Il processo d’integrazione degli immigrati in Europa. A che punto siamo?

Rama Dasi Mariani presenta i risultati dell’ultima edizione del Migration Observatory Report, un rapporto annuale sull’integrazione degli immigrati in Europa. Dopo aver brevemente descritto il concetto di integrazione socioeconomica, Mariani si sofferma su alcuni dati tratti dal rapporto che fotografano la condizione relativa degli immigrati al 2019. Nelle conclusioni, utilizzando le informazioni disponibili, prova a tracciare alcune ipotesi sugli effetti della pandemia in atto, derivandone previsioni allarmanti.

Nell’opinione pubblica europea non vi è un ampio e chiaro consenso nei confronti del fenomeno migratorio e gli atteggiamenti di ostilità sembrano in aumento. A parte le ragioni che spingono ad essere contrari all’immigrazione, e di cui si è parlato in passato in un articolo del Menabò, il fenomeno viene riconosciuto dalle scienze sociali come connaturato e permanente. Di fronte a questa situazione, la domanda più importante a cui è necessario trovare una risposta è: quali sono le politiche migliori affinché si crei coesione tra i nativi e gli immigrati?

Nel cercare di esplorare questo interrogativo, la prima cosa che è necessario fare è definire l’inclusione sociale. Riassumendo e semplificando al massimo, l’integrazione implica un’omogeneità culturale e, possibilmente, linguistica all’interno della società. Ad un livello più esplicito, l’integrazione si misura attraverso l’assenza di differenze oggettive in aspetti fondamentali dell’esistenza: la residenza, l’istruzione e il lavoro.

In base ai Common Basic Principles for Immigrant Integration Policy (CBP) dell’Unione Europea, l’integrazione viene definita come “[…] un processo dinamico e bidirezionale di reciproco adattamento di tutti gli immigrati e i residenti degli Stati Membri” (CBP 1; traduzione mia). Dagli stessi principi emerge che gli aspetti chiave del processo d’integrazione sono, come accennato prima, il lavoro (CBP 3), l’istruzione (CBP 5) e gli ambienti urbani favorevoli alle interazioni tra i nativi e gli immigrati (CBP 7).

Un osservatorio annuale dell’integrazione in Europa. Se vogliamo sapere a che punto è il processo d’integrazione europea, possiamo consultare il “5th Migration Observatory Report: Immigrant Integration in Europe”, un progetto congiunto del Collegio Carlo Alberto e del Centro Studi Luca d’Agliano, presentato online pochi giorni fa, il quale fotografa la situazione socioeconomica degli immigrati in Europa e la confronta con quella dei nativi. Il rapporto utilizza i dati dell’ultima Rilevazione della Forza Lavoro, un’indagine sugli individui con un’età superiore a 15 anni e residenti in tutti i paesi membri dell’Unione Europea, in tre paesi dell’Area EFTA (Islanda, Norvegia e Svizzera) e nel Regno Unito. I dati diffusi a settembre 2020, su cui si basa il rapporto di quest’anno, fanno riferimento all’anno precedente.

Nel 2019 in Europa le persone che vivevano in un paese diverso da quello di nascita erano più di 55 milioni, un numero che corrisponde all’11% della popolazione totale. Gran parte di queste si concentrava nei paesi dell’Europa a 15. Esiste, infatti, una notevole differenza nei tassi d’immigrazione dei vari Stati, passando dallo 0.1% della Romania al 52% del Lussemburgo. Anche all’interno dei singoli paesi, poi, la distribuzione territoriale è molto diseguale.

In effetti, la localizzazione dei migranti in Europa riflette quella delle prospettive di lavoro e, quindi, della prosperità delle attività economiche. Ad esempio, in Italia, la forte divergenza in termini di reddito e tasso d’occupazione tra il Nord e il Sud del paese fa sì che in Lombardia gli immigrati rappresentano il 12% della popolazione, mentre in Sicilia solo il 6%. Dinamiche simili a quella italiana esistono in Francia, dove nella Regione dell’Ile-de-France il tasso d’immigrazione è il 22% contro una media nazionale del 12%, o nel Regno Unito, dove nell’area della Greater London il tasso d’immigrazione è nettamente superiore a quello medio nazionale: 36% contro 14%.

Un modo efficace e sintetico per rappresentare la diversa distribuzione territoriale dei due gruppi è quello di misurare la frazione dei nativi e quella degli immigrati residenti in ciascuna area. Calcolando il valore assoluto della differenza dei due rapporti, e sommando per tutte le aree del paese, si ottiene un indice che varia tra zero (perfetta uguaglianza nelle distribuzioni) e uno (completa divergenza). Ebbene, in Europa sarebbe necessario ricollocare circa il 20% della popolazione immigrata in modo da ottenere una distribuzione territoriale uguale a quella dei nativi (dato aggiornato al 2018).

Figura 1: Indice di dissimilarità territoriale

Passando ad analizzare il mercato del lavoro, nella maggior parte dei paesi europei gli immigrati mostrano peggiori probabilità di essere occupati rispetto ai nativi. In media, il tasso d’occupazione degli immigrati è di 7,7 punti percentuali più basso. Dato che per i lavoratori nativi quest’ultimo è pari al 76%, risulta che gli immigrati hanno il 10% in meno di probabilità di essere occupati.

