Il progetto Jacobin: un “magazine di sinistra” d’avanguardia

Paola Basso racconta l’esperienza di Jacobin, un colorato magazine americano fondato qualche anno fa da un ragazzo ventenne e con una redazione quasi completamente “under 30” che, pur definendosi apertamente “socialista”, sta riscuotendo un grande successo tra i più giovani e riconoscimento tra i meno giovani. Basso suggerisce che la formula vincente consista in un binomio di serietà e humor e nella rottura di molti schemi classici abbinati alle riviste di sinistra – stilistici, grafici e lessicali – pur mantenendone vivi i valori.

bassologoVorrei cominciare con le parole di Noam Chomsky dedicate a Jacobin, una nuova rivista americana fondata qualche anno fa da un ventenne di Trinidad, con una redazione quasi completamente “under 30”: «L’apparizione della rivista Jacobin è stata come un raggio di luce in tempi bui. Ogni numero offre discussioni e analisi vivaci e approfondite di questioni di grande importanza, con una prospettiva di sinistra che è nuova e decisamente rara. Un contributo davvero ragguardevole alla ragionevolezza e alla speranza» (Chomsky, dicembre 2014). I “blurb” pubblicitari sono oramai una prassi per i personaggi pubblici, ma questo sembra essere qualcosa di più di un semplice obolo.
In effetti la rivista si presenta innovativa sotto molteplici aspetti: stile, grafica, taglio e contenuti. Fondato come un “uno sbocco per l’impegno critico”, una “rivista di cultura e polemica”, Jacobin –dall’evocativo sottotitolo “Reason in Revolt” – è un trimestrale fondato a New York 4 anni fa da un giovane che allora aveva meno di 20 anni, Bhaskar Sunkara, di Trinidad, con una redazione di giovanissimi, annoverato appunto come un «prodotto della generazione più giovane, non più legata ai paradigmi della Guerra Fredda che sostenevano il milieu della vecchia sinistra intellettuale, come Dissent o New Politics» (No Short-Cuts: Interview with the Jacobin, “Idiom magazine”.). Grazie anche a una grafica di tendenza, decisamente inedita per giornali di questo orientamento, Jacobin è arrivato in tre anni a doppiare gli abbonati di Dissent (storico giornale socialista fondato 60 anni fa) e ad avere oggi più di 6000 sottoscrittori e una web-audience di 500.000 persone al mese, nonostante si definisca apertamente «voce autorevole della sinistra Americana, che propone punti di vista socialisti sulla politica, l’economia e la cultura».
In un’intervista dal titolo Project Jacobin, rilasciata qualche mese fa alla “New left Review” (n. 90, nov-dec 2014), la prima di una serie dal titolo NEW MASSES, NEW MEDIA – Sunkara spiega come Jacobin si differenzi da altre pubblicazioni:

Si trattava di rappresentare una politica che non fosse né leninista né quel genere di opinione della sinistra liberale che si trova espressa in The Nation o In These Times. Ma non si tratta di una via di mezzo: volevo stabilire una visione che fosse socialista senza compromessi, ma che sposasse un po’ dell’accessibilità del The Nation con la serietà delle altre pubblicazioni di sinistra.

Per essere «audace, giovane e facile da leggere» Jacobin non sceglie solo di evitare paragrafi troppo lunghi aggiungendo sempre un occhiello esplicativo, ma soprattutto punta sull’abbandono di un certo gergo datato e sulla piena chiarezza espositiva: «abbiamo cercato di evitare lo stile di scrittura della sinistra tradizionale, riducendo al minimo il gergo e cercando viceversa di essere più aggressivi, più fiduciosi – e più programmatici» (ivi, p. 36). Per raggiungere questo obiettivo ardito puntano innanzitutto su uno stile e un layout che non abbia più nulla di obsoleto (grazie anche all’intervento del giovane direttore creativo, Remeike Forbes, autore anche del logo): «Puntavo a rendere le cose il più accessibile e il più avvincente possibile, per questo: il colore, la fotografia, l’arte. C’era un chiaro tentativo di rompere con i font del vecchio Courier New, lo stile in bianco e nero del SDS o delle riviste specialistiche degli anni Ottanta e Novanta». Dunque, una grafica elegante e colorata invece dell’antiquato “new courier” in bianco e nero e una chiarezza stilistica erta a “must”, sono ciò che marca visivamente la differenza con altri magazine di sinistra. Ma non è una scelta solo estetica, anzi è fondamentalmente contenutistica: Jacobin punta a collocarsi tra Scilla e Cariddi, evitando due “trappole”, da una parte quella rappresentata dai periodici di sinistra che hanno «completamente abbandonato il pensiero critico, preferendo offrire rassicuranti bollettini e resoconti rosei dal fronte» (No Short-Cuts) e, dall’altra, l’incolore serietà delle riviste socialiste più accademiche, condannate a rimanere lontane dai problemi reali. Ed ecco l’idea: «l’impegno sostanziale non preclude il divertimento. Evitare frasi e idee stantie non significa non pensare» e altrove chiosa: «Molti dei sopravvissuti di quella che Perry Anderson ama chiamare la “sinistra sbaragliata” sono, in mancanza di termini migliori, privi di umorismo». É l’abbandono di un vero e proprio stereotipo radicatissimo che attribuiva un’aura di serietà solo a chi si esprimeva con un linguaggio tecnicistico.
La ricetta dell’inatteso successo di Jacobin – veicolato da questa grafica di tendenza, da un inedito humor e uno «stile provocatorio, impegnativo e visivo» abbinato a un formato interattivo – si basa essenzialmente su un lessico e un contenuto altrettanto di rottura pilotato dalla capacità della giovane redazione di affrontare senza retorica i problemi reali. Il loro “credo” è esposto nel numero zero (inverno 2011) e, seppur di primo acchito un melting pot – dettato chiaramente da una voluta autoironia –, lascia intravedere in filigrana i punti fermi:
“Jacobin non è un organo di un’organizzazione politica né è prono a un’ideologia.
I nostri contributors sono, comunque, accumunati da comuni valori e sentimenti:
• In quanto propositori della modernità e del progetto irrealizzato di illuminismo.
• In quanto assertori di una qualità libertaria dell’ideale socialista.
• Come internazionalisti ed epicurei.
Non abbiamo altre posizioni editoriali al di fuori di queste. Ogni autore parla per sé”.

