Il nodo irrisolto dei precari

Il protocollo del 23 luglio sul lavoro precario è forse la dimostrazione più illuminante e drammatica di quanto lontani dalla reale condizione umana di milioni di persone siano oggi il governo come l’opposizione e, in certa misura, anche esponenti sindacali delle varie confederazioni. Nel controverso e animato dibattito che ha attraversato l’estate, questo è uno dei pochi punti su cui da più parti si converge. A legger bene, su questa scottante materia il protocollo sembra quasi una ratifica con postille dello stato delle cose presente, giacché – come osserva sinteticamente Luciano Gallino – si sono toccate forme contrattuali di scarsa rilevanza, come il lavoro a chiamata, mai o poco utilizzate. Mentre “resta intatto l’universo dei parasubordinati, dei lavoratori a progetto, dei collaboratori continuati e continuativi”. Per queste persone in gran parte giovani, alle quali si fanno tanti bei discorsi sul “nuovo patto generazionale”, un pugno di mosche e una cocente delusione. Per le imprese, l’opportunità di continuare a ridurre per questa via il costo del lavoro. Nella sostanza cambia poco, e Montezemolo approva.

Ma qual è lo stato reale del Paese? E davvero si può pensare che sulla questione sociale più acuta del nostro tempo, un governo di centro-sinistra non abbia nulla da dichiarare, come un inerme prigioniero politico? Ci sarebbe bisogno di una svolta, per dare fiducia alla persone che lavorano, e che sono la spina dorsale del Paese. Ma per poterla realizzare sarebbe necessario fare chiarezza per lo meno su tre punti, che nel dibattito di questi mesi sono apparsi del tutto controversi nella stessa area di governo, e che si possono sintetizzare così: l’entità del fenomeno; le cause che lo generano; i presupposti di una strategia complessiva.

Sul primo punto, i sostenitori ad oltranza della legge 30 nel fronte del centro-destra considerano il lavoro precario nella dimensione di circa 3 milioni di persone. Sul versante opposto, nel centro-sinistra, il professor Giavazzi, che nel dibattito estivo si è qualificato come il vero portabandiera della rimercificazione del lavoro, dice 3,7 milioni. Ma Gallino, sulla base di una stima dettagliata delle diverse configurazioni giuridiche del precariato, valuta “con prudenza” tra i 4,5 e i 5,5 milioni la presenza dei lavoratori precari in Italia. E 5 milioni di persone con lavoro precario rappresentano più del 20 per cento degli occupati.

Questi sono i precari “per legge”, cioè regolari. Poi ci sono quelli irregolari, al di fuori della legge, che godono di minori diritti e non sono tutelati da un normale contratto di lavoro. Si tratta dei lavoratori dell’economia sommersa, pari a 1,8 milioni (stima Istat 2004), e diminuiti di circa 600 mila unità rispetto agli anni precedenti in seguito alla regolarizzazione degli immigrati. Infine, sono da considerare più di 3 milioni di persone che svolgono un lavoro a tempo parziale, oppure un secondo lavoro in nero. In totale, se queste stime hanno un fondamento, si arriva a quasi 10 milioni di lavoratori coinvolti in modo diretto in forme di lavoro precario. Una cifra enorme, che di per sé segna profondamente l’intera società.

Come ben sa una persona mediamente informata, oggi il lavoro precario non riguarda solo le qualifiche medio-basse dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi, ma è penetrato diffusamente nei settori più diversi della formazione e dell’informazione, ed anche ai livelli più alti della ricerca e della scienza. In una inchiesta sul lavoro svolta nel 2005 ho potuto constatare, per esempio, che il precariato è diventato una specie di condizione permanente senza la quale l’astrofisica italiana non potrebbe funzionare: come nel “gruppo spazio” dell’Istituto di astrofisica di Frascati, responsabile del telescopio innovativo Ibis, dove i precari sono 6 su 10 unità, e sono pagati meno di 1.500 euro al mese. Per non parlare della Casaccia, dove non si indicono più concorsi dalla metà degli anni Ottanta, ma in compenso si sono moltiplicati i precari di ogni specie e denominazione.

Di fronte a un fenomeno di tale portata, è necessario individuare con una certa precisione le cause reali per poter applicare efficaci terapie. e così vengo al punto due. Non pare, tuttavia, che ci possa soccorrere in proposito il pensiero fulminante del professor Giavazzi, secondo il quale i maggiori responsabili della precarietà del lavoro sono i lavoratori medesimi, giacché con le “rigidità” imposte dai contratti rendono l’assunzione “troppo rischiosa per il datore di lavoro e così i precari rimangono tali per sempre”. Impostazione da cui discende: a) che per combattere il precariato occorre rendere tutti precari; b) che le “rigidità” contrattuali sono causa di disoccupazione.

