Il politicamente corretto, le donne, i migranti, l’eguaglianza, i diritti e altro ancora

Francesca Rigotti riflette sul «politicamente corretto». Dopo aver esaminato le critiche di cui è stato oggetto, da destra e da sinistra, per alcuni eccessi grotteschi, Rigotti invita a non cadere nella trappola retorica della «fallacia dello spaventapasseri», cioè nel caricare le posizioni dell'avversario di caratteristiche aberranti, distorte e caricaturali, accanendosi contro queste per confutare quelle e sostiene che il problema non sono le politiche del «politicamente corretto» o del multiculturalismo ma la disuguaglianza e l'oppressione.

Nel giallo svedese La porta chiusa di Anne Holt del 2006 (Einaudi 2009), uno dei personaggi, non a caso il cattivo agente dei servizi segreti americani Warren Scifford, si lascia andare a p. 410 a una affermazione un po’ imbarazzante: «Le donne, non le capisco. Sono irresistibili e incomprensibili». Al che l’agente dei servizi svedesi, il bravo Yngvar Stubø, replica: «No – Secondo me le donne irresistibili sono rarissime. E poi non è così difficile capirle […] Però per capirle dobbiamo considerarle come esseri umani alla pari. – Touché, – disse Warren sorridendo. – Molto politicamente corretto. Molto…scandinavo».

Politicamente corretto, sappiamo, è concetto e termine usato per descrivere linguaggi, misure e provvedimenti intesi a evitare offese o svantaggi ai membri di determinati gruppi sociali minoritari o svantaggiati. Negli anni ’80 e ’90 le misure della political correctness, col loro linguaggio eufemistico che suggeriva di usare «non vedente» al posto di «cieco», o «gay» al posto di «frocio», furono spesso alla base di conflitti tra liberali (in senso statunitense) e conservatori, e riemergono oggi anche in Europa in relazione alle politiche nei confronti di migranti e donne e altre – direbbe un Berlusconi quasi aristotelico – «categorie» (in riferimento a una famosa gaffe, politicamente scorrettissima, del 2006).

Ora, che alcune di queste misure rasentino il grottesco se non il ridicolo, è assodato. E’ recentissima l’introduzione di una variazione politicamente corretta del finale della Carmen di Bizet, introdotta nell’esecuzione del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, in cui è Carmen a uccidere il suo aguzzino proprio in nome del politicamente corretto (d’ora in poi p.c.), per non permettere sulla scena l’ennesimo femminicidio. Devo dire che sentendo la notizia ho subito immaginato una variazione del Don Giovanni in cui sia Masetto a chiedere a Zerlina di batterlo per le sue infedeltà, provandoci un certo gusto. Ma siamo seri. Certo che ci troviamo di fronte a un eccesso grottesco di p. c., eppure eccessi del genere potrebbero forse far riflettere su quanto l’opera lirica sia imbevuta di misoginia e disprezzo delle femmine senza fede, mobili qual piume al vento, sempre pronte a mutare d’accento e di pensier a meno che non si sottomettano alla Norma/norma che le vuole pronte a perdonare le scappatelle maschili mentre aspettano levarsi fili di fumo. Senza per questo modificare finali o arie.

Da destra e da sinistra si levano dunque le condanne al p.c.; nel caso delle donne, e soprattutto da sinistra, si giunge ad affermare che la polemica seguita al caso Weinstein con tutti i suoi rigurgiti stia spostando lo sguardo dai veri pericoli e dai veri avversari, che è sono lo strapotere della finanza e del capitale globalizzati e la conseguente diffusione di diseguaglianze sempre più estese e divaricate. Che è una visione tutto sommato ristretta e economicista e decisamente debole: le politiche concentrate sui beni economici e strutturali non possono né devono bypassare i diritti, il rispetto, la dignità, la parità, beni altrettanto se non superiori ai primi. L’ha detto Rawls e ripetuto Amartya Sen e ne siamo tutti convinti.

Uno degli autori che di recente più si sono accaniti contro le misure e i provvedimenti del p. c. e del suo figlio degenere, il multiculturalismo, è Jonathan Friedman, di cui l’editore Meltemi ha appena tradotto e pubblicato – con scarsa cura editoriale – un poderoso testo degli anni ’90, finora inedito anche in inglese (PC Worlds. Political Correctness and Rising Elites at the End of Hegemony, copyright dell’autore), dal titolo Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, tradotto in lingua italiana da Francesca Nicola e Pietro Zanini e a cura dello stesso Zanini. Aggiornato con un breve poscritto, il libro esce ora con la motivazione che i fenomeni descritti hanno retto alla prova dei tempi e anzi si sono estesi a molti altri paesi oltre alla gelida e lontana Svezia. La tesi di Friedman, esposta in breve, suona così: il movimento del «politicamente corretto», di vocazione postmoderna e costruttivista, nato negli Stati Uniti ma presto trasferitosi in Svezia e di lì all’intera Europa, ha portato le élites svedesi ad adottare un pensiero postcoloniale con decisi tratti multiculturali che è divenuto un vero e proprio strumento politico teso a sopprimere ogni dibattito basato su razionalità e realtà. L’ ideologia del p.c. costringe tutti a chiudere gli occhi di fronte alle infamie commesse da migranti (stupri, terrorismo, commercio illegale di armi, droga e persone) e a cantare nel coro buonista che dice che l’immigrazione è fonte di arricchimento culturale e magari anche economico: così che chi afferma che i migranti sono un problema è considerato – sostiene Friedman – razzista. Se non aderisci alla cultura politicamente corretta del gruppo egemone ti vergogni e hai paura, e quindi stai zitto.

