Il pipistrello di Wuhan e la televisione

Enrico Menduni sostiene che la pandemia ha stravolto le tendenze dell’intrattenimento audiovisivo italiano, aumentando i tempi di fruizione, arrestando il declino della televisione generalista e accelerando la penetrazione delle piattaforme. Interrogandosi sulla reversibilità di questi effetti, Menduni ipotizza che si profili una sfera pubblica con tre componenti tendenzialmente in equilibrio: i media istituzionali, collante della società, i social tutori della diversità, lo streaming come accesso alla creatività e all’intrattenimento.

Media e piattaforme si fronteggiano. Alla fine del 2019 le tendenze dell’intrattenimento audiovisivo italiano sembravano chiaramente stabilite. Si confermava un declino lento, ma progressivo, della funzione centrale della televisione generalista, frequentata da fasce di spettatori sempre più anziane, come testimoniato dalla martellante pubblicità di sussidi ortopedici, dentiere, pomate di ogni tipo destinate evidentemente ad un popolo di sofferenti. Le piattaforme “Over-The-Top” (Netflix, Amazon Prime, DisineyPlus e le loro sorelle) continuavano la loro avanzata, mirando a sottrare il paesaggio audiovisivo italiano all’antica egemonia nazionale e linguistica del duopolio Rai-Mediaset per trasformarlo in un business multinazionale opportunamente sottotitolato.

L’avanzata era certa e documentabile, ma non travolgente. Nella giungla dei telecomandi gli invasori a stelle e strisce dovevano guardarsi da pericolose insidie nascoste nella lussureggiante vegetazione, come nei film sul Vietnam. C’erano ancora, nella giungla ostile, dei giapponesi che non sapevano di avere perso la guerra tanti anni fa: cinefili festivalieri disposti a sbarrare l’ingresso a prodotti audiovisivi che non fossero stati programmati nelle sale (vedi festival di Cannes) e incerti se definire la serialità una forma di cinema o di tv, dilemma ancora non risolto. Ma soprattutto c’erano giovani generazioni ansiose di accedere ad ogni tipo di esperienza visuale, ma ahimè assai meno provviste di potere d’acquisto dei noiosi anziani. E dunque frequentatrici di siti di streaming piratesco, di password tarocche di genitori inconsapevoli, di “dirette Facebook”, di flashmobs, di meme, di Youtube, di Instagram, di qualunque cosa che fosse social e si riuscisse ad avere gratuitamente in qualche modo, facendola poi girare vorticosamente sul web. Qualcuno incautamente usava l’aggettivo “virale”.

Oltre a questi vietcong adolescenti con lo smartphone, gli Over-The-Top dovevano guardarsi dall’esercito regolare: i big della televisione italiana niente affatto disposti a mollare la presa, proprio mentre era in corso una faticosa transizione dalla televisione free-to-air (che il digitale terrestre e satellitare aveva provvisto di una imbarazzante abbondanza di canali) a forme più evolute di offerta con partecipazione dei clienti finali meglio monetizzata della mera esposizione alla pubblicità. E dunque transizioni da Pay-tv a Pay-per-view e a Near video on demand, accordi tra Infinity di Mediaset e la piattaforma pay Sky, l’unico soggetto (dal 2010 primo per fatturato televisivo) veramente internazionale, a parte la componente spagnola di Mediaset. E inoltre tentativi, a volte molto riusciti (RaiPlay), di valorizzare i magazzini e di fidelizzare i clienti consentendo loro di liberarsi dalla dittatura degli orari obbligati della programmazione.

Insomma si pregustava una guerra di posizione, anche se mediaticamente travestita da invasione della modernità: l’ingresso non trionfale degli OTT, l’arretramento dei televisivi locali compensato dalla loro graduale apertura ai servizi on demand e da una accorta politica di alleanze, con un occhio alle telco ormai completamente dentro il sistema dell’intrattenimento, ma impegnate su altri fronti complicati, la rete unica, la fibra, il 5G.

Una pandemia mediale. Poi è arrivato il pipistrello di Wuhan, con tutto quello che è seguito e che continua a succedere. Ma cosa è il portato della pandemia, destinato a contrarsi rapidamente appena sarà superata l’emergenza più grave, e cosa è titolato a rimanere, nelle abitudini dei cittadini e nelle scelte dei soggetti economici, alterando assetti consolidati e previsioni ormai inutilizzabili? Cominciamo allora a elencare ciò che è successo nello show biz.

  • Abbattimento fino a fondo scala dello spettacolo dal vivo (teatro, musica, competizioni sportive) e del consumo cinematografico nelle sale;
  • Riduzione del consumo radiofonico per la drastica diminuzione dell’uso delle automobili e quindi dell’autoradio (componente maggioritaria dell’ascolto radiofonico nelle ore di punta);
  • Distribuzione dei vari schermi a disposizione degli utenti su un ventaglio di utilizzazioni e pratiche familiari e sociali: uso prevalente degli televisori flat screen per l’intrattenimento e le news; preferenza per il personal computer in tema di smart working, didattica a distanza, conference call, e-commerce; ruolo determinante dello smartphone per le relazioni interpersonali e i social media, comprese videochiamate, chat, foto e video.

Qual è stata l’utilizzazione di questi schermi domestici sempre accesi? L’aumento dello streaming, offerto prevalentemente dagli OTT, è stato sensibile e soprattutto oggetto di una acculturazione accelerata (quasi obbligata) da parte di clienti di età matura che non ne avevano fruito precedentemente, anche per motivi di alfabetizzazione tecnologica. Il fatto interessante è che questo non è avvenuto a spese della televisione generalista, ma grazie all’aumento del tempo trascorso davanti all’apparecchio.