Tralascio la prima proposizione, in base alla quale tuttavia il professore del Mit avanza specifiche proposte sull’esempio della Danimarca. A proposito della seconda, mi limito a rammentare il giudizio di Pietro Ichino, secondo il quale non si può sostenere che la rigidità della protezione del lavoro nel contesto europeo sia causa di disoccupazione, e infatti lui non lo sostiene. In fondo, il pensiero iperliberista del prof. Giavazzi è semplice: retrocedete il lavoro da diritto a merce, portatelo al mercato deregolamentato e avrete l’occupazione e la scomparsa del precariato. Un pensiero semplice, che non fa i conti con due secoli di storia europea, oltre che con la realtà

Ma neanche due altre correnti di pensiero, che chiamerei l’una generazionale e l’altra giuridico-normativa, sono adeguate allo scopo. Se, come di recente ha sostenuto anche Alfredo Reichlin, i mali dell’Italia dipendono dall’egoismo dei vecchi che consumano improduttivamente risorse sottraendole ai giovani, allora non resta altro che affidarsi alla ben nota ricetta di Nicola Rossi: meno ai vecchi, più ai giovani. Ma si tratterebbe di una semplificazione estrema, che disarticolerebbe ulteriormente il Paese, senza recare alcun contributo alla soluzione del problema della precarietà.

Il contrario di una riflessione attenta sulla reale condizione dell’Italia e sulle moderne società avanzate, che non sono in grado di assicurare, insieme, futuro ai giovani e sicurezza ai vecchi. Né si può sostenere, per altro verso, che la causa della precarietà risieda nella legge 30 e, ancor prima, nella legge Treu del 1997. Per cui, cancellate le leggi, il fenomeno verrebbe di per sé rimosso. In realtà, ci troviamo di fronte a processi reali di dimensione globale, preesistenti nell’economia e nella società, che le leggi hanno accompagnato e normato, naturalmente dal punto di vista degli interessi prevalenti, che erano quelli dell’impresa.

In ultima analisi, se si analizzano i processi reali, è giocoforza prendere atto che la precarietà del lavoro non è l’effetto di devianze comportamentali di soggetti che agiscono fuori dalle regole, o di astratte esigenze organizzative cui devono obbligatoriamente sottostare i fattori della produzione, bensì del concreto modo di essere del capitalismo del XXI secolo. Se la finaziarizzazione è oggi la forma peculiare del capitale, la precarietà del lavoro a sua volta è la forma in cui si manifesta la dittatura del capitale nel modo di produzione dei beni e servizi nell’ambito di un più generale processo di svalorizzazione del lavoro medesimo. Su un versante la frammentazione dei processi produttivi e la loro dislocazione sul territorio planetario rese possibili dalla rivoluzione informatica, sull’altro la crescita di un enorme esercito di manodopera di riserva nel mondo: la globalizzazione come gigantesco processo di subordinazione del lavoro al capitale ha come determinante la forza-lavoro a costo zero. Qui sta la radice della precarietà.

Ma la libertà assoluta del capitale globale, svincolata da tutti i condizionamenti politici e sociali costruiti nel Novecento, cioè appunto la sua dittatura, ha relegato il lavoro in una posizione marginale non solo nel modo di produzione e nell’economia, ma anche nella società, nella cultura e nella comunicazione, nella politica. Perciò non è credibile né concretamente praticabile una linea di comportamento che intenda affrontare con efficacia il tema della precarietà al di fuori di una generale riconsiderazione del ruolo del lavoro nella civiltà contemporanea, come principio coesivo della società e fattore costitutivo della persona. Non si va lontano se non si ricompone una nuova immagine della centralità del lavoro in tutte le sue forme, nel processo sociale e nella stessa costituzione dell’individuo.

Un principio da recuperare e valorizzare, che è inscritto modernamente nella Costituzione come base materiale e culturale della libertà e dell’uguaglianza tra gli esseri umani. Un principio-guida del che fare: sia nei confronti dei lavoratori italiani, che in questi anni difficili hanno tenuto a galla il Paese; sia nei confronti dei lavoratori globali, che dal confronto con coloro che stanno più avanti si attendono un avanzamento per sé medesimi, non un arretramento dei primi. Posso dire, in conclusione, che a mio parere un rilevante passo avanti è stato fatto, seguendo questo percorso, con la presentazione della proposta di legge “Nuove norme per il superamento del precariato e la dignità del lavoro”, predisposta con il contributo decisivo di Piergiovanni Alleva e sottoscritta da oltre 100 parlamentari della sinistra. Un testo da far conoscere, e sul quale sarebbe utile un’ampia discussione.

Paolo Ciofi, 16 settembre 2007

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