Il mondo della disabilità e la società giusta

Maurizio Franzini e Alessandro Solipaca illustrano i principali contenuti del recente Rapporto sulla disabilità pubblicato dall’Istat. Dopo aver ricordato le dimensioni del fenomeno, Franzini e Solipaca danno conto delle limitazioni di cui soffrono in vari ambiti (salute, lavoro, istruzione, partecipazione alla vita sociale e culturale) le persone con disabilità e del loro grado di soddisfazione per la vita. Esaminano, poi, le politiche del welfare e le condizioni economiche e di benessere delle famiglie. Nelle conclusioni riflettono sul rapporto tra disabilità e società equa.

“Conoscere il mondo della disabilità: persone, relazioni, istituzioni”: è questo il titolo del Rapporto dell’Istat che è stato presentato il 3 dicembre scorso, in un evento organizzato in collaborazione con INAIL e Comitato Italiano Paralimpico, nel corso del quale ha preso la parola anche il Capo dello Stato.

Il Rapporto, al quale ha lavorato un folto gruppo di ricercatrici e ricercatori, fornisce informazioni sistematiche su quello che si è scelto di chiamare “il mondo delle disabilità”. Esaminiamo brevemente i suoi principali risultati, rimandando al Rapporto per approfondimenti.

Le persone con disabilità e le loro limitazioni. Le persone con disabilità in Italia risultano essere 3 milioni e 100 mila (il 5,2% della popolazione) molto concentrate tra gli ultrasettantacinquenni. Un quota rilevante di queste persone (circa il 27%) vive da sola, mentre il 10% circa vive con i propri genitori, molti dei quali anziani e, dunque, con la prospettiva di sopravvivere a lungo ad essi. La maggiore concentrazione di persone con disabilità si ha nelle Isole (6,3% della popolazione), la minore a Nord (4,8%).

Queste persone soffrono di limitazioni di diversa gravità in ambiti decisivi per il loro benessere. Il Rapporto le documenta rispetto alla salute, l’autonomia personale e la qualità della vita; l’istruzione; il lavoro; le relazioni interpersonali e la partecipazione sociale.

Rispetto alla salute, il quadro epidemiologico delle persone con limitazioni (gravi) è sensibilmente peggiore di quello del resto della popolazione. Il 61% di esse riferisce di essere in cattive condizioni di salute contro lo 0,6% del resto della popolazione. Inoltre, esse soffrono più frequentemente di una o più patologie croniche.

Quanto all’autonomia, quasi il 7% degli ultra-sessantacinquenni presenta gravi difficoltà in tre o più delle seguenti attività: fare il bagno o la doccia da soli, sdraiarsi e alzarsi dal letto o sedersi e alzarsi da una sedia, vestirsi e spogliarsi, usare i servizi igienici e mangiare. Rilevanti sono anche le limitazioni nella mobilità.

Per quanto riguarda l’istruzione, considerando la classe di età 35-54 anni nella quale si può ritenere conclusa la formazione scolastica e univeristaria, tra le persone con disabilità solo il 44,5% degli uomini e il 46,3% delle donne ha almeno il diploma di scuola secondaria superiore. Nel resto della popolazione le corrispondenti percentuali sono: 59,0 e 64,8%. Inoltre, poche scuole hanno abbattuto le barriere fisiche (31,5%) e ancora meno hanno abbattuto quelle senso-percettive (17,5%). Le differenze territoriali sono molto marcate: per le barriere fisiche si va dal 66,2% della Valle d’Aosta al 21,6% della Campania.

Anche rispetto al lavoro emerge lo svantaggio delle persone con disabilità, malgrado le norme e le iniziative dirette a favorire il loro inserimento nel mercato del lavoro. Solo il 31,3% di coloro che dichiarano di avere limitazioni gravi e età compresa tra i 15 e i 64 anni, risulta occupato (contro il 57,8% nel resto della popolazione). Anche in questo caso le differenze territoriali sono rilevanti: nel Mezzogiorno solo il 18,9% delle persone con disabilità è occupato. Il principale settore di occupazione è la P.A. e il grado di soddisfazione per le mansioni svolte delle persone con disabilità è sensibilmente inferiore a quello del resto della popolazione e lo è particolarmente per coloro che svolgono un lavoro autonomo.

