Il “mondo” di Pasolini

Alberto Sobrero, Paolo Speranza, Francesca Tuscano sono gli autori degli stralci tratti dai loro contributi al volume di prossima uscita Tout sur Pasolini che abbiamo scelto per la loro capacità di descrivere il mondo attorno a Pasolini, come lui lo vedeva. Dal Sud Italia all’India alla Russia a Israele alla mitica Africa. Ma anche il mondo dell’ immigrazione, di Alì dagli occhi azzurri, cui Pasolini dedicò la poesia che pubblichiamo e che lascia presagire la futura tragedia. E, infine, quel piccolo mondo da cui tutto, o quasi, per lui nacque: Casarsa del Friuli.

Ovvero il mondo attorno, dal Sud Italia all’India alla Russia a Israele alla mitica Africa, vissuto come entità poetica, come ricerca ovunque della dimensione primigenia, popolare, nuda dell’uomo. Ma anche il mondo dell’ immigrazione, di Alì dagli occhi azzurri, vissuta già allora dallo scrittore con la pietas e la solidarietà di chi ne percepiva forte e, forse, già irreversibile, la tragedia. In principio però c’è Casarsa del Friuli.

Casarsa. L’impotente nostalgia

Alberto Sobrero

Pasolini ha amato e odiato Casarsa, il piccolo paese del Friuli, dove aveva trascorso molte delle sue estati e dove la famiglia era sfollata durante la guerra. A Casarsa dedica la sua prima pubblicazione (Poesie a Casarsa, 1942) un libretto di poche pagine, brevi componimenti alla maniera dei provenzali, come suggerisce il verso di Peire Vidal citato in apertura, L’aire Qu’eu sen venir de Proensa. Poesiole in dialetto, ma in un dialetto antidialettale, in una lingua reinventata, volutamente ermetica, tutta interna al proprio desiderio e alla propria sofferenza per quella natura con la quale non riusciva a venire a patti. (Lettera a Silvana Mauri, febbraio 1950), Nella stessa estate del 1942, guardando il mondo esterno, fuori del proprio animo, scrive a un amico: «Che brutto paese è Casarsa! Non c’è niente. È tutta morale, niente bellezza: la maleducazione paesana dei ragazzi, la malignità delle femmine, la polvere grigia e pesante delle strade» (agosto 1942). Un conflitto fra realtà e mundus imaginalis, che diverrà più profondo negli anni successivi, nel diario delle proprie tentazioni e dei propri amori (Quaderni rossi, 1946-’47), nei racconti e nei due romanzi che trarrà da quelle pagine, Atti impuri e Amado mio.

La realtà di Casarsa, la fame, lo sfruttamento dei mezzadri e dei braccianti, gli stessi avvenimenti della guerra non troveranno mai posto nelle sue pagine segrete, e impietoso sarà sempre il giudizio sui contadini: «essi rompono volontariamente quella forma di dignità che è il loro scetticismo solo in nome di due abitudini quasi passionali: la Chiesa e il vino». Tutto ciò – scrive in una pagina del 1947 pensata come prefazione per Atti impuri – «tutto ciò mi umilia, ma che farci?». Poi c’era l’altra Casarsa, la Casarsa «indomenicata», quel «riflesso del paradiso» più sognato che vissuto: i balli della domenica – balli fra ragazzi, perché le ragazze erano poche – la passione per le nuove danze americane, le partite di calcio, le gite in bicicletta lungo il Tagliamento, i bagni al fiume. Per quella Casarsa Pasolini inventa parole miti, leggende, improbabili ricostruzioni storiche. «Ho inventato un’infinità di miti. Ho costruito una storia leggendaria di questi luoghi che prima non esisteva; e spero che un giorno verrà ad essa riconosciuto un valore» (giugno, 1943, LE I:174). Sogna trionfi letterari. Progetta l’indice delle proprie Opere complete: sei volumi di poesie, due romanzi e quattro drammi.

