Il pasticcio sulla scuola

Cristiano Corsini si occupa del Piano scuola 2020-21 pubblicato dal Ministero dell’Istruzione. Dopo aver presentato i tratti salienti del documento dal punto di vista organizzativo e della rimodulazione dei rapporti tra scuole e territorio, Corsini si sofferma su alcuni nodi critici come l’intempestività, la genericità delle indicazioni, l’assenza di un monitoraggio e di una conseguente pianificazione. Tali carenze vengono inquadrate in un discorso pubblico sulla scuola che non rende conto di una realtà educativa complessa ed eterogenea.

Il 23 giugno il Ministero dell’Istruzione diffonde – dopo tre mesi di chiusura degli edifici e di attività didattica a distanza – la bozza del “Piano scuola 2020-21”, il documento di pianificazione della ripresa delle attività in presenza indirizzato alla Conferenza Unificata. Il documento definitivo presenta modifiche non sostanziali ed esce il 26 giugno.

Il piano per il 2020-21. Il documento recepisce le indicazioni del Comitato Tecnico Scientifico governativo ed esprime la volontà di “trasformare la crisi in volano per ripartenza e innovazione” e di predisporre un ritorno alla “normalità” che non disperda “quanto le scuole hanno messo in atto in questi mesi”. Secondo quanto indicato l’elemento cardine nella traduzione operativa delle indicazioni di ripresa è l’autonomia, definita “strumento privilegiato per elaborare una strategia di riavvio dell’anno scolastico che risponda quanto più possibile alle esigenze dei territori di riferimento nel rispetto delle indicazioni sanitarie”. Tenendo conto della necessità di non comprimere l’offerta formativa, il Piano si limita a prospettare, in ossequio al principio dell’autonomia, una serie di generiche indicazioni che toccherà alle singole scuole – accompagnate dall’amministrazione centrale e periferica e in collaborazione con gli enti locali – tradurre in scenari concreti.

Dal punto di vista didattico queste indicazioni vanno dalla possibilità di riconfigurare le classi in “gruppi di apprendimento”, di articolare gruppi con diverse provenienze a seconda di specifiche esigenze, di aggregare discipline in ambiti e di proporre attività educative o formative parallele o alternative a quelle tradizionali e di integrare opportunamente, dalla scuola secondaria di II grado, didattica in presenza e a distanza (ammesso che le “opportunità tecnologiche”, le competenze e l’età di studentesse e studenti lo consentano). Il Piano indica come priorità nella formazione in servizio per chi insegna innovazione, inclusione, interdisciplinarità e valutazione (con particolare riferimento all’impiego di tecnologie digitali). Dal punto di vista organizzativo, il documento prevede la possibilità di rimodulare tempi e orari (estensione al sabato della frequenza, scaglionamento degli ingressi, contrazione della durata delle lezioni). Viene infine indicata la necessità di stabilire “patti educativi di comunità”, alleanze tra scuole e territorio finalizzate a favorire la messa a disposizione di strutture e spazi per attività didattiche o alternative e all’impiego di personale educativo esterno anche con funzioni di sorveglianza e vigilanza.

L’organizzazione del rientro è incentrata su una stretta collaborazione tra scuole ed enti locali. Il Piano prevede infatti l’organizzazione di Tavoli regionali presso gli Uffici Scolastici Regionali del Ministero dell’Istruzione ai quali parteciperanno i soggetti coinvolti nella ripartenza. A livello locale verranno predisposte “apposite Conferenze dei servizi, su iniziativa dell’Ente locale competente, allo scopo di monitorare le criticità delle singole istituzioni scolastiche e raccogliere le istanze provenienti dalle scuole con particolare riferimento a spazi, arredi, edilizia al fine di individuare soluzioni che tengano conto delle risorse disponibili sul territorio in risposta ai bisogni espressi”.

Il discorso pubblico “sulla” scuola. Il documento evidenzia una serie di punti critici che, come vedremo, sono coerenti con un certo discorso “sulla” scuola. In primo luogo, colpisce la tempistica. L’indeterminatezza del Piano, la scelta di affidarsi all’autonomia e alle decisioni prese da dirigenti per dare forma e sostanza a generiche indicazioni non è di per sé un problema né il più rilevante, ma rappresenta un’opzione che poteva essere messa nero su bianco sin da marzo, concedendo tre preziosi mesi in più a istituti scolastici, enti locali e terzo settore per proporre osservazioni e organizzare tempestivamente quel complesso lavoro di raccordo al quale sono ora precipitosamente chiamati. Se è infatti vero che il Piano fa seguito e recepisce le indicazioni licenziate dal Comitato tecnico scientifico governativo a maggio, è vero anche che era chiaro sin da subito che sarebbe stato necessario un coordinamento a livello locale e territoriale per garantire a settembre una ripartenza sostenibile delle attività in presenza. Il documento è del tutto privo di indicazioni ragionevolmente dettagliate entro cui operare scelte autonome (per esempio, un numero massimo di studentesse e studenti per aula in caso di crescita dei contagi) e questo rende l’aver perso tre preziosi mesi per concentrare a luglio e ad agosto la determinazione operativa di ipotesi e scenari di riorganizzazione didattica e organizzativa una delle scelte più insensate tra quelle messe in atto dal ministero.