La cosa è tanto più rilevante perché la televisione generalista si presentava in formato ridotto: le restrizioni pandemiche hanno anche condizionato la produzione dei programmi, con conseguenze

estese al rapporto con i telespettatori:

  • Prevalenza delle produzioni da studio rispetto a quelle in esterno
  • Aumento delle repliche e loro maggiore accettazione da parte del pubblico televisivo
  • Uso ripetuto delle medesime immagini a corredo dei telegiornali (anche in questo caso, una pratica che appena due anni fa il pubblico avrebbe reputato inaccettabile)
  • Assenza nei programmi del pubblico in studio
  • Maggiore accettabilità di programmi antologici, repertorio, valorizzazione delle library aziendali.

Quindi una tv tradizionale depotenziata dei suoi aspetti più spettacolari e coinvolgenti, eppure capace di reggere benissimo alla concorrenza dello streaming da parte di colossi internazionali. Per comprenderne il motivo ci può venire in aiuto la risposta, che dette tanti anni fa un giovane intervistato, cui era stato chiesto come mai continuasse ad ascoltare la radio invece di sentire le sue canzoni sul Walkman: “Se scoppia la guerra nucleare”, rispose il giovane, ”la radio interrompe la trasmissione e me lo dice, mentre il Walkman continua a suonare le canzoni che ci ho messo., come se niente fosse.” I media broadcast, insomma, conferiscono una dimensione sociale all’ascolto, oltre le preferenze personali in cui ciascuno potrebbe arroccarsi, perdendo la connessione col mondo e correndo rischi anche vitali. I media broadcast forniscono informazioni di contatto, sostituiscono una socialità altrimenti perduta, possono all’occorrenza dirti quello che non ti aspetti.

Se esprimiamo il concetto nel linguaggio un po’ paludato della Commissione di vigilanza sulla Rai e altri soggetti istituzionali, ciò significa che i media generalisti promuovono e garantiscono la coesione sociale: fattore assai meno accessibile al video on demand che essendo – appunto – on demand, su richiesta, tende a riprodurre e a moltiplicare le preferenze di ciascuno fino all’autoreferenzialità. Certo, anche le narrative contenute nella serialità interazionale possono contribuire all’evoluzione delle mentalità e allo spirito pubblico, tuttavia è del tutto assente la capacità di contatto con il presente e il senso del luogo. Complessivamente, dunque, la televisione generalista ha mostrato, in pandemia, una “resilienza” (per citare un termine in voga) significativa, con una rilevanza del comparto informativo (compreso l’approfondimento e l’infotainment) in crescita e una distribuzione degli equilibri non scontata. Si segnala ad esempio una presa solida su parte del pubblico dell’informazione Mediaset, in cui si è forse percepita qualche distanza, peraltro largamente virtuale, dall’informazione governativa dell’epoca.

Che cosa resterà. Il quesito da porsi oggi, mentre il Paese è intento ad una faticosa riapertura e “ripartenza”, riguarda la reversibilità o meno, e in quale misura, di questi effetti sul sistema dell’intrattenimento; e se essi si confermeranno quando vi sarà la possibilità di muoversi e di sottrarre tempo alla visione televisiva. Non si tratta soltanto di registrare piccoli o grandi spostamenti nelle aree di pertinenza delle singole imprese mediali o dei media nel loro complesso. Il tema è valutare se il comprensivo spostamento del sistema mediale verso una coesione sociale, in cui la società è sempre più una social texture, un tessuto connettivo di pulsioni e di comportamenti individuali e di gruppo, rappresenta un fenomeno transitorio – dovuto al passaggio di una inattesa ma transeunte cometa – oppure marchi una tendenza di lungo periodo. Forse addirittura una tendenza finora non evidente per il persistere di un entusiasmo digitale non del tutto cancellato dagli evidenti rapporti tra populismo, sovranismo e social media, dagli information disorders e dall’hate speech e dalle pesanti interferenze internazionali sui processi politici e le relazioni tra gli stati.

L’opinione che qui avanziamo, impilando i primi e certamente non sufficienti dati che emergono dall’indimenticabile 2020, afferma che già prima della pandemia l’espansione del mondo social e le tendenze al suo interno (compresa la bassa soglia di accesso senza alcun requisito deontologico), sospingevano il mondo mediale (le agenzie mediali novecentesche digitalizzate, sorvegliate dalle legislazioni nazionali, professionalizzate e provviste di codici deontologici) verso un ruolo, o forse solo un obiettivo, di ricucitura di questa torn texture, di questo tessuto slabbrato di identità conflittuali e continuamente mutevoli di cui i social media sono, all’interno della sfera pubblica contemporanea, la componente più espressiva.

Se ciò risultasse confermato, almeno in parte, sarebbe una indicazione che i media generalisti non sono – come appariva – sul viale del tramonto, ma stanno riacquistando una centralità, che non sarà perduta se sapranno esercitare funzioni coesive senza perdere nella spettacolarità e nel seguito popolare.

Apparirebbe così all’orizzonte una sfera pubblica sostanzialmente composta di tre componenti tendenzialmente in equilibrio: i media istituzionali, collante della società, i social tutori della diversità, lo streaming come accesso universale al mondo della creatività e dell’intrattenimento.

Schede e storico autori