Il prezzo della sostenibilità

Claudia Valenti racconta alcune iniziative dirette a modificare il comportamento dei consumatori nel mercato rendendoli più consapevoli dell’impatto ambientale e sociale della produzione dei beni che acquistano. In particolare, Valenti dà conto dell'esperienza olandese di True Price, impresa sociale che informa i consumatori su quale sarebbe il ‘giusto’ prezzo tenendo conto del costo di quell’impatto, e presenta l'Impact Weighted Accounts Initiative, un’iniziativa che punta a creare standard di valutazione dell’impatto universalmente condivisi.

Un modo rivoluzionario di determinare i prezzi. Un cambiamento epocale nella maniera di fissare il prezzo dei beni e servizi, tenendo in considerazione anche il loro impatto su ambiente e società. È quello che fa True Price, impresa sociale nata in Olanda nel 2012, che dal 2020 opera con l’obiettivo di realizzare prodotti sostenibili e accessibili a tutti, permettendo ai consumatori di comprendere e pagare coscientemente il prezzo giusto dei prodotti che acquistano.

“Il prezzo giusto di un prodotto è la somma del suo prezzo di mercato più i suoi costi sociali e ambientali”, spiega Pietro Galgani, ricercatore in ambito di sostenibilità e R&D Manager in True Price. Chiedersi “quanto costa” qualcosa, infatti, non basta più. Ci sono altri interrogativi da cui non si può prescindere: da dove viene il prodotto? Come è stato trasportato? Chi lo ha lavorato? Il lavoratore è stato pagato a sufficienza? La produzione ha inquinato o danneggiato il pianeta? In una frase: qual è stato il suo impatto su ambiente e società?

“Un anno fa abbiamo aperto un negozio nei nostri uffici di Amsterdam e abbiamo iniziato a vendere prodotti al giusto prezzo” racconta Galgani. “Volevamo vedere come avrebbero reagito gli acquirenti”. Il negozio è disseminato di pannelli informativi e i beni hanno delle etichette apposite, in cui si chiarisce come viene calcolato il prezzo: il totale è rappresentato dalla somma tra quello che sarebbe il normale prezzo di mercato e il costo ambientale e sociale derivato dalla produzione del bene. Sullo scontrino i valori sono tenuti separati, con l’obiettivo di rendere visibili, agli occhi dei consumatori, le esternalità negative di ciò che stanno comprando. “L’impatto è un costo nascosto che nessuno vede”, dice Galgani, “ma che in realtà è presente e viene pagato dalla società tutta, dal pianeta intero”. In questo modo, gli acquirenti vengono sensibilizzati, ma soprattutto responsabilizzati, riguardo ciò che comprano e si ritrovano, in un certo senso, a compensare il pianeta per la merce che hanno acquistato. Il negozio, infatti, si impegna a donare l’equivalente del costo sociale e ambientale pagato dai suoi clienti a organizzazioni che si occupano di tutela dell’ambiente e dei diritti umani oppure impiega quel denaro in meccanismi di compensazione, come quello del Carbon offset. “L’iniziativa ha avuto un certo successo” afferma Galgani, “tanto che anche altre attività commerciali della città hanno cominciato a imitarla”. I venditori si presentano sul mercato come soggetti affidabili, rispettosi dell’ambiente e delle persone; i consumatori acquisiscono fiducia in loro e col tempo si moltiplicano. Una fiducia e un rispetto che convengono a entrambi.

L’obiettivo del true pricing, quindi, non è quello di aumentare il prezzo d’acquisto al dettaglio, ma piuttosto di spingere a introdurre metodi di produzione innovativi e sostenibili che riducano il divario fra il normale prezzo di mercato e il prezzo giusto. Nel report True price of jeans, pubblicato da Impact Institute in collaborazione con ABN AMRO nel 2019, si calcola il giusto prezzo di un paio di jeans prodotti nel 2018 stimando le esternalità negative, che sarebbero pari a circa 30 euro fra costi sociali e ambientali. Il report ipotizza che, rendendo più sostenibile la filiera produttiva, il costo delle esternalità negative potrebbe essere ridotto a soli 18 euro e in futuro, quindi, potrebbe essere possibile comprare un paio di jeans non solo più sostenibili, ma anche a un prezzo giusto più basso.

