Il populismo finanziario in Germania

Roberto Tamborini sostiene che l'attacco del gotha della finanza tedesca contro le nuove misure espansive della BCE, e la persona di Draghi, prova che non sono populiste solo le destre e sinistre antisistema. Quell’attacco cavalca le paure di un paese con sempre più pensionandi e pensionati e, inoltre, la pretesa di assicurare elevate rendite finanziarie nelle attuali condizioni economiche è incompatibile coi princìpi di politica monetaria seguiti da tutte le banche centrali. Tirare la BCE per la giacchetta in nome di un presunto interesse generale europeo è sterile e puerile.

Ti spiegano che il populismo è la malattia infantile delle destre e delle sinistre antisistema, e poi lo ritrovi dove meno te lo aspetti, ai massimi livelli dell’industria finanziaria tedesca. Il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, la rappresentante dimissionaria della Germania nel board della Banca centrale europea, Sabine Lautenschläger, diversi alti dirigenti bancari hanno lanciato un attacco frontale contro l’Istituto di Francoforte, e la persona di Mario Draghi, con assai maggior forza e clamore pubblico che in passato (i tabloid popolari hanno ritratto Draghi come il Conte Dracula dei risparmiatori). Il casus belli è il pacchetto adottato, con voto a maggioranza, nell’ultima sessione del direttivo della BCE, il quale, partendo dal presupposto di un peggioramento significativo del quadro economico complessivo della Zona euro, comprende l’ulteriore estensione temporale del “tasso zero” per il rifinanziamento principale del sistema bancario, il “tasso negativo” (ossia una tassa) sulle riserve bancarie in eccesso alla quota obbligatoria, e la riattivazione del Asset Purchasing Program (APP), il Programma di acquisti mensili di titoli pubblici e privati (denominazione ufficiale del quantitative easing a Francoforte) iniziato nel gennaio 2015 e interrotto nel dicembre 2018. Per la verità, questa volta i voti contrari, e i dissensi pubblicamente espressi, non sono venuti solo dal fronte “nordico”, ma anche, con toni più urbani e moderati, dal governatore della Banca di Francia.

Ha fatto particolare scalpore, per durezza e ruvidità, l’intervista del Financial Times all’amministratore delegato del colosso bancassicurativo Allianz, Oliver Bäte del 4 ottobre, secondo il quale “invero abbiamo creato le banche centrali indipendenti perché non stampassero moneta. La gente dice che Draghi è indipendente. No, non lo è”. Tra le gravi conseguenze negative denunciate nell’intervista ci sarebbe il lassismo fiscale. “La ragione per la quale non stiamo facendo riforme fiscali è perché tu stai rendendo facile per la gente spendere soldi che non hai”.

Invero sono affermazioni sorprendenti, peraltro largamente condivise in Germania. Le banche centrali moderne sono state create tra XIX e XX secolo precisamente per dar loro il monopolio di stampare moneta, e per due ragioni. La prima è che l’ancoraggio stretto della massa monetaria all’oro e/o argento disponibili non era più funzionale all’espansione della domanda di mezzi di pagamento in condizioni di prezzi stabili. La seconda è che la conseguente proliferazione della carta bancaria privata aveva generato instabilità e ripetute crisi. Quanto all’indipendenza delle banche centrali, essa si manifesta nelle loro decisioni finalizzate agli obiettivi statutari di stabilità monetaria e finanziaria, che devono essere dettate da obiettive valutazioni macroeconomiche, non da interessi particolari di ordine politico o lobbystico. Tra questi ultimi vanno annoverati anche quelli dei pensionati e pensionandi dei paesi con elevato invecchiamento e i loro portavoce finanziari. Costoro si trovano in difficoltà a causa dei bassi rendimenti che possono offrire alla clientela, altrettanto allarmata, e tutti insieme sono alla ricerca di capri espiatori. Per di più non stiamo parlando di una banca centrale “normale” ma di un’istituzione che governa la moneta di diciannove paesi indipendenti. Se la BCE obbedisse agli interessi finanziari dei pensionati tedeschi sarebbe indipendente?

La verità è che, come misero in luce grandi studiosi come Schumpeter e Keynes, il capitalismo finanziario moderno genera un conflitto d’interessi tra i “cacciatori di rendite finanziarie”, che desiderano tassi d’interesse elevati per impiegare i propri fondi, e coloro che necessitano di quei fondi per investirli in attività produttive e quindi chiedono tassi d’interesse che non eccedano il rendimento del capitale. Non esistono politiche monetarie “neutrali”. Le politiche antinflazionistiche si sposano agli interessi dei creditori, quelle antideflazionistiche giovano ai debitori. Ciò vale tanto per singoli soggetti quanto per ciascuno dei diciannove paesi affidatisi alla BCE. In tal contesto non è semplice identificare “l’interesse generale” che dovrebbe guidare una banca centrale indipendente – e il concetto stesso d’indipendenza risulta più problematico di quel che appare. Ad ogni modo, tirare per la giacchetta la BCE dalla propria parte in nome di un presunto interesse generale europeo è un esercizio sterile e puerile.

