Il New Public Management: attese e realtà

Paolo Borioni discute della teoria del New Public Management (NPM) a partire dalle conclusioni di un recente volume, dedicato al caso della Gran Bretagna, di Christopher Hood and Ruth Dixon secondo cui, in totale contrasto con le attese, il NPM avrebbe reso il settore pubblico più costoso e meno efficiente. Borioni sottolinea come i risultati presentati nel volume di Hood e Dixon sono da prendere attentamente in considerazione per valutare le riforme manageriali della Pubblica Amministrazione introdotte in tutti i paesi avanzati.

Il New Public Management (NPM) non gode più da tempo di incondizionata acclamazione e per questo fioriscono ricerche mirate a verificarne i risultati, fra cui il libro, sintetico ma assai solido, di Hood e Dixon (C. Hood e R. Dixon, A Government that Worked Better and Cost Less? Evaluating Three Decades of Reform and Change in UK Central Government, Oxford UP, 2015). Il titolo trae origine dal rapporto di Al Gore per la National Performance Review, un importante documento della amministrazione Usa del 1993 in cui appunto si indicava l’obbiettivo di uno Stato che “funzioni meglio e costi meno”. L’espressione si rifaceva all’auspicio di Bentham citato nel testo dagli autori (“aptitude maximized, expense minimized”, p. 2). Il rapporto del vicepresidente Al Gore manifestava a partire dal titolo, accanto all’ispirazione benthamiana, una grande fiducia sulla individuazione quantitativa degli obbiettivi e il relativo accertamento dei risultati. Su ciò si basava molta parte del metodo riformatore legato al NPM, in primis al fine di determinare: quali fossero le unità efficienti, ovvero capaci di raggiungere obbiettivi quantitativi fissati dall’alto e verificati dall’esterno; quali prove potessero essere addotte che i mutamenti intrapresi erano positivi, come e perché le amministrazioni pubbliche dovessero essere suddivise in unità più gestibili secondo nuovi canoni e misurazioni (cioè rese “manageable”), per ricordare solo alcuni punti costitutivi. In breve, l’obiettivo generale era spostare l’intero criterio di azione delle amministrazioni dalle regole ai risultati.

Come già il capitolo secondo del volume (che si occupa del Regno Unito) documenta con dati piuttosto precisi, però, tutto ciò non ha ridotto la necessità di regole, visto che proprio quello spostamento di focus mirava, in verità, a ri-regolare gli apparati “dall’esterno”. Da cui la proliferazione di autorità apposite, indipendenti o semi-indipendenti e l’incremento numerico di figure negli alti ed altissimi gradi delle amministrazioni, quantificabile a seconda dei casi dal 25 al 300%. L’accenno al documento americano di Al Gore, tuttavia, non deve ingannare: gli autori analizzano il Regno Unito e, al suo interno, soprattutto l’amministrazione specificamente inglese come termine comparativo di applicazione particolarmente conseguente del NPM anche rispetto alla Scozia. I dati di cui sopra si riferiscono, appunto, al Regno Unito, e ad essi va aggiunto anche l’incremento sia dei “consiglieri speciali” accanto ai decisori di governo (passati da una ventina nei primi anni 1980 a oltre cento negli anni a noi più vicini) sia delle unità speciali cosiddette “quangos”.

Sull’impatto generale di questi mutamenti si potrebbe dire molto, qui ci limiteremo ad accennare alla trasformazione delle burocrazie causata dal metodo strettamente quantitativo di valutazione dei risultati: in molti casi gli addetti denunciano come percentuali sempre più ingenti del loro lavoro si incentrano sulla rendicontazione delle quantità. Per allargare solo per un attimo il discorso, nell’acceso dibattito danese i lavoratori del settore pubblico lamentano percentuali fino all’80% del tempo di lavoro assorbito dalla rendicontazione procedurale e quantitativa. Per il servizio specifico restano tempi quasi residuali.

La misurazione dei risultati, inoltre, implica una tendenza alla uniformazione anche estrema del lavoro, e ciò in almeno due sensi. Da un lato, i dati prestazionali sono la premessa nella scelta delle migliori pratiche, che poi vengono indicate sia dalle istanze di controllo, sia (altro aspetto caratterizzante del NPM) dalle multinazionali di consulenza di cui si avvalgono i decisori, come modelli cui uniformarsi. Dall’altro lato, e forse come premessa generale, una vera misurabilità delle funzioni implica una disponibilità estrema alla standardizzazione e alla sistematizzazione del modo in cui gli addetti operano. I regolatori, i decisori e i loro consulenti, quindi, agiscono in sostanza immettendo impulsi ed esercitando controlli che riducono lo spazio di contributo professionale individuale degli operatori della PA, cosa che in diversi casi può irrigidire fino al parossismo il lavoro quotidiano, specie nei servizi del welfare di prossimità e contatto. Uno degli autori citati nella ricerca parla piuttosto espressivamente di “taylorismo”, che così mediante il NPM colonizzerebbe i servizi pubblici dopo essere stato resto obsoleto dalla industria manifatturiera.

