatto) anche in Italia di uno strumento di riduzione della povertà, denominato reddito di cittadinanza (RdC).

In realtà in precedenza erano stati introdotti almeno due strumenti di intervento, denominati SIA (sostegno all’inclusione attiva) e REI (reddito di inclusione), ma le risorse destinate al loro finanziamento erano talmente modeste (il più generoso e recente dei due, il REI, è risultato nel 2018 abbondantemente al di sotto di un miliardo) da potersi considerare poco più di una affermazione di principio.

Per dare un’idea dell’entità delle risorse che sarebbero necessarie, se tra le molteplici definizioni di povertà adottassimo quella di povertà relativa dell’Eurostat, che fissa la soglia di povertà in corrispondenza di un reddito disponibile “equivalente” inferiore al 60% del reddito disponibile equivalente medio nazionale, le risorse finanziarie necessarie per portare i redditi di tutti i poveri fino a quella soglia si aggirerebbero per l’Italia attorno ai 40 miliardi.

Di questi elementi è bene tenere conto nel valutare il reddito di cittadinanza varato col D.L. 4/2019. La previsione di base è attribuire ad ogni nucleo povero, definito con una griglia di stringenti requisiti reddituali e patrimoniali, la differenza tra una soglia di povertà definita come prodotto tra un reddito di 6mila euro annui (7560 se tutti ultra 67enni) e un’apposita scala di equivalenza, ed il proprio reddito familiare, comprensivo anche di redditi esenti o assistenziali (se ancorati ad una prova dei mezzi). A questa differenza si aggiunge un ulteriore ammontare pari all’eventuale canone di affitto registrato, con un tetto di 3360 euro annui (o 1800 per un nucleo di ultra 67enni). Per questa somma è previsto un tetto pari a 9360 euro per la scala di equivalenza meno il reddito posseduto. I requisiti più in particolare sono: 1) un ISEE minore di 9360 euro; 2) un reddito familiare annuo inferiore a 6000 euro per la scala di equivalenza (che sale a 7560 per nuclei di soli ultra 67enni e a 9360 per nuclei in affitto); 3) un patrimonio immobiliare senza prima casa e calcolato in base ai valori IMU inferiore a 30mila euro; 4) giacenze medie finanziarie entro i 6mila euro se single, gli 8mila euro se in due, i 10mila euro se in tre e soglie superiori per i nuclei numerosi o con disabili.

Su questo impianto di base possono essere fatte alcune osservazioni generali preliminari. In primo luogo, qualunque misura di povertà si scelga essa si fonda o su spese o su redditi variamente definiti, e dunque la griglia di requisiti, ripresi curiosamente quasi per intero dal REI e fondati principalmente su soglie patrimoniali differenziate e indipendenti per la componente immobiliare e finanziaria, fa sì che questa misura sia indirizzata a chi ha poco reddito ma soprattutto pochissimo patrimonio e perciò non possa essere considerata una tipica misura contro la “povertà”.

Il patrimonio, infatti, gioca un triplice ruolo:

  • Generatore di quote di reddito di origine patrimoniale, anche figurativo, computate anche nell’ISEE (uno dei requisiti del RdC);
  • Componente aggiuntiva, sempre ai fini ISEE, pari a ben il 20% del valore patrimoniale, calcolato però con franchigie ed esclusioni risalenti alla riforma 2015 dell’ISEE e prive di solidi ed espliciti agganci teorici o sistemici.
  • Infine, per il solo RdC (e per il previgente REI) attraverso i requisiti di accesso, consistenti in soglie massime di patrimonio immobiliare, pari a 30mila euro di valore imponibile IMU (la prima casa resta, inspiegabilmente esclusa se non per l’aggancio all’ISEE), e finanziario, tra 6mila e 11mila euro per il grosso dei nuclei. Questo terzo ruolo è particolarmente intenso ed escludente.

È evidente che almeno in parte l’uso di questi indicatori mira a ridurre il costo dell’intervento (un altro motivo essendo l’uso di sole informazioni presenti nelle basi dati DSU-ISEE); il problema è che questo massiccio uso dell’ISEE e di ulteriori requisiti patrimoniali produce anche una significativa distorsione allocativa e redistributiva dell’intervento, allontanandolo dalla riduzione della “povertà” variamente definita.