In tema di relazioni interpersonali e partecipazione sociale, il fenomeno forse più grave è l’alto numero di persone con disabilità che vivono senza nessuno a cui rivolgersi in caso di bisogno: oltre 600.000. Nella classe di età 14-64 anni, coloro che dispongono di una rete di relazioni sono il 55,8%, molte meno che nel resto della popolazione: 76,3%. Nella stessa fascia di età, le persone con disabilità che vanno frequentemente al cinema, al teatro, a un concerto o che visita un museo sono poco più del 18% (contro il 67% del resto della popolazione). Queste basse frequenze dipendono anche da problemi di accessibilità; ad esempio solo il 37,5% dei musei ha abbattuto le barriere di accesso.

Piccole quote di persone con disabilità sono impegnate nel volontariato e nell’associazionismo; il 9,1% di esse pratica sport e un ulteriore 14,4% svolge qualche attività fisica. Quindi poco meno dell’80% risulta completamente inattivo. In tutti questi casi i dati peggiori riguardano le persone anziane, ma le differenze con il resto della popolazione sono rilevanti a tutte le fasce di età.

Meno del 20% delle persone con disabilità esprime un’elevata soddisfazione per la vita (contro il 44,5% del resto della popolazione); tra le donne la quota è più bassa. Le persone più istruite risultano più soddisfatte e così anche gli occupati e gli studenti. La partecipazione sociale e la vita culturale hanno un significativo effetto sulla soddisfazione delle persone con disabilità; lo stesso può dirsi per lo sport: il 31% di coloro che lo praticano si dichiara molto soddisfatto della propria vita.

Il welfare e le disabilità. L’istituzione da cui principalmente dipende la possibilità di evitare che i deficit si trasformino in disabilità è il welfare state. Il welfare in Italia sostiene le persone con disabilità e le loro famiglie principalmente attraverso i trasferimenti monetari, assistenziali o previdenziali. Nel 2017 la spesa per i primi è stata di 23 miliardi e per i secondi di 14 miliardi. Il valore mediano della pensione di disabilità è 515 euro lordi al mese, quindi il 50% di coloro che la percepiscono riceve meno di questa cifra. Si tratta di circa 2 milioni di persone. Il 48,9% delle famiglie con disabilità riceve trasferimenti assistenziali e/o previdenziali, il cui valore medio annuo è di poco più di 4.500 euro, meno del 18% del reddito medio familiare. I trasferimenti medi sono più alti nel Mezzogiorno, dove rappresentano, naturalmente, anche una quota maggiore del reddito familiare.

Questi trasferimenti riducono notevolmente la quota di famiglie con disabili a rischio di povertà: 18,9% invece che 34,4%. Ma, come si vedrà meglio tra breve, non essere in povertà economica non elimina il rischio di sperimentare forme anche gravi di deprivazione.

Oltre ai trasferimenti monetari, il welfare state offre servizi sociali e sanitari alle persone con disabilità. L’assistenza socio-sanitaria consiste nell’erogazione di servizi ambulatoriali e domiciliari e nel mettere a disposizione strutture residenziali e semi-residenziali. La spesa pro-capite per offrire questi servizi è di circa 1.000 euro all’anno, destinata in prevalenza ai servizi ambulatoriali e domiciliari. I Comuni sono, invece, competenti per l’assistenza socio-assistenziale: la spesa complessiva è di circa 1 miliardo e 800 milioni di euro, pari a 2.850 euro pro-capite, con notevoli differenze territoriali: dagli 870 euro del Mezzogiorno agli oltre 5.000 del Nord-Est. Nell’offerta di questi servizi è dominante il ruolo delle associazioni non-profit, mentre la presenza pubblica è minoritaria, soprattutto nel Mezzogiorno.

