Il potere delle piattaforme digitali tra economia e politica

Guido Stazi mostra i tanti rischi per l’economia e per la politica che derivano dal potere accumulato dalle grandi piattaforme digitali, ormai divenute veri e propri stati paralleli. Stazi sostiene che, nonostante alcune inversioni di marcia in atto, occorre un più profondo ripensamento sul ruolo e sulle modalità di intervento dell’anti-trust; si tratta di un compito difficile, perché, prima ancora di conquistare il mercato, il monopolio ha conquistato le menti ma affrontarlo è essenziale per il buon funzionamento dell’economia e della democrazia.

Robert Nozick, il grande filosofo americano teorico dello stato minimo, in “Anarchia Stato e Utopia” (1974) scriveva che “il problema della regolamentazione è che lo Stato proibisce azioni capitalistiche tra adulti consenzienti”.

Cosa avrebbe detto però delle grandi piattaforme digitali che si comportano da veri e propri stati paralleli, che fatturano e capitalizzano ai livelli dei PIL degli stati nazionali, ma senza debiti, che si preparano a battere moneta digitale e che, per un lungo periodo, sono cresciute senza regole, se non quelle che stabilivano loro? E che adesso stanno investendo enormi risorse nella costruzione di loro, private, reti globali per emanciparsi da internet e privatizzare il transito dei big data.

Alla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti fu varata la prima legge antitrust, lo Sherman Act, per impedire che imprese troppo grandi monopolizzassero i mercati e, tramite l’accumulo di enormi ricchezze, accrescessero le diseguaglianze e condizionassero la democrazia americana.

Allora le imprese che monopolizzavano l’economia statunitense erano le grandi compagnie petrolifere e ferroviarie; adesso ai tempi della rivoluzione dei big data, sono le piattaforme digitali, dinamiche e innovative, in grado di operare in modo globale e flessibile su molti mercati, unite dalla capacità di massimizzare e utilizzare al meglio i dati. Negli USA vengono definite in un acronimo: FAANG cioè Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google.

I dati di bilancio di queste cinque imprese, messi insieme danno la dimensione di un agglomerato economico e finanziario impressionante: gli straordinari fondamentali economici di FAANG derivano innanzitutto dalle grandi capacità di visione e innovazione dei fondatori, che hanno inventato nuovi modelli di business o trasformato con l’utilizzo della tecnologia business tradizionali, travolgendoli.

Ma è l’accumulo e la capacità di strutturare e profilare tramite algoritmi le enormi quantità di dati raccolti nel corso delle varie attività a costituire, consolidare e rendere difficilmente attaccabile il potere di mercato delle loro piattaforme digitali. Il reticolo dell’infrastruttura social, in parte condiviso dalle piattaforme digitali, composto dai nostri dati e dalle connesse elaborazioni algoritmiche, è il centro e il moltiplicatore del potere informativo ed economico di FAANG.

Sono evidenti gli impatti di questo potere multiforme e crescente sul mercato, sugli utenti, sulla sfera pubblica, sulla società civile e, in ultima analisi, sulla stessa democrazia.

Appare quindi inspiegabile, come non pochi hanno denunciato, la benevola tolleranza con cui la politica, le istituzioni a salvaguardia del mercato e gli esperti di antitrust abbiano assistito, negli Stati Uniti e nel resto del mondo, alla inarrestabile crescita delle grandi piattaforme digitali; cioè alla manifestazione più affascinante e potenzialmente più pericolosa del monopolio che la civiltà occidentale abbia mai conosciuto. Occorre, con urgenza, riannodare il filo della teoria e della pratica antitrust per affrontare la rivoluzione digitale: il compito spetta in primis alle istituzioni e agli esperti che si occupano di concorrenza, tornando alle radici costitutive originarie dell’antitrust. Il che non significa abbandonare l’armamentario antitrust che in più di un secolo giuristi ed economisti hanno costruito ed affinato, ma che si è rivelato inefficace a cogliere e frenare il potere di mercato dei big data; il tutto va però ripensato e riorganizzato rapidamente.

Sarà molto importante anche il contesto politico in cui il riposizionamento delle istituzioni che tutelano e regolano i mercati si troverà ad operare. Contesto che in questi primi due decenni del nuovo secolo ha dovuto fare i conti con la seducente narrazione tecnologica e libertaria di internet, sostenuta dall’enorme potenza di fuoco lobbistica dei big data, cresciuti a dismisura utilizzando gratis le reti costruite dalle imprese di telecomunicazioni, i contenuti dei broadcaster e le notizie delle imprese editoriali; a tutti erodendo fino all’osso margini, pubblicità e copie vendute.

L’Economist e il New York Times, per primi hanno animato il dibattito sul potere monopolistico dei big tech e sul loro contributo alle dinamiche antidemocratiche e populiste, sostenendo che ricostruire la fiducia della gente nel mercato è un antidoto al populismo; e che le leggi e le istituzioni che tutelano e regolano il mercato hanno un grande ruolo e una grande responsabilità in tutto ciò.