É una presa di distanza dalla vecchia politica di natura però politica, non qualunquista o di stampo anarchico: si propongono piuttosto di «forgiare “infrastrutture del dissenso” – sia sociali che organizzative – sviluppando le [loro] capacità di interpretare il mondo e di articolare una visione morale e politica alternativa e convincente». «Cerchiamo di evitare il classico: “Che fare?” in favore del più difficile: “Chi diavolo intende farlo?”» (Editoriale firmato “by Editors”, The Power, Issue 14: A World to Win).
Forti del loro successo, puntano alto. Come spiega Sunkara: «Siamo sufficientemente creativi da poter badare ai nostri problemi politici e ricreare una sinistra che non evochi il grigiore del passato né una sorta di rivolta nichilistica apolitica. Siamo radicali, siamo all’avanguardia e non ci poniamo come gli oppositori conservatori di un capitalismo costantemente rivoluzionario» (cf. No Short-Cuts).
Seppur a suo modo un frutto di “Occupy Wall Street”, i vari numeri di Jacobin – dai titoli significativi quali “Emancipation”, “A World to win”, “Liberanism is dead”, “Phase two”, “Modify your Dissent”, “And yet it moves” – sono soliti offrire strumenti di analisi e proposte concrete invece di semplice opposizione ideologica al capitalismo. Uno degli aspetti più rilevanti è la loro capacità di uscire dai binari precostituiti e ideologici del dibattito, ponendosi – ciononostante – sempre dalla parte dei lavoratori e contro ogni forma di imperialismo. La libertà dagli schemi tradizionali emerge dalla loro capacità di mettere assieme concetti troppo a lungo tenuti separati – e dunque il richiamo alla «libertarian quality of the socialist ideal» («la sinistra non dovrebbe cedere il linguaggio della “libertà” e dell’“emancipazione” alla destra» spiega Sunkara con grande lucidità in No Short-Cuts) – e, viceversa, di rompere dualismi che si sono irrigiditi: «anche il dibattito tra rivoluzione e riforma mi sembra superato», così come obsoleto è anche l’assunto di una dicotomia radicale tra stato e mercato. Se l’esigenza è quella di giungere al socialismo mantenendo i comfort materiali ottenuti con il capitalismo, spiega Seth Ackerman – giovane autore dell’articolo The Red and the Black (“Jacobin”, issue 9) dove si prospetta una società che ripudi la logica del profitto privato e, con essa, anche la «distorsione nella valutazione dei beni indotta dal profitto» endemica al capitalismo –, non occorre prevedere la lotta armata o «il collasso totale della società precedente e l’evocazione prometeica, al suo posto, di qualcosa di interamente irriconoscibile», pur puntando a rivolgimenti importanti.
Un tema molto sentito dalla rivista è quello del lavoro: lavoro per tutti, retribuito e qualificato. Take This Job and Share It – un articolo di un giovane contributing editor, Chris Maisano, rivolto contro le «implicazioni disastrose, per la teoria e la pratica socialista, dell’accettazione acritica del modo di produzione capitalistico» – ricorda che la questione in Marx non era solo quella di contrastare la privatizzazione dei “mezzi di produzione” ma soprattutto di riflettere sui “modi di produzione”: invece di combattere per più lavoro, sarebbe giusto lottare per “meno lavoro ma per tutti”, riducendo il tempo di lavoro alienante e ammortizzante. O, ancora, l’articolo di Miya Tokumitsu, In the Name of Love, in cui denuncia come dietro il nuovo mantra apparentemente benevolo – «“Do what you love” (DWYL)» – si nasconda il rifiuto di considerare lavoratori degni di stipendio i giovani che sono riusciti a volgere in lavoro le loro passioni.
Dovendo sintetizzare la formula del loro successo, si può forse dire che Jacobin punta a rompere molti degli schemi più classici abbinati alle riviste di sinistra – sul piano grafico, stilistico, lessicale e anche contenutistico – pur mantenendone vivi i valori. Prevedono di raggiungere in 3 anni una circolazione stabile di 25.000 copie allo scopo di rendere Jacobin «la bandiera di una certa varietà di socialismo», arrivando così a incidere realmente nella politica degli Stati Uniti. E, auspicano: «se ciò può accadere nel cuore del mondo imperialista», con maggior facilità accadrà altrove, anche in forza della sfiducia diffusa nel sistema capitalistico dettata dalla crisi. La mano passa alle giovani generazioni e dove la politica dei partiti e dei sindacati ha fallito, vediamo se riesce la carta stampata, non più in b/n ma piena di colore.

* Questo articolo è un ampliamento della riflessione su Jacobin cominciata sul numero Socialismo di “Parolechiave” in uscita in questi giorni, nel mio articolo: Il socialismo reloaded della millennial generation.

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