In maniera forse inaspettata, questa differenza è più severa nei paesi dove i nativi mostrano i risultati migliori: Svezia (-17 p.p.), Olanda (-15,5 p.p.), Germania (-13,6 p.p.) e Danimarca (-13,4 p.p.). Emerge così un potenziale limite della misura di integrazione considerata. Quello che si sta valutando, infatti, è una condizione relativa e non assoluta. Perciò, il fatto che vi sia perfetta integrazione, ossia assenza di differenze tra nativi ed immigrati, non vuol dire che non ci sia la necessità di intervenire per migliorare la situazione generale.

L’occupazione, inoltre, rappresenta solo un aspetto della condizione lavorativa e gli immigrati in Europa soffrono di un ulteriore svantaggio rispetto ai nativi: i loro redditi sono più bassi. La Figura 2 rappresenta la percentuale degli immigrati (la linea tratteggiata) e quella dei nativi (la linea continua) in ogni decile della distribuzione dei redditi. Le due linee mostrano chiaramente un andamento opposto. La linea continua è crescente, ad indicare che i lavoratori nativi sono relativamente più rappresentati nei decili più alti della distribuzione, mentre la linea tratteggiata è decrescente, con la sola eccezione di un miglioramento nel decile più alto rispetto al nono. Questo significa che i lavoratori immigrati sono relativamente più rappresentati nei decili più bassi.

Figura 2: Distribuzione degli immigrati e dei nativi lungo i decili di reddito

È importante cercare di individuare le potenziali cause di questi dati. A tale scopo, il Migration Observatory Report prende in considerazione la probabilità per immigrati e nativi di trovarsi nel decile più basso della distribuzione dei redditi. A lordo di ogni altra variabile, quella percentuale è più alta di circa 5 punti percentuali per i primi; si riduce di un punto percentuale quando si tiene conto dell’età, del genere e del titolo di studio; non cambia se si considera la regione di residenza; e si riduce ad un solo punto percentuale quando si controlla per l’occupazione e il tipo di contratto (full time o part time). In altre parole, lo svantaggio di reddito è principalmente dovuto al fatto che i lavoratori immigrati sono fortemente concentrati in occupazioni poco retribuite e dipende poco da differenze nel livello d’istruzione. Ciò è una chiara conseguenza del mancato riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero, soprattutto al di fuori dell’Unione Europea, e si riflette in una overeducation dei lavoratori immigrati, che sono più istruiti rispetto alla media richiesta dall’occupazione svolta.

Le conseguenze dalla pandemia sull’integrazione degli immigrati. Come ogni anno, la seconda parte del rapporto approfondisce una tematica specifica. Quest’anno l’attenzione si è concentrata sulle conseguenze dalla pandemia in atto. Per condurre l’analisi sono stati utilizzati i dati della Rilevazione della Forza Lavoro italiana, disponibili fino a giugno 2020. L’Italia è il primo paese europeo in cui si è manifestato il nuovo virus e quello che prima degli altri ha dovuto imporre misure di contenimento, con le devastanti conseguenze per il mercato del lavoro ormai ben note. È, dunque, possibile iniziare a valutare concretamente i danni economici prodotti dalla pandemia nel nostro paese.

Come risulta dalla Figura 3, i settori economici dove si concentrano gli immigrati sono le costruzioni, le attività ricettive (hotel e ristoranti) e i servizi alla persona. Sfortunatamente, questi sono anche i settori più penalizzati dalle misure di distanziamento e di limitazione degli spostamenti.

Figura 3: Distribuzione per settore dei lavoratori immigrati e italiani (dati 2019)

Non sorprende, dunque, che il tasso d’occupazione si sia ridotto maggiormente per i lavoratori immigrati. Infatti, in Italia prima della pandemia la probabilità d’occupazione per gli immigrati era di 1,5 punti percentuali più bassa rispetto ai nativi. Dopo la pandemia, tale svantaggio è aumentato di altri 3 punti percentuali. Oltre che dal settore economico, tale eterogeneità nell’effetto delle misure di contenimento può dipendere dal fatto che i lavoratori immigrati sono più rappresentati in lavori che difficilmente possono essere svolti da remoto (cfr. Figura 4).

Figura 4: Distribuzione di immigrati e nativi per grado di svolgimento da remoto del lavoro

Ulteriori brutte notizie per l’uguaglianza e l’integrazione arrivano dal fatto che la probabilità di occupazione si è ridotta notevolmente di più per le immigrate donne (passando dal -4% del pre-pandemia al -8% di giugno 2020) e nelle regioni del Sud (Sardegna, Calabria, Sicilia e Campania).

Di contro, al momento non emerge ancora un impatto della pandemia sui redditi o sulla qualità dell’occupazione, come ad esempio il tipo di contratto. Non si può, però, escludere che l’effetto su questi ultimi si manifesterà nel breve o lungo periodo, mentre lo status occupazionale è quello che reagisce prima a shock di domanda come questi. Abbiamo imparato dal passato che la popolazione immigrata risulta economicamente più vulnerabile e meno protetta dalle reti personali e dal welfare. In assenza di dati, e dovendo continuare ad immaginare le conseguenze della drammatica situazione ancora in atto, le previsioni non sono rosee.

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