Il privilegio del lavoro da casa al tempo del distanziamento sociale

Armanda Cetrulo, Dario Guarascio e Maria Enrica Virgillito affrontano il tema del lavoro agile in tempi di pandemia e forniscono una serie di evidenze circa il numero di lavoratori italiani che sono nelle condizioni di lavorare a distanza ed i rischi (di natura sanitaria o occupazionali e reddituali) a cui coloro che non possono lavorare da casa sono, in termini comparati, maggiormente esposti rispetto al resto della forza lavoro. Nelle conclusioni delineano le implicazioni della loro analisi per le politiche.

L’emergenza da Covid-19 è stata salutata dal Ministro italiano per l’innovazione tecnologica come “una grandissima opportunità per spingere l’Italia verso il digitale”. Il riferimento è al ruolo che il digitale può svolgere nel garantire, in tempi di pandemia, la continuità delle attività economiche nonché di servizi essenziali quali l’istruzione e, più in generale, la gran parte dei servizi erogati dalle pubbliche amministrazioni.

Il distanziamento sociale e l’obbligo di rimanere nelle proprie abitazioni pongono la necessità di riorganizzare in tempi brevi l’attività lavorativa affinché questa possa essere svolta ‘da casa’. È lo ‘smart-work’, pratica non nuova ma diffusa in maniera limitata e in circoscritti ambiti del sistema produttivo (quali le grandi imprese e la Pubblica Amministrazione): quelli che dispongono degli accessi a infrastrutture materiali e immateriali necessarie per lo svolgimento del lavoro da remoto. Tuttavia, nella corsa al contenimento della pandemia, lo smart-work sembrerebbe essere in grado di garantire la continuità occupazionale e la futura ripartenza dell’economia.

Tralasciando per il momento le problematiche legate al “lavoro agile” ed al conflitto tra capitale e lavoro (quali per esempio l’ergonomia, la gestione dell’orario ed il controllo del lavoratore), è lecito chiedersi, in primo luogo, se sia davvero così semplice lavorare da casa e preservare occupazione e reddito. In secondo luogo, è importante approfondire quali ripercussioni può avere questa transizione verso il lavoro digitale di fronte alla grande eterogeneità nelle mansioni svolte, nei redditi percepiti e nelle garanzie contrattuali. Rispondere a queste domande è dirimente per analizzare in che misura la diffusione della pandemia, unitamente all’attuazione di misure di distanziamento sociale, stia aggravando le disuguaglianze in vari ambiti: nell’accesso a servizi come l’istruzione, nelle condizioni abitative, e anche nella possibilità di svolgere il proprio lavoro.

Metodologia. I risultati che seguono adattano ed espandono la metodologia proposta da J. Dingel,  e  B. Neiman, (“How Many Jobs Can be Done at Home? Becker Friedman Institute White Paper, 2020) per analizzare le occupazioni che possono essere svolte da casa negli Stati Uniti a partire dal dizionario delle professioni O*NET. L’analisi per l’Italia si basa su una banca dati integrata tra il dizionario delle professioni italiane, l’Indagine Campionaria sulle Professioni (ICP), e le rilevazioni delle Forze di Lavoro ISTAT – aggiornate al 2016. Per individuare le attività che non si possono svolgere da casa sono state selezionate una serie di domande appartenenti alle due sezioni dell’ICP che informano:

  • sull’intensità dell’esecuzione di attività che prevedono: i) l’uso, il controllo, la riparazione o gestione di macchine, attrezzature, veicoli; ii) il contatto sociale, il prendersi cura o assistere altri; iii) l’invio di email;
  • sul contesto di lavoro indicando quali attività si svolgono prevalentemente all’aperto, prevedono esposizioni al rischio di malattie e infezioni, prevedono di compiere movimenti esposti al rischio di lesioni, necessitano dell’utilizzo di attrezzature di protezione.