Questi primi richiami all’istituendo RdC suggeriscono di cogliere l’occasione per procedere ad una revisione dell’ISEE, il cui utilizzo è crescente ma le cui caratteristiche sono confuse, incongruenti e complesse: se l’ISEE deve svolgere un ruolo di indicatore, o misuratore, sarebbe utile che la fase di misurazione del reddito (o di altro ben definito indicatore) non prevedesse eccezioni, articolazioni, esclusioni, aggiunte, sovra o sotto ponderazioni e fosse tenuta distinta da quella del suo utilizzo per il quale, volta per volta e in relazione al tipo di applicazione, si potrebbero stabilire ed esplicitare soglie e integrazioni.

Un secondo elemento che caratterizza fortemente l’intervento è la scelta di una scala di equivalenza del benessere economico al variare della numerosità e della composizione familiare che appare molto “particolare”. Infatti, è basso il coefficiente individuale per i componenti successivi al primo (0,4 per i maggiorenni, 0,2 per i minorenni, senza considerazione specifica per disabili), ed è previsto un tetto complessivo estremamente ridotto (2,1), che opera già per alcuni nuclei di 4 persone e in modo sistematico per quasi tutti i nuclei più numerosi.

Anche questa misura sembra avere il solo comprensibile scopo di risparmiare risorse, ma è importante notare che ciò significa sganciarsi da una logica di stima tecnico-scientifica delle economie di scala intrafamiliari e decidere di favorire o sfavorire – implicitamente e dunque con minore trasparenza – determinati segmenti di popolazione povera. A parità di costi, un’opzione alternativa sarebbe stata quella di prevedere assegni massimi ridotti e decrescenti, ma con una buona scala di equivalenza.

Al riguardo, si consideri il caso di una coppia di pensionati con pensioni al minimo (attorno ai 6600 euro annui ciascuno), proprietari della casa di abitazione. Ebbene, tale coppia non fruirà di alcun assegno (anche se si trattasse di ultra-67enni per i quali la soglia reddituale da non superare è più favorevole: 7560 euro annui per la scala di equivalenza).

Un terzo importante elemento è la citata bipartizione dell’assegno spettante in due quote: la prima, pari alla differenza tra soglia di povertà e reddito posseduto (escludendo quello figurativo di mercato da casa di abitazione di proprietà); la seconda pari al canone di affitto, se registrato, con un tetto annuo di 3360 euro (o 1800 per i nuclei anziani).

Appare probabile che questa singolare scelta sia dovuta al fatto che la base dati delle DSU ISEE contenga il canone d’affitto ma non la rendita catastale, a partire dalla quale si potrebbe approssimare il reddito figurativo di mercato della casa di proprietà. Ma l’aver adottato questa formula comporta – oltre a una ormai consueta complicazione – anche due indesiderabili “iniquità”, una verticale ed una orizzontale. Si consideri il seguente esempio. Due nuclei in affitto possono ricevere, ceteris paribus, un diverso assegno in base alla diversa preferenza per la casa di abitazione, come espressa dal diverso canone d’affitto. Ancora, i nuclei in casa di proprietà non vengono differenziati, in termini di redditualità, sulla base del reddito figurativo di mercato della casa di abitazione, generando uguale beneficio a parità di altri redditi, ma in presenza di diverso valore e reddito di mercato della casa abitata.

Prima di mostrare qualche impatto atteso da questa riforma, ancora alcune considerazioni in tema di aliquote marginali effettive (e dunque sommerso, evasione, offerta di lavoro) e di “workfare”.

Dal punto di vista delle aliquote marginali effettive, cioè di quanta parte della variazione del reddito sia corretta dal sistema tax benefit, un meccanismo di formazione dell’assegno “per differenza” tra una soglia da raggiungere ed un reddito posseduto genera automaticamente, e per il solo RdC, un’aliquota del 100%. Come conseguenza più tangibile, se si dichiara un reddito inferiore (grazie all’evasione o al lavoro sommerso), l’assegno sale dello stesso importo, il reddito resta lo stesso in termini lordi e inferiore in termini disponibili (il reddito da lavoro verrebbe ridotto almeno dai contributi, ed in qualche caso anche da Irpef e addizionali). In un paese con sommerso ed evasione come l’Italia, si possono immaginare le conseguenze in tal senso di aliquote marginali così elevate, oltre al più generale effetto depressivo sull’offerta di lavoro.

