Il ‘populismo’ di destra e i perdenti della globalizzazione e del progresso tecnologico

Italo Colantone e Piero Stanig esaminano le cause strutturali del successo dei partiti “populisti” e di destra radicale in Europa occidentale. Dopo aver illustrato le conseguenze distributive della globalizzazione e del cambiamento tecnologico, Colantone e Stanig, richiamando i risultati di vari loro lavori, mostrano che, in vario modo, entrambe hanno determinato dei perdenti e sostengono che questi ultimi hanno scelto di dare il proprio consenso elettorale a partiti con piattaforme nazionaliste, protezioniste e nativiste.

Il successo dei partiti “populisti”, e in particolare della destra radicale, è un fenomeno che ha toccato quasi tutte le democrazie avanzate occidentali. Il dibattito sulle origini di tale fenomeno vede da un lato quanti sostengono l’importanza dei fattori culturali, e dall’altro quanti sottolineano il ruolo dell’ansietà economica. I primi si concentrano in particolare sulla presunta minaccia alla cultura nazionale –percepita dagli elettori– derivante dall’immigrazione, e più in generale su un’opposizone neo-tradizionalista al “pacchetto cosmopolita” che comprende globalizzazione, multiculturalismo, e diritti delle minoranze. I secondi, invece, hanno evidenziato il ruolo dell’insicurezza economica e delle crescenti ineguaglianze di reddito e opportunità.

Nel nostro lavoro, mostriamo che cambiamenti strutturali nell’economia causano il successo della destra radicale, e più in generale del nazionalismo e dell’isolazionismo in Europa occidentale. In particolare, le democrazie avanzate stanno affrontando una  transizione verso un’economia in cui il settore manifatturiero gioca un ruolo sempre meno importante in termini di occupazione. Questa transizione è stata accelerata dall’integrazione economica, parte dei fenomeni di globalizzazione, e in particolare dall’emergere di nuovi attori di primo piano, soprattutto la Cina, diventata nel breve arco di due decenni uno dei primi paesi esportatori a livello globale. Inoltre, sviluppi tecnologici recenti, e in particolare la robotica industriale, hanno ridotto l’occupazione in ruoli di routine, specialmente nel manifatturiero. Di conseguenza, sono diminuite radicalmente le opportunità lavorative per individui a competenze medio-basse, sostituibili dall’automazione e da lavoratori a bassi salari nelle economie emergenti. Questi processi hanno portato a una polarizzazione del mercato del lavoro, riducendo in maniera importante la domanda per lavori stabili e relativamente ben pagati nel manifatturiero, e aumentando da un lato l’occupazione a bassa qualificazione nei servizi, dall’altro i ritorni a competenze elevate.

Sebbene tanto la globalizzazione quanto l’automazione portino benefici economici in aggregato, gli stessi fenomeni impongono costi concentrati su determinati settori e gruppi sociali, creando vincitori e perdenti. In vari contributi, mostriamo come questi perdenti dai cambiamenti strutturali si rivolgano, a livello elettorale, a partiti nazionalisti e della destra radicale per manifestare il proprio malcontento.

Per quanto riguarda la globalizzazione, in due contributi abbiamo studiato l’effetto della competizione derivante dalle importazioni cinesi sul comportamento di voto in Europa occidentale. La misura regionale della competizione cinese, ispirata da una misura analoga proposta da Autor e coautori (in American Economic Review, 2013) per gli Stati Uniti, combina due informazioni: la composizione storica dell’occupazione, per settore, in ciascuna regione, e la crescita delle importazioni dalla Cina, per settore, anno, e paese. L’intuizione è che regioni storicamente specializzate in settori in cui la Cina è cresciuta di più sono state più esposte allo “shock da globalizzazione.”

Per un primo contributo (Colantone e Stanig 2018, in American Journal of Political Science, 2018) abbiamo calcolato questa misura per le regioni di quindici paesi dell’Europa occidentale tra gli anni novanta e il 2007, l’ultimo anno prima della Grande Recessione. Il livello di disaggregazione geografica dell’analisi è il NUTS2, corrispondente alle regioni italiane.

Combinando risultati elettorali disaggregati con dati del Manifesto Project Database sulle posizioni ideologiche dei partiti (a livello nazionale), possiamo calcolare quanto nazionalista è l’elettorato di un determinato collegio elettorale. In particolare, calcoliamo il centro di gravità del collegio: la media delle posizione dei partiti, pesata secondo le percentuali di voto ricevute da ciascun partito nel collegio. Calcoliamo anche la percentuale ricevuta in ciascun collegio da partiti della famiglia della destra radicale. Il risultato principale è che, in regioni più esposte alla competizione cinese, partiti con piattaforma nazionalista e partiti della destra radicale hanno riscosso più successo. La tecnica econometrica delle variabili strumentali permette di dare un’interpretazione causale a queste relazioni sistematiche tra variabili.

In un lavoro specifico sul referendum per la Brexit (Colantone e Stanig, in American Political Science Review, 2018) mostriamo come le percentuali a favore dell’opzione Leave siano significativamente più alte in aree che hanno subito di più la competizione cinese. Per questo lavoro, abbiamo calcolato l’esposizione all’import cinese secondo la medesima procedura, ma a livello di aree NUTS3 (equivalenti alle province in Italia). Al tempo stesso, non c’è una relazione discernibile a livello statistico tra presenza o arrivi di immigrati in una data area e appoggio all’uscita dalla UE: nonostante l’immigrazione sia stata uno dei temi centrali della campagna referendaria, non sono state le regioni con più immigrazione ad appoggiare l’opzione Leave.