Il ruolo delle famiglie. Sono circa 2 milioni e 300 mila le famiglie nelle quali vive almeno una persona con limitazioni gravi. Queste famiglie spesso contano su una rete informale di aiuti, nella quale le donne svolgono un ruolo centrale. Ma la rete informale non è sufficiente, come dimostra la rilevante spesa per servizi– soprattutto assistenza domiciliare – oltre che per medicinali e cure mediche. Tutto ciò peggiora le condizioni economiche della famiglia che risente anche delle maggiori difficoltà dei suoi membri a entrare nel mercato del lavoro e a svolgere lavori ben remunerati.

Nelle famiglie con un figlio con disabilità, solo il 24,5% ha almeno un componente che occupa una posizione apicale o intermedia nella propria attività lavorativa (nel resto delle famiglie è il 30%) mentre nel 9,6% di esse vi è almeno una persona disoccupata (7,3% nel resto delle famiglie). Per conseguenza il reddito medio di queste famiglie (tenendo conto anche dei trasferimenti dello stato) è inferiore a quello medio nazionale di circa l’8%.

Sommando questo minor reddito ai maggiori costi ne risulta un significativo peggioramento delle condizioni di vita, testimoniato anche dagli indici di deprivazione materiale, che tengono conto, tra l’altro, dell’impossibilità di concedersi una settimana di vacanza, di riscaldare adeguatamente l’abitazione, di affrontare una spesa imprevista di 800 euro o di consumare un pasto adeguato almeno una volta ogni due giorni. Ciò avviene malgrado la limitata diffusione della povertà monetaria tra queste famiglie, ricordata in precedenza. Non va, inoltre, dimenticato che anche nelle famiglie con disabili che non sperimentano forme di deprivazione materiale, le condizioni di vita sono significativamente peggiori di quelle delle famiglie senza persone disabili.

Tutto ciò porta alla conclusione che la presenza di una persona con disabilità incide

fortemente sulle condizioni economiche e sugli stili di vita della sua famiglia, attenuando l’idea stessa che la disabilità sia un rischio sociale, del quale dovrebbe, quindi, farsi principalmente carico la società nel suo complesso.

Misurare e definire meglio le disabilità, per migliorare le politiche. Finora non si è detto da dove provengano questi dati e, soprattutto, come siano definite le disabilità. La questione è tutt’altro che irrilevante, sotto molteplici aspetti.

I dati sono stati raccolti attraverso indagini campionarie nelle quali vengono rilevate le persone che dichiarano di avere, da oltre 6 mesi, delle limitazioni gravi nello svolgere le attività abituali e ordinarie a causa di problemi di salute[1].Questa modalità di rilevazione delle persone con disabilità è coerente con la definizione che di esse dà l’articolo 1 della Convenzione ONU, secondo cui sono tali coloro che “… presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri”.

Dunque la sola presenza di un deficit fisico, mentale, intellettivo o sensoriale non basta per individuare una persona con disabilità. Quella presenza è condizione necessaria, ma non sufficiente. Decisivi sono gli eventuali ostacoli alla ‘piena ed effettiva partecipazione nella società’.

Questa concezione, come è stato osservato, rimanda ad Amartya Sen e alla sua idea che l’eguaglianza debba riferirsi alle ‘capacità’ (capabilities) che tutti dovrebbero avere per svolgere una serie di ‘funzionamenti’ essenziali (tra i quali certamente rientra la partecipazione sociale intesa in senso lato). Se ciò non avviene siamo di fronte alla violazione dell’eguaglianza, in una sua concezione ‘alta’ e, nel nostro caso, chi ne soffre può essere considerata una persona con disabilità.