Ora, sul fatto che la politica del p.c. sia di fatto degenerata, in alcuni aspetti, in «una sorta di Lourdes linguistica in cui il male e la sventura affogano nell’eufemismo», nelle parole di Robert Hughes in un feroce saggio contro il p.c. (The Culture of Complaint. The Fraying of America, Oxford U.P. 1993, tradotto da Adelphi l’anno dopo col titolo La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto) si può tranquillamente convenire. Bisogna mettere però anche in chiaro che si trattava di un testo che metteva in ridicolo il p.c., dichiarando gli eufemismi linguistici assurdi e controproducenti e le politiche di sostegno delle minoranze, i cultural studies e il multiculturalismo, tutti nello stesso pentolone, provvedimenti decadenti nati dalla carcassa in putrefazione del marxismo e diffusisi grazie alla scuola di Francoforte, Adorno e Marcuse in particolare, a Michel Foucault e a Jacques Derrida. Che il p.c. abbia generato perversioni come alcune modifiche dei fatti storici o critiche paradossali alla storia lo riconoscono, ripeto, in tanti. Anche Flavio Baroncelli, che non può essere certo accusato di spirito conservatore, dileggiò alcuni esiti paradossali del p.c. nel suo Il razzismo è una gaffe. Eccessi e virtù del «politically correct», del 1996 (Roma, Donzelli). Salvo però denunciare i millenni di sopraffazioni nei confronti di esseri umani non considerati evidentemente alla pari (come osservava il saggio agente svedese), sempre che vengano ritenuti esseri umani.

Tornando ai nostri giorni e al testo di Friedman, l’autore applica al suo argomentare un procedimento retorico chiamato «fallacia dello spaventapasseri» o «argomento del fantoccio»: esso consiste nel caricare le posizioni dell’avversario di caratteristiche aberranti e distorte nonché fortemente caricaturali, per poi accanirsi contro queste per confutare quelle. In questo modo diventa motivo di critica e condanna da parte di Friedman la franchezza di chi ammette, ahimé incautamente e contraddittoriamente, che l’immigrazione arricchisce ma è anche un problema, e che l’immigrazione non è facilmente gestibile in tempi di crisi economica, e che sì, anche coloro che si pongono il problema dei migranti in maniera non razzista sono confusi e sprovveduti rispetto alla politica e alla filosofia da adottare, che non sia magari l’ipocrita «aiutiamoli a casa loro!» dopo che la casa è stata distrutta e non diciamo da chi altrimenti veniamo accusati di razzismo al contrario. Se davvero ci si sente ingabbiati nelle pastoie di un pensiero pseudo-benpensante, si cerchi di evitarlo e di dire le cose come stanno: si dica che di fatto alcuni autori di stupri, furti e spaccio sono migranti, che vanno tranquillamente denunciati e perseguiti dalla legge; che talvolta succede che insieme ai migranti arrivi anche qualche terrorista o persona pronto a diventarlo. E anche in questo caso chi sa denunci, senza paura e senza vergogna.

Un po’ di razzismo. «Sarò mica diventata razzista?» si chiede preoccupata la pensionata danese in un aneddoto narrato da Friedman, la quale ritiene che lo stato dovrebbe occuparsi dei pensionati danesi e pensa male dei vicini immigrati che frodano lo stato sociale, ma ha paura e vergogna di dirlo forte perché contravverrebbe all’ideologia dominante e corretta. «Ma no signora, la capiamo», le risponderemmo noi. «Guardi però», aggiungeremmo, «che forse non è tutto e solo colpa del p.c., e anche la politica neoliberista con la demolizione dello stato sociale e molti altri provvedimenti adottati a cuor leggero anche dalla sinistra qualche responsabilità in questo senso e l’ha». Il razzismo, la mentalità razzista, vorremmo però anche aggiungere, è una cosa seria e forse non è il caso di scherzarci sopra e forse il p.c. fa bene a ricordarlo.

Destra, sinistra e politicamente corretto. La ricostruzione di Friedman percorre anche i risvolti più squisitamente politici dell’egemonia a suo avviso disintegrante e democraticamente deficitaria del p.c. che pervade molti stati occidentali. Laddove le élite hanno sostituito alla difesa del proletariato locale quella degli immigrati, il progetto illuminista di progressismo, illuminismo e stato sociale è passato nelle mani della destra, mentre la sinistra ha abbracciato i valori del neoliberalismo e considera la classe operaia il suo peggior nemico (sic). Conseguenza è che Marine Le Pen è ormai «l’unica rappresentante di ciò che resta della vecchia ideologia di sinistra, del suo repubblicanesimo, nazionalismo, antiamericanismo e laicismo». Un bel miscuglio, quello effettuato da Friedman, accompagnato dall’uso della «fallacia dello spaventapasseri» tendente a abolire la distinzione tra i valori della sinistra (primo di tutti l’eguaglianza) e quelli della destra (primo di tutti la gerarchia) – sostiene Rigotti – sull’onda di un’operazione compiuta inesorabilmente dalla destra e che è una pratica quanto efficace cartina di tornasole per comprendere le tendenze politiche delle persone. Il tutto nell’imperversare delle iniquità del p.c. Meglio afferma Friedman in un’intervista su La Lettura del Corriere della Sera, il linguaggio schietto e sincero di Donald Trump.

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