Ma c’è dell’altro. Nel documento non sono indicate quali risorse verranno messe a disposizione per sostenere la ripartenza. La scomposizione delle classi, la progettazione educativa condivisa col territorio, la rimodulazione di spazi e tempi all’interno e all’esterno degli istituti sono processi che comportano investimenti di varia natura (in primo luogo sul personale educativo e ATA) in assenza dei quali più che di autonomia appare legittimo parlare – come è stato fatto – di scarico di responsabilità sulle spalle delle dirigenze scolastiche e delle comunità locali. Da questo punto di vista l’estemporanea richiesta di “un miliardo per la scuola” fatta dalla ministra Azzolina all’indomani delle critiche rivolte alla bozza da lei diffusa testimonia la difficoltà a concepire l’istruzione non come capitolo di spesa ma come settore sul quale investire per progettare il cambiamento.

Dal documento non emerge alcuna idea di scuola rispetto alla quale organizzare una ripartenza: i fugaci richiami a concetti come inclusione, interdisciplinarità, integrazione col territorio e a una generica innovazione declinata solo attraverso il ricorso a “tecnologie multimediali” non sono sufficienti a garantire uno sfondo integratore in grado di conferire senso pedagogico alle indicazioni proposte. D’altro canto, come accennato, il Piano si inscrive all’interno di un più complessivo discorso pubblico “sulla” scuola, un ragionamento “su” che fatica a diventare un dialogo “con”. Un processo non nuovo, rispetto al quale la ministra – pur non essendone la principale responsabile – non ha proposto alcuna soluzione di continuità.

Abbiamo già sottolineato il ritardo che ha caratterizzato l’uscita di queste indicazioni, ma come sono stati riempiti questi tre mesi? Se è vero che chiudere gli istituti e impostare attività da remoto sono state decisioni opportune e necessarie, non c’è bisogno di prendere sul serio le letture complottistiche che vedono nell’improvvisato ricorso alla didattica a distanza una scelta atta a favorire misteriosi guppi di potere per riconoscere che alcune fondamentali azioni non sono state intraprese o sono state mal condotte. Le indicazioni per la conduzione degli esami del primo ciclo sono arrivate con colpevole ritardo, compromettendo sia le possibilità di studentesse e studenti di scegliere gli argomenti sui quali lavorare sia quelle dei loro insegnanti di intervenire con riscontri significativi nella predisposizione degli elaborati. C’è stato un contraddittorio avvicendarsi tra i sensati richiami alla necessità di porre in essere una valutazione orientativa e formativa e le rassicurazioni sul carattere selettivo, rigoroso e “autentico” del voto. La stessa scelta di legare la valutazione formativa all’eccezionalità del momento attesta la limitatezza degli orizzonti pedagogici ministeriali. Inoltre, per quanto riguarda l’inclusione, i retorici richiami all’importanza di non lasciare nessuno indietro si sono paradossalmente risolti nel riservare a studentesse e studenti con disabilità la possibilità di far ripetere l’anno. Le linee guida sull’Educazione civica non consentono di apprezzare perché tale insegnamento dovrebbe costituire un progresso rispetto a Cittadinanza e Costituzione.
Il ragionamento e il discorso sulla scuola non sono stati informati da un dialogo con le scuole, ma dal chiacchiericcio e dall’ansia di rilasciare dichiarazioni sui media. Abbiamo assistito alla somministrazione di un questionario di dubbia utilità ed è mancato non solo un monitoraggio significativo sulle attività svolte a distanza, ma anche una rilevazione del punto di vista di dirigenti, docenti, studentesse, studenti e famiglie rispetto ai punti di forza e di debolezza di una simile esperienza. Più complessivamente, è mancata a livello centrale la predisposizione di un piano di indagine e ascolto che, in una situazione simile, avrebbe supportato la delineazione di un ventaglio di scenari più concreti, meno generici e fumosi rispetto a quelli sin qui prospettati. Tale mancanza è tanto più grave se si considera che il nostro è un paese caratterizzato da una forte eterogeneità sociale e geografica dal punto di vista delle opportunità educative. In assenza di una capillare e tempestiva rilevazione delle diverse esigenze poste da istituti e territori e di una consequenziale progettazione di interventi la stessa autonomia scolastica – piuttosto che agire come elemento di contrasto alla povertà educativa – rischia di risolversi in un fattore di ampliamento delle disuguaglianze che da sempre caratterizzano la scuola e la società in Italia.

In conclusione. Nel 2021 corre un significativo anniversario per la nostra scuola: il Tempo pieno compie mezzo secolo di vita. Inserito come primo articolo in una legge che prevedeva l’immissione di insegnanti nella scuola elementare, il Tempo pieno – pur coi suoi limiti – ha rappresentato una straordinaria sintesi educativa resa possibile da un corposo investimento che ha garantito il legame tra scelte politiche, lotte sociali, istanze sindacali e prospettive pedagogiche. Dietro il Tempo pieno c’erano esperienze pregresse di sperimentazioni educative e un’idea di scuola innovatrice – non meramente innovativa –incentrata sulla necessità di ripensare l’insegnamento e la valutazione, integrare soggetti e contenuti fin lì esclusi e marginalizzati, concepirsi come comunità democratica e partecipata collegata al territorio. Una determinata idea di scuola che richiamava coerentemente un’idea di società. Se è vero che oggi – persino in occasione di una crisi che pure apre spiragli per ripensamenti e interventi radicali – le scelte e le prospettive sin qui delineate paiono vaghe e rabberciate è semplicemente perché senza un’idea chiara di società è impossibile proporre una chiara idea di scuola.

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