Il potere finanziario e la “Keynes tax”

Di questa crisi, che si prolunga oramai da troppo tempo, si dice spesso che ha carattere strutturale.  Questa affermazione non ha un significato univoco, tuttavia se si facesse un elenco dei fattori che la giustificano non si potrebbe omettere di menzionare le disfunzioni del sistema bancario e finanzario, il suo contrastato rapporto con la cosiddetta economia reale e il suo indiscutibile potere.

Le istituzioni e i mercati finanziari hanno notevolmente contribuito sia a generare la crisi (principalmente attraverso la creazione di un “eccesso di rischio”) sia a prolungarla (anche attraverso l’assorbimento di fondi pubblici destinati ai salvataggi bancari che avrebbero potuto avere una diversa  e più efficace destinazione).  Questi elementi  sono di per sé sufficienti a permettere di considerare il funzionamento del sistema finanzario, con le sue pericolose ripercussioni sull’economia reale, uno dei più seri problemi strutturali, se non il più serio, che  il capitalismo contemporaneo si trova oggi a fronteggiare.
La finanza costituì un problema anche nella crisi degli anni ’30, che di frequente  viene accostata a quella che stiamo vivendo. Tuttavia, in quel caso, furono tempestivamente adottati provvedimenti che ridimensionarono il potere della finanza, riducendo anche il rischio di comportamenti destabilizzanti per il sistema economico. In particolare,  negli Stati Uniti, a circa  3 anni di distanza dall’inizio della crisi,  venne approvato dall’amministrazione Roosevelt, insediatasi da poco, il Glass Steagall Act che sostanzialemente imponeva una netta separazione tra l’attività bancaria in senso proprio e l’attività di investimento finanziario. Tutto ciò  sulla base della convinzione – decisamente  fondata – che la commistione tra queste due attività fosse stata una causa decisiva non soltanto  dell’origine della crisi ma anche della sua gravità.

Sono trascorsi, oramai, 5 anni dai primi virulenti segni della crisi finanziaria ma questa volta  ben poco è stato fatto per ridefinire i rapporti tra finanza ed economia reale;  in particolare,  permane la commistione tra banca e finanza, resa nuovamente possibile, negli Stati Uniti, dal Gramm-Leach-Billey Act  del 1999 che, in virtù di un accordo bipartisan tra  democratici e repubblicani, ha cancellato proprio il provvedimendo rooseveltiano  del 1933.   Questa differenza  ha più di una causa. Una di esse è  certamente  lo stato dei  rapporti tra potere finanziario e potere politico, a livello mondiale, che oggi è ben diverso rispetto a 80 anni fa; un’altra potrebbe essere l’accresciuto grado di complessità dei mercati finanziari che richiede grande perizia  per individuare provvedimenti efficaci e con limitati effetti collaterali indesiderati.

In questo preoccupante panorama,  il progetto, oramai avanzatissimo, di introdurre in 11 paesi europei  un tassa sulle transazioni finanziarie (chiamata, non del tutto appropriatamente, Tobin Tax) merita molta attenzione, forse più di quanta ne abbia sinora ricevuta.

Ricostruendo la storia di  questo progetto, si può ricordare che già nel settembre del 2009, in occasione del G-20 di Pittsburgh,  venne chiesto  al Fondo Monetario Internazionale di  impegnarsi a individuare le modalità attraverso le quali il settore finanziario avrebbe potuto contribuire a finanziare gli interventi messi in atto per sostenere banche e altri istituti finanziari. Il rapporto redatto dal Fondo includeva, tra le varie possibilità, anche quella di istituire una tassa sulle transazioni finanziarie. La Commissione Europea ha fatto proprio questo suggerimento e ha elaborato una proposta che è stata resa nota poco più di un anno fa.  Secondo tale proposta i 27 paesi membri dell’Unione Europea avrebbero dovuto introdurre una tassa che avrebbe colpito con l’aliquota dello 0,1% le transazioni su  azioni e obbligazioni e con un aliquota  più bassa, dello 0,01%,  le transazioni riguardanti i titoli  derivati.

Nella scorsa estate  la Gran Bretagna e altri paesi hanno reso definitivamente nota la loro opposizione all’introduzione della tassa  e ciò ha posto gli altri paesi di fronte a un bivio: rinunciare del tutto o provare a introdurre ugualmente la tassa utilizzando la procedura della cooperazione rafforzata, che costituisce una deroga al principio dell’unanimità delle decisioni.  Si è  intrapresa la seconda  strada e, oramai, la si è percorsa quasi interamente.