Questioni anche concettualmente importantissime, certo, senza però dimenticare che sono i costi il nocciolo delle valutazioni al centro del testo che prendiamo in esame (“un settore pubblico che costi meno e funzioni meglio”). Per questo i dati esposti nel capitolo 4 sono forse i più indicativi. In diversi grafici e tabelle si indica come siano cresciuti per esempio i costi di funzionamento correnti: le amministrazioni riunite sotto il nome UK Civil Departments, per esempio, hanno registrato incrementi del 100% nel trentennio 1980-2010, ma soprattutto la spesa totale amministrata (“Total Managed Expenditure”) appare più che raddoppiata (da oltre 300 a oltre 700 miliardi). In aggiunta, appare indicativo che analizzando nel dettaglio i limiti di spesa assegnati ai singoli dipartimenti (DEL) non siano affatto i costi di funzionamento a giustificare questo aumento. Fra queste spese di funzionamento, poi, particolarmente lieve è l’impatto delle retribuzioni degli addetti sulla massiccia crescita totale della TME. Le retribuzioni nei dati presentati mostrano un incremento notevole nei decenni 1960-70 (in epoca di crescita generalizzata della quota salario, dato assai universalizzabile e in seguito in drastico decremento), e poi variazioni (verso l’alto e verso il basso) non ingenti nelle tre epoche Thatcher, Major e New Labour. La percentuale delle retribuzioni rispetto alla spesa amministrata totale è, pertanto, calata sensibilmente. In parte si potrebbe sostenere che quest’ultimo rappresenti un successo del NPM, sebbene secondario rispetto agli obbiettivi, ma, riprendendo quanto detto sopra sull’andamento delle retribuzioni nell’epoca presa in esame, questa è una tendenza molto generalizzata e strutturale, e quindi difficilmente attribuibile ai nuovi criteri di gestione manageriale della PA. Casomai, come ipotesi di lavoro da sviluppare in altra sede, si potrebbe individuare nel NPM uno dei fattori diretti o indiretti del declino salariale generale. Ma se non sono i costi di funzionamento e le retribuzioni a causare anche minimamente l’incremento totale, cosa può essere allora? Di certo almeno in parte l’incremento delle spese per consulenze e autorità di scopo, regolative e di altro tipo, ha un suo peso. Così come sono innegabili le accresciute esigenze di welfare delle nostre società. In parte, nel dibattito pubblico di diversi paesi, è stata spesso messa in dubbio l’effettiva razionalità di unaltro pilastro del NPM: la cessione di servizi in gestione, il contracting out, insomma il rapporto fra la PA e le varie entità con cui essa stipula accordi e contratti di servizio per trasferire all’esterno l’assolvimento di molte proprie funzioni.

Solo per accenno, anche nel caso della amministrazione della riscossione delle imposte (capitolo 5) l’impatto positivo del NPM appare quantomeno dubbio. A questa particolare tipologia di amministrazioni è stata dedicata molta attenzione poiché esse si prestano particolarmente ad una valutazione quantitativa dei risultati (introiti fiscali) rispetto alle soluzioni di gestione adottate nel tempo. Tuttavia, anche in questo caso il nesso efficienza-NPM sembrerebbe come minimo vago. In più periodi, infatti, il maggiore successo o insuccesso nell’esazione appare riconducibile alla crescita contestuale generale dell’economia, che traina l’allargamento degli imponibili di aziende e cittadini.

Dunque, dal lato del risparmio rispetto ai risultati quantitativi non paiono emergere indicazioni se non di carattere prevalentemente confutativo. Ma nemmeno adottando criteri non-quantitativi emergono conferme delle finalità generali del NPM: la soddisfazione dei cittadini nei riguardi dei servizi e delle prestazioni infatti non pare affatto in crescita. Anzi: il capitolo 6 registra un incremento dei ricorsi alquanto marcato nei vari sottoperiodi in cui è suddiviso il trentennio, nonché nei confronti delle diverse istituzioni di Ombudsman cui è possibile indirizzare il ricorso stesso (tabella p. 125). Nei grafici presentati a pagina 113, per essere chiari, i ricorsi totali risultano più che raddoppiati, o anche molto più che raddoppiati (nel caso della sanità) fra 1975 e anni 2000. Con tutte le cautele del caso (per esempio è chiaro che solo una minoranza dei ricorsi accedono poi alle istanze giudiziarie vere e proprie) gli autori non scorgono in questa dinamica altro che (per lo meno) l’inverso di una maggiore soddisfazione per i servizi. Sulla base di considerazioni fondate su analisi sociali contestuali e storicamente comparative non sono accolte, per esempio, le obiezioni per cui l’aumento dei ricorsi sia causato da una maggiore inclinazione critica del cittadino medio rispetto alle autorità.

Come sintetizzato in una tabella a pagina 182, i dati di Hood e Dixon consentono di muoversi su una gamma di conclusioni per cui il NPM può essere stato anodino (stessi costi, stessi risultati), ma più probabilmente si sono ottenuti costi leggermente maggiori con risultati leggermente peggiori. Viene comunque confutata la realizzazione delle finalità dichiarate dai sostenitori o costruttori delle riforme attribuibili al NPM.

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