Il populismo contemporaneo e le sue origini: quanto pesano le crisi economiche e le ondate migratorie?

Eugenio Levi, dopo aver passato in rassegna le spiegazioni più accreditate delle ragioni per cui si sono affermati i partiti populisti contemporanei, espone i risultati di un recente studio sull’impatto che le crisi economiche e le ondate migratorie hanno avuto sulla nascita dei partiti populisti. Prendendo come caso di studio il partitolo New Zealand First, Levi suggerisce che le crisi hanno un ruolo decisivo, che il loro impatto perdura nel tempo e che esso si intreccia con altri fattori di tipo economico, culturale e politico.

Quello a cavallo dell’inizio del 2021 è forse il periodo più buio per i partiti e i leader populisti da venti anni a questa parte. Donald Trump non è riuscito, contrariamente ai pronostici di inizio 2020, a farsi rieleggere. Come documentato in un recente articolo del New York Times, nell’Est Europa per la prima volta il Fedesz ungherese e il PiS polacco si stanno confrontando con una opposizione compatta e il gradimento dell’opinione pubblica è assai meno granitico di un tempo.

Eppure, persiste l’impressione che il populismo lungi dall’essere stato sconfitto una volta per tutte, stia sempre più contribuendo a ridisegnare i sistemi politici delle democrazie occidentali. Il Partito Repubblicano statunitense non ha più Trump come leader ma è diventato pienamente “trumpiano” nella proposta politica, esasperando le differenze con il Partito Democratico su ogni possibile tema. E c’è anche la tendenza di forze diametralmente opposte nelle proposte di politica economica a convergere nel nome della lotta al populismo, come accaduto in Israele, in Francia o in Germania.

Studiare il populismo, insomma, non ha perso di attualità. E’ importante capire perché i partiti populisti sono nati, perché sono riusciti non soltanto ad ottenere un vasto consenso ma anche, molto spesso,  a influenzare le scelte dei partiti politici tradizionali su una vasta gamma di temi, dall’immigrazione alle politiche di welfare. Per cercare risposte a queste domande dapprima passeremo brevemente in rassegna le spiegazioni più accreditate del successo dei partiti populisti e successivamente ci concentreremo su uno studio recente che si focalizza sul ruolo di shock economici e migratori di grandi proporzioni nel favorire l’emergere di partiti populisti.

Prima di tutto occorre una chiara definizione di populismo. Qui intendiamo per populismo quel fenomeno politico che tende a rappresentare la società come divisa in due segmenti omogenei, contrapposti e moralmente connotati: il popolo “buono” e le élite “cattive”. Questa definizione -anche detta minimale – è la più utilizzata dagli scienziati politici e dagli economisti che studiano il fenomeno. I partiti populisti, per quanto diversi su tanti aspetti, condividono tratti che derivano direttamente dalla loro natura populista, fra questi: la sfiducia nella democrazia rappresentativa e verso i processi di cessione di sovranità a istituzioni sovranazionali, un certo nazionalismo e protezionismo economico, e un accento più o meno marcato sulla moralità della politica e sui problemi di corruzione.

Due sono le spiegazioni più accreditate dell’affermazione del populismo. La prima è sintetizzabile nell’ormai famoso motto “it’s the economy, stupid”. La tesi essenziale è questa:  negli ultimi trent’anni, vari shock economici – la penetrazione commerciale cinese e i processi di delocalizzazione delle attività produttive, i cambiamenti tecnologici, le politiche di austerità dopo la crisi economico-finanziaria del 2008 – hanno portato a una redistribuzione del reddito. Larga parte dei ceti ‘perdenti’ non si sarebbe sentita più rappresentata da partiti che non hanno incorporato questi problemi nelle loro piattaforme politiche e, ancor più, non hanno avanzato proposte in grado di compensare le loro perdite.