La pretesa di offrire tassi d’interesse elevati ai propri clienti nelle attuali condizioni economiche generali non è compatibile coi princìpi della politica monetaria a cui s’ispirano tutte le banche centrali. Secondo tali principi, il perno della politica monetaria è l’allineamento del tasso d’interesse monetario col tasso di rendimento (produttività) del capitale aumentato per l’inflazione obiettivo. La gran parte degli studiosi è concorde nel ritenere che da diverso tempo il rendimento del capitale è in declino nei paesi avanzati, ed è attualmente molto basso se non negativo. “I tassi sono bassi perché lo è il rendimento del capitale, non viceversa” (J. Yellen, allora presidente della Riserva federale americana, audizione al Senato del 11-2-2014). Se oltretutto si desidera un’inflazione tendenziale bassa, la banca centrale non può fissare un tasso lontano dallo zero. Se facesse il contrario deprimerebbe ancor di più gli investimenti in capitale produttivo e creerebbe ulteriori spinte recessive e deflattive.

Le ragioni di questo stato di cose non sono del tutto chiare, ma secondo l’ortodossia economica a cui fanno riferimento (quando giova) gli stessi critici di Draghi, il tasso di rendimento del capitale è determinato dall’incontro tra risparmio e investimento, cioè da scelte di risparmiatori (la preferenza tra consumo presente e futuro) e imprenditori (il confronto tra il rendimento del capitale e il suo costo) guidate da fattori non influenzabili dalla politica monetaria. Perciò sarebbe proprio l’eccesso di risparmio rispetto alle opportunità d’investimento a deprimere il rendimento del capitale, un fenomeno che vede primeggiare la Germania. Si veda la Figura 1, che mette a confronto la quota del risparmio e dell’investimento rispetto al PIL fino all’avvento del APP nel 2015. La classe dirigente tedesca dovrebbe interrogarsi sul perché la Germania investe nel proprio capitale 5 o 6 punti di PIL di meno di quanto risparmia anziché attaccare la BCE e il suo attuale presidente.

Figura 1. Risparmio e investimento in rapporto al PIL in Germania, 2005-15.

Anche la lamentela della compressione dei margini di profitto delle banche causata dalla politica del “tasso zero” va verificata più accuratamente. La Figura 2 mette in relazione la media del 2019 dei tassi d’interesse bancari sui prestiti a medio-lungo termine registrati mensilmente in ciascun paese della Zona euro (asse verticale) e la differenza tra il tasso d’inflazione del paese e il 2% fissato dalla Bce. I dati dicono due cose. La prima è che in tutti i paesi, inclusa la Germania, dopo quasi cinque anni di “tasso zero” il costo del credito rimane ben al di sopra dello zero anche in termini reali. Invece di alimentare il populismo finanziario, i banchieri tedeschi dovrebbero dar conto a famiglie e imprese per quale ragione il costo del credito in Germania debba essere maggiore che in Belgio, Francia, Finlandia, e Spagna. La seconda è che persiste un chiaro sbilanciamento verso il lato sinistro della relazione tra tassi d’interesse e d’inflazione, ossia sul versante della deflazione dei prezzi. Ciò sta ad indicare che l’indirizzo della politica monetaria e le condizioni del mercato del credito nella Zona euro nel suo insieme non sono affatto troppo accomodanti. Se lo fossero, lo sbilanciamento si osserverebbe verso destra, ossia sul versante dell’eccesso d’inflazione.

Sorprende altresì leggere nelle dichiarazioni riportate sopra che la politica monetaria espansiva illude la gente di poter spendere soldi che non ha. Pensavamo che le banche esistessero con lo scopo di prestare denaro a chi ne ha necessità, e non solo per gestire i soldi di chi li ha. Se fosse vero che “la crescita non si fa coi debiti”, il capitalismo non sarebbe mai nato. Restando ai fatti, dal gennaio 2015 ad oggi l’Eurosistema ha creato base monetaria (misurata come incremento dell’attivo patrimoniale) per 3600 miliardi di euro (pari all’86% del valore iniziale), e nello stesso tempo le riserve in eccesso del sistema bancario sono passate da 130 a 1200 miliardi. In altre parole, un terzo dell’espansione monetaria non è mai arrivato al sistema economico. Pertanto è giusta la preoccupazione della Bce alla vista della montagna di denaro che staziona inoperoso nelle riserve delle banche a Francoforte. Ed è giusta la sua penalizzazione con tasso di riserva negativo, anche se ciò ha irritato sommamente i banchieri tedeschi, a cui non è bastata l’introduzione di un livello di franchigia al di sotto del quale la penalizzazione non si applica. In un’economia ben funzionante, le banche non si limitano a raggranellare qualche decimale di margine operativo lasciando i fondi parcheggiati a riserva, bensì li impiegano in progetti produttivi ben selezionati. I cacciatori di rendite possono avere le loro ragioni di avversione al rischio per non farlo, ma allora si deve dire che sono essi a violare le regole del gioco, non la Bce, la quale semplicemente adempie al proprio dovere di elevare multe per violazione del divieto di sosta prolungato.

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