Dopo il 1948, militante del PCI, si proporrà di scrivere qualcosa di reale, un romanzo sulle rivolte contadine per la terra, un romanzo, come scrive, «fra Proust e Verga»; lo rielaborerà più volte e penserà negli anni a diversi titoli possibili (…)Il romanzo uscirà solo nel 1962 con il titolo Il sogno di una cosa, e avrà forse poco di Proust ma pochissimo di Verga. (…)

Il non-luogo di Casarsa diventa l’approdo impossibile della sua esistenza, un’impotente nostalgia. Quel senso di vuoto che domina tutta la sua opera e che sempre più spesso si trasforma in disperazione, in rabbia. Un sentimento che farà sempre fatica a definire. All’origine c’è l’amatissimo Leopardi e quel libro di Enzo Paci su L’esistenzialismo che aveva letto con passione da ragazzo (1943), ma c’è anche «lo spleen baudelairiano […], l’inferno di Rimbaud, la purezza di Mallarmé – e l’angoscia di Kierkegaard, l’inconscio di Freud…» Nostalgia non come rimpianto per il mondo antico, o per un qualche momento della storia, per una rivoluzione fallita o per un amore perduto, ma nostalgia per la scomparsa di un tempo in cui era possibile un diverso modo di conoscere, in cui era possibile percepire il mistero del sacro. Un tempo che non si è mai dato e che non potrà mai darsi, e che perciò, come scrive da giovanissimo, si fa «memoria che s’infutura nel dolore». Un modo del conoscere che vada al di là del limite ontologico: la nostalgia paradossale per «una vita vera», per una «vita pura», prima della storia; nostalgia per un mondo che per definizione, l’uomo non potrà mai raccontare: «Vedere il mondo come sarebbe stato se noi non l’avessimo mai veduto».

Il Sud. Dove i popoli resistono

Paolo Speranza

Il Sud di Pier Paolo Pasolini, più che un’entità geografica, è una categoria poetica, connotata da una dimensione pre-storica, arcaica, che al suo sguardo conservava i caratteri e il fascino del mito.

Il Sud è ogni terra dove sopravvivono i “popoli perduti”, che resistono alla civiltà ed al potere totalizzante del consumismo e del mercato: un topos letterario e antropologico che affiora fin da Le ceneri di Gramsci, nel poemetto intitolato L’Appennino, laddove Pasolini sente di ritrovare nelle

“meridionali voci” il mondo contadino del Friuli della sua infanzia e l’eco di quella “età del pane” che alimenterà uno struggente e inesauribile rimpianto ed una ricerca inesausta delle sue ultime tracce.

Nel Mezzogiorno d’Italia, e successivamente nel Terzo Mondo, questa ricerca si svolgerà in tre fasi successive: giornalistica, culturale, cinematografica.

La scoperta del Sud si concretizza per la prima volta nel 1959, con il reportage in tre puntate dalle spiagge italiane pubblicato sul mensile “Successo” (poi in La lunga strada di sabbia, edizioni Contrasto, 2005) e nei numerosi viaggi compiuti tra l’estate e l’autunno che lo porteranno sulla costa campana, Ischia, la Selva di Fasano in Puglia, la Calabria, la Sicilia orientale e quindi nell’entroterra, con esperienze ed esiti diversi

Il rapporto con il Sud si realizza definitivamente nel passaggio al cinema, caratterizzato da uno sguardo antropologico finalizzato a catturare, attraverso la macchina da presa e meglio che in ogni altra parte d’Italia, la «dimensione fisica del reale». Già nel 1958 Pasolini collabora con un commento parlato al documentario Il Mago, di Mario Gallo, realizzato in Calabria, e due anni dopo al documentario Stendalì, diretto da Cecilia Mangini, che ritrae su pellicola un antico lamento funebre contadino sopravvissuto nel Salento. L’approdo successivo di questo percorso è la Basilicata, sull’onda delle ricerche etnoantropologiche condotte da Ernesto De Martino e delle suggestioni poetiche dell’amico Carlo Levi, che lo spingono nel 1964 a girare Il Vangelo secondo Matteo nei Sassi di Matera, perché i luoghi autentici della Palestina, dichiarerà Pasolini, erano «talmente cambiati da non rispecchiare più quella realtà, che invece si ritrova ancora – anche da un punto di vista paesaggistico, oltre che antropologico – nel Sud d’Italia».

Sul finire del decennio, Pasolini sceglierà la forza paesaggistica e mitologica dell’Etna per le location di alcune scene di Teorema (il deserto), Porcile (la ribellione del figlio contro il padre) e infine per ambientarvi l’Inferno in I racconti di Canterbury.