Oggi però, in Italia ma non solo, sostenibile non è ancora sinonimo di economico, anzi. Essere sostenibili è roba per pochi, perché è troppo costoso. Il Plant Milk Report di ProVeg International mostra come le scelte più ecologiche siano spesso le più care e, di conseguenza, non accessibili a tutti. In base a quanto riportato dalla ricerca, un litro di latte vaccino, ad esempio, supera di gran lunga l’impatto ambientale di qualsiasi alternativa di origine vegetale, in termini di emissioni di gas serra, utilizzo di acqua e suolo. Tra le alternative al latte vaccino, la scelta migliore è quella del latte d’avena o di soia. Eppure, in Italia, le alternative vegetali costano moltissimo, anche a causa delle aliquote diverse delle imposte indirette: al latte vaccino, che rientra tra gli alimenti di base, è imposta un’aliquota del 4%, mentre il latte vegetale, considerato alla stregua di un bene di lusso, subisce un’Iva del 22%. Il prezzo di un litro di latte d’avena può arrivare ad essere il triplo di quello di un litro di latte vaccino e, pur essendo un acquisto sostenibile, il consumatore medio tende a depennarlo dalla propria lista della spesa, perché troppo caro. Essere sostenibili è diventato un lifestyle, un modo di essere, una filosofia di vita, trasformata dalle imprese in un vero e proprio brand che quindi, come tutti i marchi, si paga di più. Ne consegue che i prodotti sostenibili vengono comprati solo da quelle persone dotate di sensibilità ambientale che possono permetterseli; mentre quelli insostenibili continuano ad essere acquistati lo stesso e dalla maggior parte delle persone, in quanto più abbordabili.

“Proviamo a immaginare un mondo in cui tutti i prodotti vengano venduti a un prezzo giusto”, afferma Galgani. “Sia i prezzi che la fiscalità potrebbero essere riproporzionati e i prodotti dannosi diventerebbero i più costosi, mentre quelli sostenibili i più economici”. Molti consumatori farebbero ricadere le loro scelte d’acquisto sui prodotti più economici e, automaticamente, l’acquisto dei prodotti dannosi diminuirebbe drasticamente. “Sia per le aziende che per i consumatori diventerebbe più conveniente offrire e comprare prodotti sostenibili, il che è un requisito necessario per approdare a un’economia che non danneggia le persone e la natura”. Le organizzazioni e le imprese però dovrebbero essere disposte a riconoscere il proprio impatto negativo e a dichiararlo a beneficio di tutti. “Devi essere un’impresa davvero coraggiosa per dare al mondo un messaggio del genere” sostiene Galgani. “Eppure, sarebbe proprio questo il primo passo da compiere per attuare dei cambiamenti veri: riconoscere le proprie responsabilità ed ammettere che le proprie attività sono anche dannose”.

In secondo luogo, le organizzazioni e le imprese avrebbero bisogno di poter misurare i loro impatti con precisione, per percepirli, confrontarli, sia nel tempo che nello spazio, con i propri concorrenti di mercato. Il calcolo dell’impatto non è mai rientrato e, ancora oggi, difficilmente rientra nel processo di rendicontazione finanziaria delle imprese, per questo viene spesso trascurato anche dagli stessi consumatori. Ma in realtà ha un peso enorme ed è fondamentale considerarlo, se si vuole valutare il valore effettivo di un’azienda o di un prodotto. Oggi però non esiste ancora una struttura di valutazione d’impatto ben definita e universalmente valida. Gli approcci alla valutazione sono innumerevoli e ancora molto diversificati: si può essere più allineati sulla misurazione dell’impatto ambientale, ma risulta più difficile quantificare in maniera univoca un costo sociale.

