Il progresso sociale oggi e domani: Valutazioni e prospettive dal gruppo di studio internazionale sul Progresso Sociale (IPSP) Seconda parte

Gianluca Grimalda proseguendo la presentazione del Rapporto del Panel Internazionale sul Progresso Sociale (IPSP) illustra le principali proposte contenute nel Rapporto. La principale, ma non l’unica, è realizzare una via egualitaria allo sviluppo e al progresso sociale ispirata al modello social-democratico di stato sociale - considerato in grado di coniugare efficienza e equità - i cui capisaldi sono: limitata dispersione salariale, programmi di welfare universali e redistribuzione delle dotazioni, che include anche un reddito minimo garantito.

Dopo aver delineato nella prima parte di questo articolo i i fondamenti della nozione di progresso sociale e la relazione tra benessere soggettivo ed oggettivo nel precedente numero, esaminiamo alcune delle proposte di politica economica del Panel Internazionale per il Progresso Sociale (IPSP http://www.ipsp.org/), basate sul Capitolo 8 del Rapporto.

Non c’è alternativa? Le parole contano. Il Primo Ministro inglese Thatcher disse “Non c’è alternativa” al modello di capitalismo liberale verso cui le sue riforme fecero convergere la Gran Bretagna nel corso degli anni ’80. Il politologo Fukyuama sostenne che la conclusione del ventesimo secolo avrebbe portato con sé “la fine della storia”: il crollo del comunismo avrebbe permesso al modello capitalista liberale di diffondersi a livello planetario. Queste due affermazioni hanno avuto un effetto dirompente sul dibattito di politica economica degli ultimi decenni, ma come si sostiene nel Rapporto, entrambe sono false. I modelli capitalistici sono molti e agli estremi ci sono il modello social-democratico tipico dei Paesi scandinavi e quello liberista, di cui gli Stati Uniti sono l’esempio emblematico, che sono diversi per il livello della tassazione e la presenza dello stato nella gestione della spesa sociale e del welfare nonché nella direzione (che è diversa dalla gestione) della politica economica. L’Italia occupa una posizione intermedia tra questi estremi: da un lato, l’intervento statale non è trascurabile dall’altro, è presente un elemento corporativista per cui l’accesso ai servizi sociali dipende dal settore lavorativo e dal reddito di cui si gode e non ha carattere universale come nei sistemi scandinavi.

Peraltro, anche i sistemi classificati come liberisti sono molto distanti dall’ideale di riferimento. Anche negli Stati Uniti lo stato ha un ruolo non secondario nella gestione della politica economica – in particolare nell’innovazione tecnologica (M. Mazzuccato The entrepreneurial state. Soundings, 2011) –e i livelli di tassazione e redistribuzione, pur molto inferiori a quelli Europei, sono comunque superiori a quelli raccomandati dai sostenitori dello “stato minimo”, che vorrebbero limitare le funzioni dello stato a sicurezza, legalità e politica estera. Come mostra la Figura 1 che riguarda 4 stati – ma tutte le economie sviluppate occidentali hanno seguito lo stesso andamento –lo stato minimo è stato abbandonato a partire dal 1910.

Figura 1: Evoluzione delle entrate fiscali

Anche l’idea di libero mercato ha alternative. Il mercato è un’istituzione irrinunciabile per la produzione di benessere, come mostrano i fallimenti dei tentativi di farne a meno come sistema di allocazione dei beni (si pensi all’Unione Sovietica e alla Cina sotto Mao Tse Dong). Ma il mercato può (e deve) essere regolato per raggiungere obbiettivi di giustizia (ad esempio proibendo il lavoro minorile e la discriminazione ingiustificata) e per evitare le enormi disuguaglianze economiche e di potere politico a cui ineluttabilmente condurrebbe.

Una via egualitaria allo sviluppo. Appare paradossale che, negli ultimi decenni, per riformare i sistemi di welfare si sia guardato ai sistemi tendenzialmente liberisti e non a quelli socialdemocratici. I Paesi scandinavi, malgrado le recenti riforme, sono in cima alle classifiche di sviluppo umano, benessere individuale sia soggettivo che oggettivo, e reddito pro capite; inoltre disoccupazione e disuguaglianza di reddito e ricchezza sono tra le piú basse al mondo.

Spesso si afferma che uno stato sociale esteso non è possibile in un’epoca di globalizzazione. Ma le istituzioni di base degli stati sociali sono state introdotte negli anni precedenti alla prima guerra mondiale, quando il grado di apertura economica e i flussi migratori erano analoghi agli attuali. Dani Rodrik sostiene infatti che la globalizzazione sia una  delle ragioni d’essere dello stato sociale, perchè essa accresce l’incertezza dell’occupazione e del reddito, e quindi anche la richiesta di protezione sociale.

Nel Rapporto, in opposizione con la vulgata neo-liberale, si sostiene che le politiche egualitarie caratteristiche del modello scandinavo possono promuovere e non frenare lo sviluppo e per questo si propone di applicarle anche ai paesi più poveri.

Kalle Moene spiega quali siano i tre capisaldi di quel modello.

