Il Pil non è roba da ricchi

Civil Servant richiama la nostra attenzione sul fatto che la maggior parte degli introiti dei super-ricchi, che vivono dei proventi del proprio patrimonio, non entrano nel Pil. Partendo dalla considerazione che negli ultimi due decenni la ricchezza del pianeta è aumenta a ritmi circa 3 volte superiori a quelli del Pil, Civil Servant sostiene che ciò ha indubbiamente contribuito ad allargare la forbice tra ricchi e poveri, e probabilmente ha anche declassato il Pil a misura del tenore di vita di una parte soltanto della società, i meno abbienti.

Recentemente Maurizio Franzini ci ha ricordato su questa rivista che Jeff Bezos, patron di Amazon, dichiara al fisco americano solo 81.000 dollari l’anno pur essendo tra gli uomini più ricchi della terra, e si è chiesto se non stiamo entrando nell’era di un capitalismo senza profitti. In effetti, se chiedete ad uno statistico esperto di contabilità nazionale quanto Pil produce Bezos, vi risponderà senza indugio che il nostro contribuisce alla ricchezza creata ogni anno negli USA solo per quei miseri 68.500 euro, meno del salario di parecchi colletti bianchi. Tutto il resto gli deriva da operazioni che non incidono sul Pil, se non marginalmente. I contabili nazionali, infatti, sono ancora affezionati ad un piccolo mondo antico in cui operai ed impiegati percepivano un salario e gli imprenditori incassavano solo profitti, rendite e dividendi. E queste forme di reddito si dividevano, più o meno ingiustamente, tutto il “valore aggiunto” creato ogni anno dall’economia.

La realtà è un po’ diversa: oggi chi è veramente ricco non conosce buste paga e cedole da staccare, ma si “accontenta” di beneficiare dell’aumento di valore della propria ricchezza, prevalentemente attraverso i cosiddetti guadagni di capitale. Può farlo vendendo titoli per realizzare i progressi rispetto al valore di acquisto, oppure utilizzando i propri asset come garanzia per prestiti a condizioni stracciate. Se proprio non se la sente di mettere sul mercato la propria ricchezza, allora carica su qualche società di sua proprietà le spese per il sostentamento della sua famiglia, come gli 1,6 milioni di dollari che servono a garantire la sicurezza personale di Bezos. Tutte queste cose, però, i contabili nazionali non le vedono: considerano semplici variazioni della ricchezza “non prodotte” i guadagni di capitale e classificano tra i consumi intermedi, che addirittura vanno in detrazione del Pil, quasi tutte le spese di una società a favore di azionisti, manager e altri stakeholdes. Per chi ha seri problemi di insonnia, tutti questi aspetti sono descritti minuziosamente nel System of National Accounts 2008, un agile opuscolo di appena 722 pagine che dedica tutto il dodicesimo capitolo (una ventina di facciate) ai modi in cui il patrimonio può aumentare senza che il Pil se ne accorga, con decine di eccezioni e deroghe.

Ligi ai precetti del SNA 2008, o forse perché distratti dal laborioso calcolo del valore aggiunto prodotto da prostitute, ricettatori e contrabbandieri (solo di droga e sigarette…ma non di armi ed esseri umani), i contabili nazionali dimenticano di calcolare gli introiti dei veri ricchi. Per loro uno dei pochi indizi che costoro esistano è dato dai loro consumi e investimenti che attivano flussi di produzione, salari e profitti. Peccato che questi flussi di denaro possano dirigersi verso paesi molto lontani dalla residenza dei nostri amici, contribuendo addirittura ad un aumento delle importazioni che va a scapito del Pil locale. Comunque c’è solo da aspettare: fino alla caduta del muro di Berlino gli statistici del blocco sovietico misuravano solo il “Prodotto materiale”, escludendo quasi tutto il valore aggiunto creato dai servizi pubblici e privati (ossia oltre il 70% del Pil). Quindi si spera che tra qualche decennio anche i nostri contabili metteranno il naso nelle transazioni finanziarie. Nel frattempo, solo per un puro accidente, in tutto il mondo il fisco si dimostra sempre più indulgente nei riguardi dei guadagni di capitale e del “semplice” possesso della ricchezza. Anche in paesi piuttosto avanzati si assiste anzi ad una nobile gara a garantire il migliore trattamento fiscale a coloro che campano in questo modo, mentre ci si accanisce inesorabilmente sui salariati, i lavoratori indipendenti e gli imprenditori tradizionali che si limitano a produrre il Pil.

A dire il vero, questo stile di vita Pil-free non è affatto nuovo. Da diversi millenni sovrani e governi campano allegramente coniando monete ed emettendo titoli del debito pubblico che non entrano nel computo del valore aggiunto, ma solo in quello della ricchezza. Si chiamava signoraggio e qualche decennio fa alcuni stati europei vi hanno sdegnosamente rinunciato condividendo una valuta comune emessa da una banca centrale che, per statuto, può spendere liberamente solo pochi spicci dei suoi guadagni potenziali per acquistare beni e servizi sul mercato e per remunerare funzionari strapagati e sedi principesche. Viene quasi nostalgia dei vecchi sovrani che, quando non finanziavano guerre, approfittavano del signoraggio per sovvenzionare artisti, opere pubbliche e concubine.