La seconda spiegazione, pur riconoscendo un ruolo agli effetti economici, sostiene che sono ben più  importanti processi di tipo culturale. Ad esempio, la tesi del “contraccolpo culturale” è che una rivoluzione post-materialista all’insegna del cosmopolitismo, dell’affermazione dei diritti individuali, dell’ambientalismo, abbia stimolato una contro-rivoluzione populista con tratti autoritari. La prima avrebbe il suo centro propulsivo nei multietnici ceti intellettuali urbani, in particolare fra i giovani, la seconda nei ceti medio-bassi bianchi delle realtà rurali, in particolare fra gli anziani. Alle fratture di tipo economico, in sostanza, si sarebbero sovrapposte fratture di tipo generazionale, etniche, religiose, e i partiti populisti avrebbero interpretato la contro-rivoluzione mentre quelli tradizionali assumevano posizioni sempre più “moderniste”.

Entrambe queste spiegazioni assegnano un ruolo rilevante ai fenomeni migratori. L’immigrazione è uno dei temi centrali nella retorica dei partiti populisti di destra, ma quanto abbia contributo al loro successo è un tema ancora aperto. Secondo alcuni risultati empirici shock migratori molto ampi spingono a votare per questi partiti in ragione dei temuti effetti dell’immigrazione sui salari (e questo sarebbe favorevole alla spiegazione economica). Secondo altri risultati la presenza di immigrati risulta più osteggiata nei piccoli centri che nelle grandi città e l’immigrazione da paesi culturalmente meno simili ha un impatto maggiore sul voto (e questo sostiene la spiegazione culturale).

Con Isabelle Sin e Steven Stillman in una recente ricerca (Levi, E., Sin, I., & Stillman, S. (2021). “Understanding the Origins of Populist Political Parties and the Role of External Shocks”, CESifo WP n.9036) abbiamo cercato di valutare la bontà di queste spiegazioni, indagando alcuni aspetti spesso sottovalutati del fenomeno populista: 1) il ruolo diretto delle crisi economiche e di ingenti flussi migratori nella nascita dei partiti populisti, che stando ad alcune ricerche sulla comunicazione politica dei populisti potrebbe essere rilevante, 2) l’eventuale tendenza di questi partiti a scomparire una volta che vengano meno le ragioni della loro affermazione, 3) il peso relativo delle diverse spiegazioni sul populismo. Oggetto specifico di indagine è la nascita e l’evoluzione di New Zealand First (da ora in avanti NZF), uno dei più vecchi partiti populisti occidentali.

La retorica di New Zealand First è fortemente populista. Nelle proposte di politica economica -che combinano idee di sinistra, come rafforzare il welfare state, e proposte di destra, come ridurre le tasse – è debole e contraddittorio. Ma è senza ambiguità un partito nazionalista e protezionista, fortemente anti-immigrazione, con proposte a favore della democrazia diretta che ne fanno quasi un antesignano del nostro Movimento 5 Stelle. NZF ha ottenuto l’8.4% dei voti alle elezioni del 1993 e il 13.5% in quelle del 1996. Non ha mai più raggiunto questa percentuale di voti, ma è rimasto un partito cardine del sistema politico, entrando a far parte del governo tre volte, nel 1996 con il centrodestra e nel 2005 e nel 2017 in alleanza con il centrosinistra, indirizzando soprattutto le politiche migratorie e di welfare.

Ancora più interessante ai nostri fini è che questo partito sia nato immediatamente dopo due shock di dimensioni molto ampie: una crisi economica fra il 1986 e l’inizio degli anni ’90 e una consistente ondata migratoria fra il 1991 e il 1996. La prima presenta alcuni tratti in comune con la crisi economica del 2008: agli squilibri macroeconomici si è risposto con liberalizzazioni dei mercati, eliminazione dei sussidi, privatizzazioni, ridimensionamento del welfare state e flessibilità nel mercato del lavoro. Questo ha portato ad una riduzione del reddito pro capite fra il 1986 e il 1991 in media dello 0.83% l’anno e ad un aumento della disoccupazione del 6%. L’ondata migratoria fra il 1991 e il 1996, che ha portato gli immigrati dal 15% al 21% della popolazione, è figlia invece di una riforma delle politiche migratorie che ha eliminato il sistema delle quote per nazione a favore di un sistema basato sulle competenze, stimolando una nuova immigrazione dai paesi dell’Est asiatico a scapito dei paesi europei e anglosassoni.