A tali domande per ciascun lavoratore intervistato per categoria occupazionale a 4-digit è assegnata dall’ICP una rilevazione di intensità con una scala che va da 0 a 100. Affinché una professione sia classificata come “non da casa” occorre che la maggior parte dei rispondenti passi una larga parte del tempo di lavoro in ambienti esterni e precipui allo svolgimento della mansione, o utilizzi mezzi di lavoro, macchinari, utensili e attrezzature o equivalentemente abbia contatto continuo con il pubblico. Ad esempio, se per una data occupazione la maggior parte dei rispondenti segnala che è molto importante controllare macchinari e usare attrezzature tale occupazione non potrà essere svolta da casa. E ciò vale anche se la maggior parte dei rispondenti segnala che svolge mansioni all’aperto per la maggior parte del suo tempo di lavoro. Al contrario, se si mandano email molto spesso tale occupazione potrà essere svolta da casa.

Dopo avere identificato le professioni a 4-digit, è possibile attribuire a ciascuna di esse una serie di informazioni provenienti dall’indagine sulle Forze Lavoro Istat su numero di occupati, retribuzioni, tipologie contrattuali e caratteristiche socio-demografiche dei lavoratori (età, sesso e livello di istruzione). Concentrando l’attenzione sugli otto grandi gruppi professionali ISCO a 1-digit, l’esercizio proposto consente di identificare le professioni che possono e che non possono essere svolte da casa sulla base delle effettive mansioni svolte e dei contesti di lavoro. Tale classificazione esclude tutte le professioni che devono essere svolte in uno spazio fisico ben definito per la relazione con i mezzi di lavoro o per il contatto sociale. In caso di obbligo di permanenza nell’abitazione, tuttavia, una professione come quella dell’insegnante di scuola primaria che non potrebbe essere svolta da casa secondo la nostra classificazione viene di fatto svolta da casa. Ci sono infatti mansioni, largamente legate alla funzione del “prendersi cura di altri” o “lavorare con il pubblico” che, riconfigurando la natura stessa della professione, potrebbero essere digitalizzate.

Risultati. La figura 1 mostra il numero di occupati per ciascuna delle due categorie. Soltanto il 30% della forza lavoro italiana ha un’occupazione che si può svolgere da casa (si tratta di 6,7 milioni di lavoratori contro gli oltre 15 milioni che non hanno quella possibilità).  Tale quota è in linea con quella stimata da Dingel e Neiman (2020) per gli Stati Uniti (37%). La stessa quota potrebbe tuttavia essere sovrastimata dal momento che la classificazione individua i lavori che non si possono fare da casa ma non assicura che tutti i lavori che possono essere svolti da casa lo siano effettivamente (si ricordi come le prime raccomandazioni dei DPCM spingessero verso la fruizione di ferie e congedi parentali anche a fronte delle difficoltà tecnico-organizzative che nascono con il lavoro agile). Un’altra causa di sovrastima della quota potrebbe derivare dalla complementarietà tra le occupazioni e dall’integrazione dei processi di lavoro: si pensi al caso dei servizi di gestione e prenotazione turistica che, seppur tecnicamente eseguibili da remoto, non sono svolte per la totale chiusura degli operatori del settore e per assenza di clienti.

Aggregando al 1-digit secondo la classificazione ISCO è possibile analizzare la distribuzione delle occupazioni che si possono o meno svolgere da casa all’interno di ciascuno degli 8 macro-gruppi professionali. Nella figura 2 il quadro che emerge parla di una struttura occupazionale altamente polarizzata con una forte concentrazione delle opportunità di lavorare da casa nella parte alta e medio-alta della distribuzione delle occupazioni. Il lavoro agile risulta essere praticabile nel 60% dei casi per coloro che si trovano al vertice della struttura occupazionale (manager, imprenditori e legislatori), per le professioni scientifico-intellettuali, per quelle tecniche. Si arriva al 70% nel caso delle mansioni amministrative. Nella parte bassa della distribuzione, tuttavia, lo scenario cambia radicalmente. Occupazioni che prestano servizi, come gli operatori dello spettacolo, gli addetti all’assistenza e alla vendita, gli artigiani, gli operai, gli operatori di impianti e macchine nonché le professioni elementari vedono ridursi drasticamente le opportunità di lavoro a distanza con variazioni che vanno dal 5% allo 0%.