Il clima è cambiato sicuramente in Europa, dove la Commissione ha inflitto in rapida successione, negli ultimi due anni, tre sanzioni miliardarie a Google per diversi abusi di posizione dominante e dove alcune autorità nazionali, tra cui quella italiana, hanno in corso istruttorie sulle imprese Big Tech. La conferma di Margrethe Vestager come commissario alla concorrenza, con l’incarico di coordinare le questioni digitali in qualità di Vicepresidente, segnala la grande attenzione che la nuova Commissione continuerà a dedicare alle piattaforme digitali.

Negli USA si registra un recente, notevole fermento politico e culturale – di cui Pezzoli ha iniziato a dare conto già a giugno sul Menabò – tra gli slogan (“Break Up Big Tech”) della Senatrice Warren, in corsa tra i democratici per le presidenziali, i tweet mai teneri del Presidente Trump nei confronti delle piattaforme digitali, e molti lavori accademici che innovano e mettono in discussione la teoria e la pratica antitrust ortodossa che ha contribuito a silenziare le autorità a tutela della concorrenza americane negli ultimi decenni. Che da ultimo si sono messe in moto tutte insieme ai vari livelli del sistema, su molti dossier big tech: in modo coordinato cinquanta procuratori generali di quarantotto Stati Federali degli USA hanno recentemente annunciato un’indagine antitrust su Google; un’altra inchiesta antitrust, questa volta su Facebook, è stata avviata da un coordinamento di otto Stati Federali; anche a livello centrale, il Dipartimento di Giustizia e la Federal Trade Commission hanno annunciato indagini in corso su presunti comportamenti anticoncorrenziali di Google, Facebook, Amazon e Apple.

Dal punto di vista accademico si segnalano i seminari organizzati da Luigi Zingales a Chicago, presso lo Stigler Center, che da un paio d’anni raccoglie la new wave accademica e intellettuale in digital competition e il fenomeno ormai mediatico di Lina Khan, una giovane studiosa newyorkese di origini pakistane che sul Yale Law Journal nel 2017 ha scritto un lungo saggio “Amazon’s Antitrust Paradox” che, a distanza di quarant’anni, chiama in causa Robert Bork e il suo libro del 1978 “The Antitrust Paradox” e l’ortodossia chicagoan che ha permesso ad Amazon, secondo Khan, “di marciare verso il monopolio cantando il motivo dell’antitrust contemporaneo”.

Insomma, vedremo se questi movimenti di opinione contribuiranno a produrre negli Stati Uniti, a livello politico, di governo o delle istituzioni a tutela della concorrenza, un cambio di passo o comunque approcci antitrust più incisivi all’economia digitale. Le azioni intraprese recentemente a livello centrale e federale dalle autorità antitrust americane, paiono confermare questa linea di tendenza.

Nel resto del mondo occidentale occorre registrare i recenti contributi sul tema dell’Australian Competition and Consumers Commission (Digital Platform Inquiry), della Commissione Europea (Competition Policy for the Digital Era), del Governo inglese (Unlocking Digital Competition) e dell’House of Lords (Regulating in a Digital World) sempre nel Regno Unito.

Pare solida la consapevolezza della pericolosità, per la concorrenza effettiva e potenziale, del potere di mercato dominante delle piattaforme digitali: effetti di rete diretti e indiretti, economie di scala e di scopo, sunk cost, market tipping, switching cost e lock-in, barriere all’entrata e all’uscita; insomma, tutto il vocabolario antitrust è impattato dalla rivoluzione digitale e dai suoi protagonisti. Però winners take all e le posizioni di mercato di Google, Apple, Amazon e Facebook appaiono in questo momento inscalfibili e persistenti.

L’unica disciplina concorrenziale, potenzialmente disruptive, la esercitano loro su mercati dove paradossalmente non sono ancora presenti e, naturalmente, in quelli contigui. Grazie alla loro potenza di fuoco, in termini di big data ed economico-finanziaria, molti settori economici tradizionali potrebbero essere rapidamente vampirizzati.

Che si propone di fare? Alzare e potenziare i livelli di vigilanza antitrust, enforcement, misure cautelari, inversione dell’onere della prova, interoperabilità e portabilità dei dati: insomma tutto potrà fare brodo, ma l’impressione è che la ciccia sia oramai altrove. E questo perché le imprese citate, insieme a Microsoft, negli ultimi dieci anni hanno acquisito circa 400 società, tra start-up e imprese già affermate nell’economia digitale.