(1) Ridotta dispersione salariale, ottenuta attraverso una prevalente contrattazione a livello nazionale e grazie al coordinamento tra sindacati ed associazioni imprenditoriali. Questo sistema di contrattazione fu introdotto non per ragioni egualitarie ma di efficienza: con salari flessibili e fissati a livello di impresa, potrebbero sopravvivere, pagando salari inferiori alla media, imprese poco efficienti. Inoltre, con salari flessibili, il costo di introdurre innovazioni tecnologiche sarebbe superiore perchè le imprese più efficienti pagherebbero salari più alti in caso di innovazione. Tali argomentazioni hanno supporto empirico. La produttività totale dei fattori produttivi in Norvegia è più alta che negli Stati Uniti e presenta una minore dispersione tra i vari “livelli” tecnologici rispetto ad altri Paesi. Complementare alla contrattazione centralizzata è un modello di “flexcurity” nel mercato del lavoro che permetta il massimo sfruttamento delle innovazioni tecnologiche.

(2) Sistemi di welfare universali. Il secondo caposaldo è rappresentato da programmi quali: sostegno al reddito di mercato, sicurezza sociale, accesso gratuito a sanità ed istruzione. Il sistema ad accesso universale appare preferibile a quello condizionato al reddito (“means-tested”), perché è in grado di generare maggiore consenso tra i cittadini; perché verificare le condizioni di accesso al beneficio (che oltre tutto si prestano alla diffusione di pratiche illegali) è costoso; perché, infine, la condizionalità lascia i potenziali beneficiari spesso senza tutele. Inoltre una maggiore eguaglianza salariale accresce la domanda di politiche egualitarie, perchè con salari minimi più elevati si perderebbe di più con la perdita del posto del lavoro. La Figura 2 mostra che nei Paesi a maggiore uguaglianza salariale le politiche sociali sono più generose.

Figura 2: Relazione tra dispersione salariale ed indice di generosità del welfare.

Note: Il grafico riporta valori medi dell’indice di generosità del welfare nel periodo 1975-2010. La dispersione salariale è calcolata sui salari orari precedenti la tassazione. La figura è tratta da Barth e Moene (The Equality Multiplier. How Wage Compression and Welfare Spending Interact.” Journal of the European Economic Association, 2015).

Fonti: Scruggs (“Social Welfare Generosity Scores in CWED 2: A Methodological Genealogy.” CWED Working Paper Series.2014) per l’indice di generosità del welfare; OECD per dispersione salariale.

(3) Redistribuzione delle risorse iniziali. Il terzo caposaldo consiste nella redistribuzione delle risorse su cui un individuo può contare prima di accedere al mercato, che includono sia capitale umano che fisico. Rispetto alle qualifiche professionali ed abilità in cui consiste il capitale umano va assicurato non solo l’accesso gratuito al sistema dell’istruzione ma anche la possibilità di aggiornamento durante tutta la vita lavorativa. La redistribuzione del capitale fisico si realizza con misure come la tassazione delle eredità oppure una riforma agraria che eviti la concentrazione eccessiva nell’accesso alle terre coltivabili. In questa redistribuzione può rientrare anche un reddito minimo garantito (RMG) con caratteristiche di incondizionalità. Come ha fatto notare anche Atkinson (in Inequality: What can be done?. Harvard University Press. 2015), la incondizionalità del RGM è essenziale per evitare di creare una “trappola della povertà”: se, ad esempio, il RGM fosse condizionato all’essere disoccupato, si fornirebbe un grande (dis)incentivo a non accettare posti di lavoro. Il RGM è incluso nelle politiche di redistribuzione delle risorse iniziali piuttosto che in quelle di assistenza anche perché, in questo modello, esso è una risorsa che il cittadino può usare per investire nel proprio capitale umano.

E’ esportabile il modello scandinavo? “Esportare” il modello sociale scandinavo – come qualsiasi sistema sociale – in un altro contesto è tutt’altro che semplice. Esistono prima di tutto difficoltà di carattere culturale. Il sistema scandinavo si basa su un “ethos sociale” di tipo cooperativo: in un famoso discorso del 1928, Per Albin Hansson, uno dei capi del partito social-democratico svedese tracciò un’analogia tra la famiglia e la società. Nella famiglia che vive in armonia non ci sono nè privilegiati nè esclusi, lo stesso deve valere tra i cittadini di uno stato. L’uguaglianza formale non è sufficiente occorre quella sostanziale.

Tale ethos cooperativo sembra distante da quello individualista proprio dei sistemi anglosassoni e ciò può ostacolare la realizzazione di un sistema egualitario.. Non a caso i Paesi scandinavi hanno livelli di fiducia nel prossimo tra i più alti al mondo. Il problema è complesso ma gli studi di Inglehart e Welzel (Modernization, cultural change, and democracy: The human development sequence. Cambridge University Press. 2005) mostrano che norme sociali orientate al senso del collettivo tendono ad emergere con lo sviluppo economico. Inoltre, le ideologie non sono immutabili. Sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito prima della svolta Reaganiana e Thatcheriana degli anni ’80 la tassazione dei redditi era elevatissima, quasi un’espropriazione (Figura 3).