Similmente, la mediana del salario, nonché la fetta di lavoratori che percepiscono un salario sensibilmente superiore a quest’ultima, è più elevata tra chi gode del privilegio del lavoro da casa rispetto al resto della forza lavoro. Mentre il salario mediano per le professioni che non possono essere svolte a distanza si muove tra i 500 e i 1800 euro al mese, con una media di 1200 euro, quello di coloro che possono praticare lo smart-work va dagli 800 ai 3500 euro, con una media di 1800 al mese. Questa polarizzazione si riflette anche nella struttura contrattuale che vede il lavoro temporaneo largamente concentrato nelle professioni che non possono svolgersi da casa, interessando quasi due milioni di lavoratori ai quali si aggiungono altri 3.8 milioni di autonomi come presentato in Figura 3.

In conclusione.  Coloro che sono impossibilitati a svolgere il proprio lavoro a distanza risultano essere già in partenza significativamente più esposti a una serie di rischi: rischi di contagio e infezioni, svolgendo professioni che si caratterizzano per maggior esposizione ai contatti sociali; rischi contrattuali, legati alla maggiore quota dei contratti di lavoro temporaneo che già nelle rilevazioni mensili delle COB mostrano saldi netti negativi; rischi reddituali per i dipendenti a tempo determinato (tra i quali la quota di part-time involontario è molto alta) e per gli autonomi. Inoltre, anche tra coloro che risultano nelle condizioni di svolgere lavoro a distanza vi sono sostanziali eterogeneità nei rischi. La pandemia e la spinta digitale che si vorrebbe l’accompagnasse sembra assommare fragilità su fragilità innestandosi su vecchie e crescenti diseguaglianze.

Se i lavoratori non sono uguali di fronte alle conseguenze della pandemia, le politiche dovrebbero essere principalmente dirette a garantire la parità di accesso alle condizioni di lavoro, indirizzate ad implementare immediatamente forme di ri-organizzazione interna che consentano distanziamenti, accessi scanditi agli spazi comuni come le mense e gli spogliatoi, oltre che a tamponi e test sierologici. Ciò significa che, insieme alle forniture dei dispositivi di sicurezza (ancora non garantiti), i turni e gli orari di lavoro dovrebbero essere ridotti.

La riduzione dell’orario di lavoro a salari costanti sarebbe un provvedimento molto più equo piuttosto che la cassa integrazione da una parte o i presunti blocchi selettivi dall’altra (l’identificazione di attività essenziali e non essenziali ha solo aperto la stagione della caccia al bollino di “attività essenziale”). Al contrario, un’apertura generalizzata ma con orari di lavoro ridotti a parità di salario consentirebbe di mantenere capacità produttiva e sicurezze occupazionali. Tuttavia, la riorganizzazione del processo di lavoro necessita di capacità organizzative drammaticamente assenti nella maggior parte delle imprese italiane (D. Dosi, D. Guarascio, A. Ricci, e M.E. Virgillito, “Neodualism in the Italian business firms: training, organizational capabilities and productivity distributions”, Small Business Economics,  2019), scarsamente dotate di pratiche collaborative e di schemi di rotazione e invece abbondantemente caratterizzate da una rigida e gerarchica divisione interna del lavoro (A. Cetrulo, D. Guarascio, M.E. Virgillito, “Anatomy of the Italian occupational structure: concentrated power and distributed knowledge”, Lem WP Series, 34/2019). E comporterebbe anche un controllo più stringente da parte delle Stato per garantire un comportamento conforme alle norme da parte delle imprese.

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