Da qualche secolo i sovrani sono stati imitati dalle banche che, entro certi limiti, piazzano sul mercato titoli che corrispondono solo in parte a beni reali, come hanno imparato a proprie spese parecchi risparmiatori americani e, più recentemente, del Veneto e della Toscana. Si chiama creazione di moneta bancaria ed è essenziale per far lavorare quelli che producono il Pil. Ogni tanto qualcuno esagera con la creatività e lascia il suo nome negli schedari giudiziari e, se è fortunato, anche nei libri di economia, come il signor Carlo Pietro Giovanni Guglielmo Teobaldo Ponzi, da Lugo di Romagna. In fondo tutti questi signori vendono un bene del tutto immateriale che si chiama fiducia, se la fiducia svanisce anche la ricchezza che creano o intermediano si annulla. Le criptovalute, come il Bitcoin di cui si è occupato un numero monografico di questo Menabò, rappresentano un caso estremo di totale separazione tra creazione di ricchezza e generazione di Pil basato sulla compravendita della fiducia. I Bitcoin non sono altro che sequenze di bit riconosciute “valide” da un algoritmo molto sofisticato. Chi ha le sequenze giuste può tesaurizzarle o spenderle anche per acquistare qualche pezzo di Pil. L’aspetto più interessante ed inquietante delle criptovalute è la loro accumulazione. A differenza delle monete tradizionali, non sono ottenute come contropartita di beni, servizi e lavoro che fanno Pil, ma attraverso una attività che si chiama “mining” (ovvero scavo in miniera) e consiste sostanzialmente nella generazione a caso di sequenze di bit da sottoporre all’algoritmo validatore. E’ come cercare un ago in un pagliaio, solo che non si viene remunerati né per l’accumulo di fieno, né per la fabbricazione dell’ago, che entrerebbero entrambi nel Pil tradizionale. Anzi, diventerà immensamente ricco chi troverà il modo di procurarsi Bitcoin bruciando (metaforicamente?) il pagliaio della rete per cercare meglio l’ago nella cenere. Deve essere per questo che il governo cinese ha proibito l’uso delle criptovalute, salvo prepararsi ad introdurne una tutta sua.

La vera novità degli ultimi decenni è che il patrimonio di coloro che vivono prevalentemente della propria ricchezza è cresciuto a dismisura in tutto il mondo. Probabilmente non è aumentato troppo il numero dei soci di questo esclusivo club, ma c’è stato parecchio ricambio tra di loro e soprattutto si sono moltiplicati i modi in cui un patrimonio può essere sfruttato senza intaccarlo troppo. Pensiamo alla vicenda delle dot-com quotate sul NASDAQ, che accumulavano solo perdite vertiginose eppure vedevano le proprie azioni crescere di valore a ritmi esponenziali. Chi deteneva quelle azioni poteva guadagnarci speculando al rialzo (come negli ultimi anni novanta e prima dello scoppio della bolla nel 2000), ma anche al ribasso (come nel pieno della Grande Recessione). In questo gioco, infatti, non conta troppo se la Borsa sale o scende perché guadagna chi riesce ad anticipare o a determinare i movimenti futuri del mercato. Insomma basta molta volatilità, parecchia abilità, un pizzico di fortuna, e tanto insider trading e aggiotaggio per campare di rendita. Per tornare al nostro amico Jeff Bezos, le azioni della sua Amazon (che opera in un settore così tradizionale che prosperava persino nel vecchio West) sono passate da 107 a 7 dollari l’una alla fine anni novanta per poi risalire a 950 dollari. Si suppone, tuttavia, che gli introiti del buon Jeff non abbiano subito un tracollo neanche nel 2000-2001. Naturalmente non tutti sono stati così fortunati: per esempio oggi nessuno si ricorda più di colossi come Netscape, fagocitati da altre dot-com, e delle migliaia di startup fallite…a parte la startup Autopsy che ha costruito un archivio/cimitero per le colleghe scomparse. Hanno perso di più tutti quei risparmiatori che hanno sperperato salari e profitti, frutto del loro duro lavoro di produzione del Pil, in speculazioni sbagliate o semplicemente in qualche fondo pensioni. Insomma vivere senza contribuire al Pil è un privilegio riservato a pochi. Perché è vero che i guadagni di capitale non fanno Pil, ma ci vuole parecchio Pil per trasformarli in beni e servizi.

In attesa che il fisco e gli statistici si accorgano di tutto questo, non disponiamo di dati sul tenore di vita dei Pil-free e anche quelli sulla ricchezza complessiva sono scarsi e poco omogenei. Per ora, solo Credit Suisse pubblica ogni anno un pregevole volume sulla ricchezza globale, mettendo insieme le poche informazioni disponibili. L’ultima edizione del Rapporto, uscita pochi giorni fa, ci informa che tra il 2000 e il 2017 la ricchezza globale, a prezzi e cambi correnti, è aumentata in media di quasi il 6% l’anno. Nel frattempo, il Pil misurato secondo analoghi criteri dalla Banca Mondiale è cresciuto solo del 2,2% l’anno. Se immaginiamo che anche il patrimonio dei Pil-free sia aumentato in linea con quello dei comuni mortali (e si tratta certamente di una stima per difetto), questo significa che negli ultimi 17 anni chi viveva di Pil ha perso quasi il 3% l’anno rispetto a chi poteva contare solo sui proventi della propria ricchezza, perfino ipotizzando che il rendimento delle attività reali e finanziarie sia diminuito costantemente del 1% l’anno (e anche questa è un’ipotesi estremamente pessimistica sui super-ricchi). Se questi sono i fatti, non è difficile capire perché si vada allargando la forbice tra ricchi e poveri. Ma questi dati fanno anche sospettare che la Grande Recessione e la modesta ripresa del Pil siano tutti fenomeni che hanno interessato chi lavora e fa impresa tradizionale, ma non i nuovi rentier, alla faccia di Keynes che ne auspicava l’eutanasia.

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