Combinando i dati del New Zealand Election Study, una survey elettorale, con i dati del censimento, abbiamo messo in relazione le conseguenze di questi shock in ogni area geografica con il voto a New Zealand First nelle elezioni del 1996. Abbiamo trovato che queste crisi hanno avuto un ruolo decisivo nel far emergere il populismo in Nuova Zelanda. Per dare un’idea dell’impatto quantitativo di questi shock, dalle nostre stime risulta che, a parità di tutte le altre possibili caratteristiche dell’area geografica, NZF avrebbe preso il 4% dei voti dove l’ondata migratoria è stata contenuta e il 25.8% dove è stata consistente (v. Figura 1); il 5.7% dove lo shock economico è stato più debole e il 19.8% dove è stato più incisivo. Questi shock non sembrano aver, invece, inciso sul voto agli altri partiti, anche quelli che non hanno avuto responsabilità di governo durante la crisi.

Figura 1: voto predetto per NZF in relazione all’intensità territoriale dei due shock

L’ondata migratoria sembra, dai nostri dati, principalmente attribuibile all’immigrazione asiatica ed i suoi effetti sono stati più forti dove il livello d’immigrazione era storicamente basso; inoltre, entrambi gli shock hanno avuto effetti soprattutto in aree rurali a bassa densità abitativa. Circa il 30% degli effetti di queste crisi sembra attribuibile all’impatto degli shock sulle opinioni delle persone: quelle sulla redistribuzione e sull’importanza della disoccupazione a scapito della crescita economica, per lo shock reddituale, e quelle sull’ostilità nei confronti dell’immigrazione e sull’importanza attribuita alla sicurezza, per lo shock migratorio. Entrambi gli shock hanno poi portato le persone ad essere in generale più sfiduciate nei confronti dei partiti tradizionali e desiderose di affidarsi ad un leader forte.

Rispetto alla persistenza di questi partiti, anzitutto sappiamo che NZF è rimasto un partito centrale nella politica neozelandese fino alle ultime elezioni; inoltre, dalle nostre analisi risulta che gli effetti politici delle crisi sono rimasti nel tempo come determinanti decisivi del voto a NZF, specialmente quando il partito era all’opposizione e l’economia era in ripresa. Insomma, non basterebbe rilanciare l’economia per prosciugare il bacino elettorale del populismo perché sembra perdurare l’impatto della crisi sulle opinioni degli elettori nei confronti dei  partiti tradizionali.

Da ultimo, abbiamo cercato di capire quanto pesino le determinanti economiche del voto a NZF vis à vis queste crisi e vìs a vìs alcune variabili più associabili agli atteggiamenti culturali, come l’età degli individui o il loro livello d’istruzione. I nostri risultati suggeriscono che entrambe le spiegazioni classiche del populismo hanno fondamento. Sia le crisi sia queste variabili sembrano spiegare ciascuna circa il 10% del voto a NZF. Ancora di più, però, sembrerebbero pesare le motivazioni squisitamente politiche, catturate nei nostri dati dalle opinioni sui partiti tradizionali e dal desiderio di avere un leader forte. Inoltre, a conferma di quanto le ragioni alla base dell’affermarsi del populismo siano complesse, l’effetto delle crisi sul voto a NZF sembra determinato non solo -lo abbiamo già detto – da come esse modifichino le opinioni degli individui ma anche dalle differenze pre-esistenti in quelle stesse opinioni.

In conclusione, i nostri risultati. da una parte, sembrano portare ulteriore evidenza empirica a sostegno delle spiegazioni più affermate del successo del populismo – sia quella di tipo economico che quella di tipo culturale – e, dall’altra, suggeriscono che le crisi economiche e le ondate migratorie di ampie proporzioni possono stimolare la domanda di populismo attraverso meccanismi in cui si intrecciano fattori economici, culturali e più prettamente politici. Questo intreccio andrebbe studiato con più attenzione. Solo andando alla radice di questi problemi si potranno capire le evoluzioni più recenti del populismo contemporaneo.

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