Nei gironi scorsi, dopo l’ultima necessaria adesione  che è stata quella dell’Italia, la Commissione ha formalizzato la proposta della cooperazione rafforzata al Consiglio europeo. Quest’ultimo, dopo il consenso del Parlamento europeo, dovrà prendere la decisione definitiva.  L’ultimo atto sarà l’emanazione da parte della Commissione di una direttiva per l’attuazione dell’accordo.
I paesi che aderiscono alla cooperazione rafforzata sono 11 tra i quali vi è l’Italia che  ha associato al provvedimento europeo anche una tassazione di carattere nazionale. Per quanto è ora previsto, dovrebbero essere colpite con un’aliquota dello 0,05%  le transazioni di azioni e obbligazioni.  Le reazioni, prevedibilmente molto critiche, del mondo bancario e finanziario lasciano però apertissima la porta a possibili cambiamenti.

Per esprimere una valutazione su questa tassa  sono, anzitutto, necessarie alcune precisazioni.  Come si è detto,  si tratta di una tassa sulle transazioni finanziarie:  essa colpisce l’acquisto e la vendita di strumenti finanziari, non – come forse qualcuno erroneamente crede – i redditi o i guadagni di capitale associati a tali titoli.  Non si tratta, cioè, in alcun modo di una tassa patrimoniale e, come tale, essa  ha limitato impatto redistributivo.
Essendo diretta a colpire gli scambi di azioni, obbligazioni e derivati questa tassa può essere ricondotta soltanto in modo approssimativo a quella proposta da Tobin nel 1979. Infatti, l’originaria “Tobin Tax” aveva come obiettivo le operazioni sui cambi, considerate causa di instabilità internazionale in una fase in cui, per il venire meno dell’ordine monetario internazionale fissato a Bretton Woods, venivano smantellati i controlli sui movimenti  internazionali dei capitale .

In realtà,  una  tassa sulle transazioni finanziarie, assai simile a quella di cui oggi si parla, era stata proposta da Keynes nel 1936 (nel cap. 12 della sua Teoria Generale) proprio con lo scopo si frenare la speculazione; per questo motivo sarebbe forse più appropriato parlare di “Keynes tax” piuttosto che di “Tobin tax”.
Va anche ricordato che in molti paesi è già in vigore, anche se con  modalità molto diverse,  una tassa sulle transazioni finanzarie.  Tra questi paesi vi è la Gran Bretagna,  di cui molto si parla perchè si è rifiutata di aderire  al progetto  europeo: in questo paese è in vigore un’ imposta di bollo, con aliquota molto bassa, che colpisce gli scambi di titoli azionari e obblifgazionarii. Va, però, sottolineato che, qui come negli altri paesi dove vige una tassa simile, la tendenza recente è stata  verso l’alleggerimento dell’aliquota e la riduzione del suo ambito di applicazione.  Dunque, una direzione di marcia opposta a quella che suggerisce la Commissione europea.

Nelle intenzioni dei “padri fondatori”,  Keynes e Tobin, la tassa sulle transazioni dovrebbe combattere la speculazione. Infatti, quest’ultima richiede di operare frequenti acquisti e vendite sul mercato e l’obbligo di  versare la tassa ad ogni transazione potrebbe scoraggiarla, anche se l’ aliquota fosse bassa. Al contrario, una simile tassa inciderà  molto poco su chi effettua sporadiche transazioni, come è il caso di un tradizionale risparmiatore.
Nei  mercati finanziari contemporanei  si prendono in  modo automatico e  in frazioni di secondo,  miriadi di decisioni di acquisto o vendita di titoli (si tratta del cosiddetto High Frequency Trade) e ciò ha, almeno in alcune fasi,  la conseguenza di imprimere instabilità ai mercati. La tassa potrebbe, in linea di principio, fortemente scoraggiare queste ripetute attività favorendo una maggiore stabilità  dei mercati e limitando anche gli enormi effetti redistributivi (e gli enormi guadagni) che l’accentuata volatilità nei prezzi dei titoli spesso consente.