Per la nostra ricerca sugli effetti dell’automazione, a cui collabora anche l’economista Massimo Anelli, calcoliamo misure dell’impatto dell’adozione di robot industriali tanto a livello regionale quanto individuale per quattordici paesi dell’Europa occidentale, tra gli anni novanta e il 2016.

La misura regionale, ispirata da una metodologia proposta per gli Stati Uniti da Acemoglu e Restrepo (in American Economic Review, 2018), è costruita secondo una logica analoga a quella della misura dello “shock da globalizzazione”. La misura combina infatti informazioni sulla composizione settoriale storica dell’impiego in una data regione, con informazioni sull’adozione di robot industriali, per settore, in un dato paese e in un dato anno. In pratica, la misura attribuisce uno “shock robotico” più forte a regioni specializzate in settori che adottano più robot (ad esempio  il settore dell’automobile).

La misura individuale, invece, si concentra sulle specifiche occupazioni. L’idea di fondo è che l’automazione non solo minaccia i lavoratori che attualmente svolgono un’occupazione automatizzabile, ma riduce anche la domanda di nuovi lavoratori per tali mansioni. In pratica, individui che, in assenza di automazione, avrebbero potuto ottenere un lavoro stabile e relativamente ben pagato (ad esempio nel metalmeccanico), si trovano invece occupati in lavori meno sicuri, e pagati peggio, nei servizi a basse competenze (ad esempio nelle consegne a domicilio dell’online shopping).

Per catturare l’effetto dell’automazione su questi individui, per prima cosa stimiamo i pattern storici di impiego in funzione dell’età, livello di istruzione, sesso, e regione di residenza, a partire dai dati della European Labor Force Survey per i primi anni novanta. Poi, possiamo calcolare la probabilità predetta di essere in ciascuna occupazione (al livello di codice ISCO a due cifre) per ogni intervistato nella European Social Survey, e combinarla con stime della automatibilità di ciascuna occupazione. L’analisi mostra che votanti in regioni più esposte allo “shock robotico”, e votanti più vulnerabili ad essere sostituiti da robot, propendono sistematicamente e significativamente verso opzioni politiche più nazionaliste e verso la destra radicale.

Perché  proprio la destra radicale e il nazionalismo come risposta a questi shock economici? Per quanto riguarda la globalizzazione, la risposta è semplice. L’apertura al commercio internazionale porta benefici in aggregato, ma infligge costi sostanziali sui lavoratori nei settori e nelle aziende meno competitivi, che si contraggono. Il libero commercio è un miglioramento paretiano (ovvero, fa stare almeno qualcuno meglio senza far stare nessuno peggio) se c’e` compensazione dei “perdenti”. In assenza di compensazione, è comprensibile che i perdenti della globalizzazione preferiscano il protezionismo e desiderino un ritorno allo status quo ante. Come risulta ormai evidente, la compensazione –in termini di stato sociale, appoggio a settori e regioni che hanno dovuto affrontare una riconversione, e politiche attive del lavoro che rendessero tale transizione più indolore– è stata insufficiente, per ragioni in parte legate alla globalizzazione stessa. Infatti, da un lato gli shock da compensare sono stati molto più sostanziali di quelli del periodo classico dello stato sociale tra la fine della seconda Guerra Mondiale e gli anni novanta; dall’altro, la liberalizzazione dei movimenti di capitale ha reso più difficile la tassazione dei profitti, e ha quindi privato i governi di risorse fiscali cruciali per finanziare politiche di compensazione più generose.

La destra radicale ha proposto una piattaforma di nazionalismo economico: appelli al protezionismo, combinati con uno scetticismo riguardo a redistribuzione e stato sociale (non ritenuti comunque più credibili dai votanti), impacchettati in una  piattaforma comprensibile e invitante basata su una retorica nazionalista che propone di difendere gli interessi nazionali e “riprendere il controllo” dalle forze impersonali della globalizzazione e, per i paesi dell’Unione , dai processi di integrazione europea. Al tempo stesso, la perdita di status dei lavoratori manuali a medie competenze, specialmente le “tute blu” nel manifatturiero, ha anche portato al progressivo aumento dell’importanza delle appartenenze etno-nazionali e quindi al nativismo e all’opposizione all’immigrazione. La nostra congettura è che per questa ragione altre forze anti-globalizzazione, con un retroterra nella sinistra anticapitalista, hanno avuto molto meno successo della destra radicale nel convogliare il malcontento generato dalle conseguenze negative della globalizzazione.

L’ansietà causata dall’automazione ha ugualmente spinto i votanti nella direzione della destra radicale, in parte perché è difficile per i votanti discernere se globalizzazione o tecnologia siano l’effettiva causa del malessere economico; in parte perché, come mostrano Di Tella e Rodrik in un working paper del National Bureau of Economic Research, il protezionismo sembra essere, per i votanti, la soluzione preferita anche nel caso di disoccupazione tecnologica; infine perché, in generale, la risposta nativista e nazionalista attrae gruppi sociali che hanno visto declinare il proprio standard di vita, ma, soprattutto, il proprio status sociale (Gidron e Hall, in British Journal of Sociology, 2017).

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