L’inesausta ricerca pasoliniana di un archetipo umano ancora incontaminato e in larga misura pagano nella sua religiosità e nell’espressione dell’eros lo condurrà, inevitabilmente, a Napoli, che ai suoi occhi appare ormai come «l’ultima metropoli plebea, l’ultimo grande villaggio». Nella capitale del Sud e nelle vicine Casertavecchia e Ravello girerà il Decameron, primo film della fortunata “trilogia della vita”, fieramente finalizzata ad «opporre a un presente consumistico un passato recentissimo dove il corpo umano e i rapporti umani erano ancora reali, benché arcaici, benché rozzi». Nell’occasione Pasolini si affida ad attori e a volti del popolo campano e attinge all’iconografia della pittura napoletana e alla musica popolare: anche nella colonna sonora di I racconti di Canterbury, girato interamente in Inghilterra, inserirà Fenesta ca lucive e per tutto il Decameron lascerà spazio a canzoni e balli della Campania contadina. …

Profezia

Pier Paolo Pasolini

(……)

Alì dagli Occhi azzurri

uno dei tanti figli di figli,

scenderà da Algeri, su navi

a vela e a remi. Saranno

con lui migliaia di uomini

coi corpicini e gli occhi

di poveri cani dei padri

nelle barche varate nei Regni della Fame.

Porteranno con sé i bambini,

e il pane e il formaggio, nelle carte

gialle del lunedì di Pasqua.

Porteranno le nonne e gli asini,

sulle triremi rubate ai porti coloniali.

Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,

a milioni, vestiti di stracci

asiatici, e di camice americane.

Subito i Calabresi diranno,

come malandrini a malandrini:

“Ecco i vecchi fratelli,

coi figli e il pane e il formaggio!”.

Da Crotone o Palmi saliranno

a Napoli, e da lì a Barcellona, a Salonicco e a Marsiglia,

nelle città della Malavita.

Anime e angeli, topi e pidocchi,

col germe della Storia Antica,

voleranno davanti alle willaye…..

Essi sempre umili

essi sempre deboli

essi sempre timidi

essi sempre infimi

essi sempre colpevoli

essi sempre sudditi

essi sempre piccoli,

essi che non vollero mai sapere,
essi che ebbero occhi solo per implorare

essi che pregarono alle lotte operaie

deponendo l’onestà delle religioni contadine,

dimenticando l’onore della malavita,

tradendo il candore dei popoli barbari,

dietro ai loro Alì dagli Occhi Azzurri –

usciranno da sotto la terra per rapinare –

saliranno dal fondo del mare per uccidere,

scenderanno dall’alto del cielo

per espropriare – e per insegnare

ai compagni operai la gioia della vita –

per insegnare ai borghesi la gioia della libertà –

e per insegnare ai cristiani la gioia della morte

distruggeranno Roma

e sulle sue rovine

deporranno il germe

della Storia Antica.

Poi col Papa e ogni sacramento

andranno come zingari

su verso l’Ovest e il Nord

con le bandiere rosse

di Trotzky al vento …

(Profezia in Poesia in forma di rosa, Garzanti, 1964)

Cinque anni dopo, a proposito di questa poetica profezia Pier Paolo Pasolini volle fare una precisazione, in forma di abiura. Eccola:

«Perché rinnego oggi questa profezia? Perché mentre allora ero solo e ridicolo a farla, oggi è divenuta merce comune: ma questo non significa che io presuntuosamente voglia attribuirmi il monopolio di certe idee e la prerogativa ad appassionarmene: no, vuol dire che quella profezia era giusta allora ma in quanto era sbagliata; era un capriccio vitale e fecondo della passione politica, un rovesciamento voluto e cosciente del buon senso del futuro.

Perché dunque il fatto che tale speranza posta nella potenzialità rivoluzionaria dei contadini del Terzo Mondo ora è sbagliata? Perché non è più guardata in prospettiva rivoluzionaria. Gli studenti infatti sono borghesi. Vorrebbero esorcizzare il mondo contadino povero e pre-industriale, evocarlo come un’entità metastorica, metterselo davanti come una guida apocalittica. Per fare la Rivoluzione? No, per fare la Guerra Civile. Sia pure una guerra santa…»

(Intervista rilasciata a Ferdinando Camon, in La moglie del tiranno, Lerici, Roma, 1969.)