L’efficacia della tassa sotto questo profilo è stata, però, messa in discussione. In effetti può essere molto difficile riuscire  a rilevare e a tassare tutte le transazioni e, d’altro canto, per evitare che si inneschi automaticamente una catastrofica ondata di vendite, quando il prezzo da al di sotto di una determinata soglia,  la tassa non è lo strumento più efficace.  Una soluzione migliore è quella già adottata dal regolatore americano che ha introdotto un sistema (circuit breaker) che blocca le transazioni quando il prezzo scende anche per pochi minuti sotto un valore prefissato.
All’efficacia della tassa nel contrastare la volatilità dei mercati sono state mosse  anche altre critiche. In particolare si è osservato che se le transazioni diminuiscono, i mercati diventano “più sottili” e questo potrebbe accrescere, anziché diminuire,  la volatilità. Da un altro punto di vista,  si è richiamata l’attenzione sul fatto che alla tassa potrebbe essere relativamente facile sottrarsi investendo in strumenti che ne sono esenti oppure migrando, finanziariamente, in paesi che non la adottano.  La rilevanza pratica di queste critiche dipende, in larga misura, dal disegno effettivo, anche nei dettagli, della tassa stessa. Ad esempio, non  è indifferente se si  considera la  nazionalità dell’intermediario oppure quella del titolo oggetto di transazione.  La Commissione europea ha formulato le proprie proposte su questo e su altri aspetti  e, non potendo soffermarmi su di esse, rinvio alla loro consultazione sul sito web della Commissione.

Il punto che, prima di concludere, vorrei portare all’attenzione è un altro.   Si tratta del contributo che questa tassa può dare a quella riforma del sistema finanziario di cui si avverte un gran bisogno per porre su basi più sicure ed eque i rapporti tra finanza ed economia reale.
Per affrontare questo problema  va, anzitutto, ricordato che questa tassa, non diversamente da molte altre,  può avere almeno tre obiettivi. Il primo è quello di far affluire entrate nelle casse pubbliche; il secondo è alterare i comportamenti degli operatori, spingendoli a riunciare a quelli che sono considerati più dannosi; il terzo è redistribuire reddito e ricchezza. Questi tre obiettivi non sono facilmente compatibili tra loro, anzi possono essere in diretto conflitto.
In particolare, il primo ed il secondo sembrano di difficile conciliazione:   se la tassa ha successo nel cambiare in modo esteso e radicale i comportamenti (che, nel nostro caso, vuol dire frenare le transazioni speculative) il gettito tenderà ad annullarsi. E ciò avverrà più probabilmente  se  le aliquote saranno molto alte, ben più alte di quelle di cui si parla.  Se la tassa fosse orientata principalmente a questa azione di riforma, il suo disegno dovrebbe corrispondere a quanto si è appena detto. Non sembra, però, che la Commissione  europea e i paesi che danno vita alla cooperazione rafforzata intendano la tassa in questo modo.

Al contrario, l’attenzione sembra tutta spostata sul gettito che la tassa potrà dare. Ne è prova precoce il modo nel quale è stata formulata la richiesta di approfondimento tecnico al Fondo Monetario (far partecipare il mondo finanziario al finanziamento della spesa) e ne sono prove recenti le dichiarazioni di responsabili politici europei e nazionali, molto attenti a stimare il probabile gettito (quello atteso dalla tassa “italiana” è di poco più di un miliardo di euro) e già impegnati a fare ipotesi sulla sua utilizzazione.  E’ inutile sottolineare quanto sia importante trovare fondi addizionali  per le casse pubbliche e, dunque, quanto ragionevole sia questa preoccupazione. Ed è forse ugualmente inutile  sottolineare l’importanza di una decisione presa in assenza di unanimità, superando il tradizionale immobilismo decisionale europeo.

Soltanto che tutto ciò non ha molto a che fare con il processo di riforma strutturale della finanza e dei suoi rapporti con l’economia di cui si avverte un gran bisogno.  Si tratta di una misura da apprezzare, ma per quello che essa realmente è. Un modo condivisibile per ampliare le entrate fiscali, non un intervento in grado di ricondurre il potere finanziario e i suoi eccessi alla piena compatibilità con un capitalismo ben funzionante e con la “buona società” che la finanza potrebbe contribuire a creare, come auspica, nel suo ultimo  libro, Robert Shiller.  Per questo, purtroppo, occorre attendere ancora.

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