Anche in questo caso, sarebbe stato meglio se lo stesso ammontare di risorse pubbliche fosse stato allocato diversamente, con un assegno massimo di importo inferiore (in sintonia con quanto proposto di recente sul Menabò da Cecilia Guerra e, con dovizia di particolari, dal rapporto Inps del luglio 2018), un meccanismo di calcolo non per differenza ma per moderata decrescenza (agganciata all’ISEE, all’ISR equivalente o ad altro e migliore indicatore) ed un allentamento conseguente dei forti requisiti patrimoniali.

I benefici sarebbero stati molteplici e importanti:

  1. Un minore assegno medio, ma per un numero di beneficiari maggiore (cioè una riduzione dei poveri non supportati);
  2. minori spinte all’evasione ed al sommerso, insieme a minor depressione dell’offerta di lavoro, legati ad una minore aliquota marginale implicita;
  3. minore necessità di approntare un ponderoso e costoso sistema di controlli e vincoli “amministrativi”, sui quali non mi dilungo, la cui efficacia appare ridotta, specie a seguito dell’interazione tra Centri per l’impiego, Tutor, obblighi di formazione, obblighi di lavori socialmente utili per il Comune, obblighi di un certo utilizzo dell’assegno, ed in certi tempi, e così via.

Gli impatti

Come si è detto in premessa, nonostante i tanti limiti, in gran parte qui segnalati, l’intervento costituisce il primo vero tentativo di riduzione dell’area di povertà.

In termini di competenza annua a regime, cioè senza tener conto delle particolarità di avvio nel primo anno, né del costo in assorbimento del previgente REI, il costo annuo del RdC si aggira (in base a quanto si osserva nell’audizione INPS al Senato sul D.L. n.4/2019 del 4 febbraio 2019) attorno agli 8,5 miliardi, con un assegno medio di poco più di 7mila euro e circa 1,2 milioni di nuclei (2,4 milioni di persone) beneficiari.

In termini di indici di concentrazione di Gini dei redditi disponibili si osserva una riduzione, anche se moderata, rispetto al 2018 (col REI già operante): dal 40,9% al 39,9%.

Più interessante la modifica dei principali indicatori della povertà, che mostrano una riduzione più contenuta in termini di frequenze (già influenzate dal REI, dai meccanismi d’accesso simili), ma più significativa in termini di intensità.

I principali aggregati possono essere osservati per diverse categorie, tra le quali spicca quella per tipo di reddito prevalente del nucleo.

Si noti come i nuclei senza reddito da lavoro (perlomeno quello dichiarato) siano quelli in maggior numero e che assorbono quasi la metà delle risorse.

Risulta evidente (per i motivi esposti) il più modesto ruolo giocato dal RdC a favore dei nuclei di pensionati.

Se si considerano gli impatti per tipo di nucleo, emerge che i nuclei monocomponente sono quelli maggiormente beneficiati.

Le coppie bi-reddito risultano praticamente escluse, anche se hanno figli, per la particolare scala di equivalenza adottata oltre che per il più elevato reddito spesso guadagnato.

Uno sguardo d’insieme sul tradizionale impatto in termini di incidenza per decimi di reddito equivalente, cioè di intensità dell’azione redistributiva più analiticamente osservata, viene offerto dal grafico che segue, che conferma come la quasi totalità delle risorse si concentri sul decimo più povero mentre resta praticamente escluso il secondo decimo, a causa delle citate estreme restrizioni dei requisiti, che determinano “trappole della povertà”.

Da questa disamina appare confermata la duplice valenza di questo nuovo istituto. Da un lato, un sostegno strutturale che attenua drasticamente le condizioni di povertà estrema, conseguenza anche di malfunzionamenti del nostro sistema economico e di welfare (si pensi ad es. all’emergente fenomeno degli “esodati”, fuori dal sistema produttivo ma senza ammortizzatori sociali e pensione per molti anni ancora). Il che ne giustifica ampiamente l’adozione.

Dall’altro, un sostegno che per vari motivi affluisce anche a non bisognosi, farraginoso e con ingiustificate disparità di trattamento, che a causa di alcuni difetti rischia di portare con sé indesiderati effetti collaterali quali minore offerta di lavoro e maggiori sommerso ed evasione.

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