Ci sta provando l’Impact Weighted Accounts Initiative (IWAI), un progetto nato dallo sforzo congiunto della Harvard Business School, del Global Steering Group for Impact Investment (GSG) e dell’Impact Management Project (IMP), anche attraverso la collaborazione e il confronto proprio con Truce Price e il suo spin-off Impact Institute. L’iniziativa intende fornire delle scale di misurazione che consentano di tradurre l’impatto, sia sociale che ambientale, in unità misurabili e comparabili. “Abbiamo bisogno di trovare un linguaggio di valutazione comune e standardizzato” dichiara il prof. George Serafeim, Professore di Business Administration alla Harvard Business School e promotore dell’IWAI, “così che tutti possano capire in modo intuitivo il significato dei dati e possano orientare le loro scelte di business, e di acquisto, nel modo migliore possibile”.

Una volta tradotto in termini numerici, infatti, l’impatto viene monetizzato e infine addizionato agli altri costi per fissare il prezzo di mercato. “La monetizzazione degli impatti”, spiega Serafeim, “consente finalmente di integrare nella contabilità finanziaria delle organizzazioni le esternalità delle attività commerciali”. La contabilità finanziaria integrata, la cosiddetta impact integrity, fa sì che le considerazioni sull’impatto ambientale e sociale delle attività imprenditoriali passino dalla periferia dei processi decisionali al cuore della discussione. Anche qui, tutto sta nel rendere visibile e tangibile qualcosa che prima non lo era.

In uno studio del 2020 dal titolo A Framework for Product Impact-Weighted Accounts, condotto dal professor Serafeim e dalla ricercatrice Katie Trinh, compaiono diverse dimostrazioni di monetizzazione dell’impatto. La seguente tabella compara, ad esempio, i costi delle emissioni prodotte dai veicoli venduti da una società A con quelli venduti da una società B. Lo studio monetizza l’impatto delle emissioni di carbonio associate ad un singolo anno di utilizzo del veicolo, che dovrebbe essere riconosciuto per l’intera durata prevista del prodotto.

L’IWAI fornisce quindi delle scale di misurazione che permettono ad un’organizzazione di verificare: quanto incidono le sostanze emesse durante la produzione sull’ambiente; quanto i lavoratori siano soddisfatti del luogo in cui lavorano, se abbiano opportunità di crescita, se la loro diversità culturale venga davvero rispettata, se l’equilibrio fra i generi sia mantenuto; quanto i prodotti messi in commercio siano riciclabili, durevoli, affidabili. “È giunto il momento che il sistema economico globale riconnetta la nozione di profitto a quella di valore”, afferma Serafeim con convinzione.

La pratica della misurazione è necessaria a certificare un’attività a impatto anche per distinguerla da una che invece non lo è. Molte imprese, infatti, hanno cavalcato l’onda verde per attrarre nuovi acquirenti e hanno modificato le loro etichette per approfittare di quella che si è trasformata in un’enorme strategia di marketing. Sulle confezioni dei prodotti di largo consumo sono comparsi loghi, bollini e indicazioni che esplicitano l’origine geografica dei prodotti, le modalità di produzione e il rispetto dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori coinvolti nella filiera. Da uno studio dell’Osservatorio Immagino, pubblicato a gennaio 2021, emerge che nel 2020 anche in Italia le vendite dei prodotti con un green claim in etichetta sono aumentate del 5,5%: le imprese italiane hanno cambiato il loro modello aziendale e ripensato la loro distribuzione per dare conto ai consumatori dell’impatto dei loro prodotti e servizi. Sulle etichette sono apparse le formule: “sustainable cleaning”, “friend of the sea”, “biodegradabile”, “vegetale”, “senza nichel”, “plastica riciclata”, proprio per rispondere alle nuove esigenze dei clienti che, anche come conseguenza della pandemia, sono diventati più attenti alla sostenibilità e alla responsabilità sociale di quello che acquistano.

Ma si tratta di etichette generiche, che forniscono indicazioni troppo vaghe. “Molte imprese stanno sfruttando questa attenzione alla sostenibilità come un’opportunità commerciale, ma non sono realmente interessate a diventare sostenibili”, afferma Galgani. Da qui la necessità di affidarsi alla misurazione e alla standardizzazione: per essere precisi ed evitare proclami privi di sostanza; per scovare, e di conseguenza allontanare, fenomeni di social e green washing, veri nemici delle attività a impatto.

Schede e storico autori