Questo appare il fallimento più grave delle norme e del sistema delle istituzioni a tutela del mercato: si è consentito alle grandi piattaforme digitali di fare terra bruciata intorno a loro, consolidare e mettere in sicurezza il potere di mercato di ciascuna. Insieme alle centinaia di start-up di cui non sappiamo nulla perché neanche passate al vaglio antitrust, in cui magari c’era qualche killer application che avrebbe messo a rischio l’incumbent, due casi per tutti, vagliati e autorizzati senza condizioni dall’antitrust americano ed europeo: con l’acquisto di Double-Cick Google, già dominante nelle pubblicità on-line, è diventata una macchina da guerra e da utile; quando Facebook la acquisì, Whatsapp fatturava solo 20 milioni di dollari, ma sborsò 16 miliardi di dollari per assicurarsi 450 milioni di whatsappisti e i loro dati, privando il mercato di un protagonista. Che fare? Si propongono interventi normativi per cucire i buchi della rete del controllo delle concentrazioni e condivisibili misure di enforcement, maggiore attenzione all’innovazione, alla qualità, ai dati.

Di pari passo alle preoccupazioni di carattere economico e di mercato, ormai imperversano quelle di carattere politico, cui il caso Cambridge Analytica ha fatto da detonatore. Nulla che comunque non fosse stato già analizzato e previsto.

Ogni nuova tecnologia esercita su di noi una lusinga molto potente, tramite la quale ci ipnotizza in uno stato di narcisistico torpore. Difatti, una totale immersione nelle logiche mediali può condurre, inconsapevolmente, l’uomo ad una condizione di “idiota tecnologico”, ovvero una sorta di narcosi ed intorpidimento in grado di far perdere di vista la realtà. Se non abbiamo gli anticorpi intellettuali adatti, questo capita appena ne veniamo in contatto, e ci porta ad accettare come assiomi assoluti le assunzioni non neutrali intrinseche in quella tecnologia”. Questo è un passo tratto da un fondamentale libro di Marshall McLuhan Understanding Media. The Extensions of Man (New York, 1964), pubblicato oltre mezzo secolo fa.

McLuhan è stato il più grande studioso ed esperto di mezzi di comunicazione di massa del secolo scorso. Morì nel 1980 quando internet era ancora un esperimento, chiamato Arpanet, del Pentagono; ma aveva già immaginato e previsto tutto nei suoi scritti. Come ad esempio la metafora del villaggio globale” adottata da McLuhan per indicare come, con l’evoluzione dei mezzi di comunicazione il mondo sia diventato improvvisamente più piccolo e i suoi abitanti tendano ad assumere, nel bene e nel male, i comportamenti tipici di un villaggio. Il mezzo cui si riferiva McLuhan era la televisione, ma la sua analisi si attaglia in modo incredibilmente appropriato e preveggente alla rete e ai social del nostro tempo.

A questo proposito occorre distinguere la rete, internet, dalle grandi piattaforme digitali che ne hanno fatto il più innovativo e redditizio business della storia contemporanea, e che forse ci stanno rendendo un po’ tutti degli (utili) idioti.

Le grandi imprese digitali hanno saputo identificare sapientemente la propria narrazione con quella dell’era digitale, di cui sono stati gli straordinari corifei ma anche i massicci beneficiari; vista anche l’inerzia delle istituzioni a tutela del mercato, che ha contribuito non poco a offrire un ombrello di legittimità alla proliferazione del monopolio digitale.

A soffrire sono anche altri parametri non di poco conto, come ad esempio la qualità dell’informazione, la diversità culturale, la diffusione delle opinioni su temi economici e politici.

Le piattaforme digitali favoriscono la polarizzazione delle opinioni sotto forma di una nuova e pericolosa deriva tribale, indulgendo nella propagazione del pregiudizio cognitivo, producendo un effetto eco che amplifica e ratifica le convinzioni sottraendole al test della dialettica.

Internet è un mezzo che agisce sull’emotività più che sulla razionalità deliberativa: chi naviga cerca l’asseverazione dei suoi giudizi a priori (o appunto pregiudizi), piuttosto che schiudersi alla messa in discussione della propria visione in dialettica con altri punti di vista.

La politica si trasforma in uno sport nel quale le tifoserie si contrappongono senza la mediazione di quello spazio di confronto e di mediazione che è, o piuttosto era, la sfera pubblica.

Uno spazio questo che abbisogna di tre requisiti per funzionare: l’esposizione a fonti che non siano state scelte; la condivisione di esperienze comuni; l’attenzione per le questioni di politica e di principio, con l’aggiunta di un ampio spettro di valutazioni sulle stesse.

Orbene, sulle macerie della sfera pubblica borghese dell’età classica – rappresentata dalla stampa, dalle televisioni, dai luoghi di incontro e confronto – prosperano i populismi che hanno trovato nel solipsismo della navigazione solitaria un potente amplificatore e alleato.

Come se non bastasse, le piattaforme digitali sono divenute indispensabili al potere politico ben più di quanto lo fossero i monopoli dei Rockefeller e della Standard Oil ai tempi dello Sherman Act.

Più di ogni altro monopolio, le piattaforme tecnologiche incidono sulla formazione dell’opinione pubblica senza pagare alcun prezzo in termini di immagine o di accountability.

Da una parte la retorica libertaria che ne ha accompagnato la crescita, dall’altra la percezione che si tratti di architravi necessarie dell’esistenza, ha creato una situazione senza precedenti: prima ancora di conquistare il mercato, il monopolio ha conquistato le menti.

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