Figura 3: Evoluzione dell’aliquota più elevata dell’imposta sui redditi

Fonte: Piketty (2014)

 

Agli inizi del ventesimo secolo molti intellettuali statunitensi si vantavano del loro pioneristico spirito egualitario, ed economisti come Wilford King vedevano con sfavore l’aumento della disuguaglianza di ricchezza, temendo che gli Stati Uniti diventassero inegualitari come i Paesi europei dell’epoca. Infine, l’ethos individualista su cui il modello liberista si basa potrebbe essere non meno alieno ad una società dell’ethos cooperativo, come messo in luce dall’ampio filone di studi sull’ “eccezionalismo americano” nelle scienze politiche.

Oltre alle barriere culturali esistono anche quelle istituzionali: infatti, l’introduzione dei 3 capisaldi richiede in molti Paesi riforme estese, ad esempio nel sistema di contrattazione salariale o nelle politiche per l’innovazione. È indubbio che queste linee guida debbano essere adattate alle realtà locali. Ad esempio, i Paesi che temessero la “fuga dei cervelli” a causa della ridotta dispersione salariale, potrebbero limitarsi a introdurre minimi salariali senza fissare tetti, o fissandoli a livelli relativamente alti. È bene, però, notare come i 3 capisaldi costituiscano un pacchetto unitario di riforme e perciò è auspicabile la loro applicazione congiunta. Va anche ricordato che le riforme mirano a favorire uno sviluppo basato sull’innovazione tecnologica e su guadagni di produttività che permettono di sostenere il sistema.

Altre politiche nazionali. Nel Rappporto si sostiene anche che estendere la democrazia nel mondo delle imprese – ad esempio attraverso imprese cooperative o con un maggior potere decisionale dei lavoratori in quelle capitalistiche – rafforzerebbe il senso di partecipazione e di inclusione dell’individuo nella collettività, che sono fondamentali per la dignità individuale e per il benessere soggettivo oltre che, probabilmente, per ridurre le disuguaglianze nei redditi di mercato. Anche la società civile può e deve essere considerata un attore di progresso sociale. Ad esempio, Reema Nanavaty dà conto dell’attività dell’Associazione di Lavoratrici Autonome (SEWA), che offre programmi di apprendimento, microfinanza, accesso a mercato, e gestione delle risorse naturali a 2 milioni di donne occupate in vari settori economici in India.

Sia Atkinson (nel libro citato) che Piketty (Capital in the Twenty-First Century, Harvard University Press, 2014) propongono di rendere più progressiva l’imposta sui redditi. Il contro-argomento è il rischio di perdere base imponibile per la fuga verso i Paesi che tassano di meno, ed in particolare per la “fuga dei cervelli”. Questi aspetti non devono essere sottovalutati ma manca il riscontro empirico dell’idea che i lavoratori si trasferiscano in massa verso i Paesi con imposte più basse. Le differenze nei salari reali tra Paesi diversi sono ampie e eccedono largamente i costi del trasferimento; la mancata mobilità si spiega solo con la preferenza a rimanere nelle propria comunità di origine. Inoltre, come osservato da Atkinson, la possibilità di una “corsa-verso-il-basso” nelle aliquote di tassazione sui redditi potrebbe essere contrastata rendendo la tassazione dipendente dalla cittadinanza piuttosto che dalla residenza (un accorgimento che è già in vigore negli Stati Uniti).

Politiche economiche globali per il 21° secolo. È anche indubbio che in un’epoca globale ci siano tanto l’opportunità quanto la necessità di rifondare lo stato sociale. Nel Rapporto si sostiene la proposta di Piketty di una tassa globale sui patrimoni, finanziari e non. Una tassa globale sull’emissione di gas serra appare indispensabile sia per ragioni di equità che per assicurare la sostenibilità globale. Una proposta forse ancora più radicale per il progresso sociale a livello globale è quella di un RMG globale, che nella sua forma estrema non è indicizzato alla paritá di poteri d’acquisto locale, per renderlo ancora più efficace. Tale RMG potrebbe prendere la forma di un “dividendo globale” finanziato con i proventi dell’imposta sui patrimoni,

È ovvio che una simile imposta oggi appaia utopica. Tuttavia, i recenti progressi nelle attività di cooperazione internazionale sulla tassazione – che è indispensabile vista la diffusione dei paradisi fiscali –  consentono di sperare che in un futuro non lontano quella imposta possa essere realmente introdotta.

Come si è detto nella prima parte di questo articolo, il mondo si trova oggi sul picco delle possibilità di redistribuzione ma sull’orlo di un abisso a causa della non-sostenibilità dell’attuale modello di sviluppo. Nessun progresso sociale è possibile senza l’appoggio dei cittadini. Ciò a cui punta l’IPSP è offrire strumenti accessibili per dare forma al sentimento sicuramente condiviso da molti, che una società più equa e solidale è non solo auspicabile ma anche possibile.

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