Anche alla luce di quanto emerge dal Rapporto è, forse, possibile arricchire questa visione soprattutto per meglio definire il rapporto tra disabilità e eguaglianza. A questo scopo può essere utile fare riferimento alla letteratura sull’eguaglianza delle opportunità e in particolare a un contributo recente di J. E. Roemer e A. Trannoy (“Equality of Opportunity: Theory and Measurement”, Journal of Economic Literature, 2016) secondo cui i risultati che ciascuno ottiene dipendono: i) dalle circostanze, cioè da eventi di varia natura sui quali non esercitiamo alcun controllo; ii) dal nostro impegno, che invece ricade nella sfera delle responsabilità personali e, infine, iii) dalle politiche sociali. Queste ultime dovrebbero permettere anche a chi si trova o si è trovato in circostanze sfavorevoli di conseguire, a parità di impegno, gli stessi risultati di chi è stato più fortunato. In tal modo, i risultati verrebbero a dipendere soltanto dall’impegno individuale e non anche dalle circostanze più o meno favorevoli, per le quali non si può vantare merito né si può portare responsabilità.

Applicata alle persone con disabilità questa concezione potrebbe essere così declinata: i deficit fisici, sensoriali o intellettivi sono circostanze sfavorevoli, spesso estremamente sfavorevoli; le politiche sociali dovrebbero colmare questi deficit e fare in modo che determinati risultati siano raggiungibili da parte delle persone che ne soffrono anche senza un impegno straordinariamente maggiore non soltanto da parte loro ma anche da parte delle loro famiglie. Quest’ultima è una precisazione importante, soprattutto considerando che l’impegno richiesto alla famiglie è notevole e quando si colloca la definizione di disabilità in un contesto di equità se ne dovrebbe tenere conto.

Per conseguenza, la definizione dell’ONU potrebbe essere arricchita aggiungendo un piccola coda, più o meno di questo tenore: “ovvero, per assicurare la partecipazione nella società, richiedano un impegno straordinario a quelle persone e alle loro famiglie”. Naturalmente, molto resterebbe da precisare, ma sarebbe immediatamente evidente che non è indifferente su chi ricade il compito di evitare che i deficit si trasformino in ingiuste limitazioni. In breve, la disabilità apparirebbe più chiaramente come un rischio sociale e non individuale, con ovvie ricadute sulle politiche sociali.

Ciò è rilevante per il nostro paese che, pur avendo mostrato sensibilità nel disegnare processi e percorsi diretti a favorire la piena inclusione sociale delle persone con disabilità, non ha realizzato l’obiettivo di evitare limitazioni per le persone con disablità e ha richiesto a loro e alle loro famiglie sforzi straordinari.

Le politiche di welfare, attuate in larga parte attraverso trasferimenti monetari, hanno ridotto il rischio di povertà delle famiglie, ma non hanno evitate forme estese di deprivazione materiale. Le politiche di inclusione non hanno normalizzato i livelli occupazionali delle persone con disabilità e gli interventi diretti a conciliare lavoro e carico di cura di un familiare non hanno impedito che le prospettive di carriera lavorativa dei care givers, ed in particolare alle donne, si riducessero.

Inoltre, le differenze territoriali nella rete dei servizi e delle strutture sono amplissime, generando poco giustificabili discriminazioni in funzione del luogo in cui accade di nascere e di vivere.

Peraltro, in prospettiva, la rarefazione delle reti familiari e l’invecchiamento della popolazione rischiano di generare ulteriori problemi. E’ quindi opportuno e piuttosto urgente procedere a profonde riforme, soprattutto estendendo la possibilità per le persone con disabilità di beneficiare di servizi personalizzati di assistenza e cura nei contesti familiari, senza gravare troppo sulla famiglia. Andrebbero, inoltre, favorite la partecipazione sociale e culturale e l’attività fisica che risultano molto efficaci per contrastare il rischio di esclusione e abbandono.

In conclusione, molto può essere fatto se si vuole costruire una società più equa e se si comprende in quanti modi l’equità rischia di essere violata se si lasciano le persone e le famiglie troppo sole a fronteggiare il gravissimo rischio di ‘cadere in disabilità’.

[1] Il quesito utilizzato nel questionario dell’intervista è: “A causa di problemi di salute, in che misura Lei ha delle limitazioni, che durano da almeno 6 mesi, nelle attività che le persone abitualmente svolgono? Direbbe di avere: Limitazioni gravi/Limitazioni non gravi/Nessuna limitazione”

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