La Russia. Un mondo di contadini

Francesca Tuscano

Pasolini si appassionò alla letteratura russa sin dall’adolescenza (l’amore per Dostoevskij nasce allora). Con il passare degli anni, al nome dell’autore dei Demòni si sarebbero sommati molti altri (narratori, poeti, teorici, con alcuni dei quali, come Evgenij Evtušenko, sarebbe diventato amico), così che la passione sarebbe evoluta in elemento strutturale di creazione e riflessioni teoriche. Nel 1957, Pasolini andò a Mosca, inviato di “Vie nuove” al VI Festival Internazionale della Gioventù e degli Studenti. La Russia, già amata ideologicamente e culturalmente, diventò così una realtà, descritta in Festa di paese per trentamila, il suo reportage, pubblicato il 10 agosto. Pasolini vide nella capitale sovietica la sintesi dei suoi miti – il mondo contadino e le borgate romane: «Mosca è una immensa Garbatella […] una città di contadini». Aldo Biscardi, anche lui inviato a Mosca, ricordando un Pasolini che “tormentava” la sua interprete Valja, rifiutandosi di andare a teatro, all’opera, al balletto, e chiedendole di accompagnarlo in case private o in periferia, scrisse di come una sera seguì il poeta e la povera Valja fuori Mosca, lungo la Moscova. Il poeta voleva fare il bagno nel fiume ed era “stranamente felice”…(«Paese Sera», 11-12 settembre 1957).

Ciò che aveva stupito Biscardi e scandalizzato Valja, doveva essere stato fonte di meraviglia anche per Pasolini – a Mosca esisteva un mondo che ricordava il suo Friuli contadino, dove sembrava ancora possibile la realizzazione del sogno di una giustizia sociale fondata sull’etica dell’umiltà: «Sono felice di aver conosciuto questa gente. […] Siamo in un’altra fase della storia dell’uomo, dove quelle che sembrerebbero essere le cose semplici lo sono effettivamente: tutti sono davvero umili, ed i divers ceti e livelli si formano naturalmente senza pregiudicare il dato fondamentale che è uguaglianza sociale» («L’idea italiana», 7 dicembre 1957). Nell’atmosfera della Russia post-stalinista, Pasolini percepì che l’Ottobre aveva ancora un futuro: «Quello che i figli hanno appreso dai padri adesso è loro. E l’hanno reso più puro e sicuro». A quei figli Pasolini avrebbe dedicato un poemetto, La religione del mio tempo, che avrebbe dato il titolo all’intera raccolta del 1961: «Il popolo [russo] è veramente ottimista e tutto proteso in avanti. A parte la constatazione dell’abolizione delle classi […], l’aspetto che più mi ha colpito, direi scosso, è proprio questo gigantesco pionierismo verso una nuova religione umana. […] Ed io ne sono rimasto tanto colpito e convinto che ho intitolato il mio prossimo poemetto appunto “La religione del mio tempo”. In questo poemetto c’è un lungo frammento che è dedicato ai giovani sovietici, alla Piazza Rossa, a quei giovani che ho visto con i miei occhi, felici di conoscerci, certi di essere appunto i pionieri di una nuova realtà umana» (“Realtà sovietica”, novembre 1957). Pasolini aveva trovato nella Mosca del 1957 la religiosità che gli apparteneva, quella che, integrando il marxismo alla morale storicizzata nelle coscienze del mondo cristiano, fondava un impegno antiborghese che, quando realizzato, si trasformava in gioia di vivere. Purtroppo, le speranze del 1957 sarebbero state destinate a finire negli anni Sessanta.(…)

Ma nel 1966, con la condanna al lager degli scrittori Andrej Sinjavskij e Juri Daniel (i cui nomi, da quel momento, sarebbero stati emblematicamente presenti non solo nella saggistica, ma anche nell’opera letteraria di Pasolini), non era più possibile credere in un’Unione Sovietica diversa (…) Pasolini prese nettamente posizione contro l’URSS della stagnazione, diventando, presso la critica letteraria sovietica, simbolo inequivocabile dell’intellettuale borghese…

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