Il mercato, la concorrenza e l’Università. Riflessioni australiane sul modello USA

Elisabetta Magnani ricostruisce l’evoluzione recente del sistema universitario australiano soffermandosi sulle modalità di finanziamento e sul costo sopportato dalle famiglie per l’istruzione universitaria, che è divenuto notevole dopo lunghi anni di sostanziale gratuità. Magnani collega questo cambiamento alla convinzione di alcuni che il vecchio sistema di finanziamento ostacolasse la nascita di una Harvard australiana e, dunque, alla preferenza per un modello di tipo statunitense rispetto al quale formula diverse osservazioni critiche

La “precaria sostenibilità del sistema” universitario italiano obbliga a interrogarsi sui mezzi e sulle strategie da adottare per “inaugurare una nuova primavera” oltre che, più in generale, sul ruolo che l’Università può svolgere per promuovere non soltanto lo sviluppo economico ma anche quello sociale e culturale. La questione è all’attenzione di molti, e non da poco tempo. Ad esempio, Stefano Paleari, allora presidente della CRUI, in un’intervista del settembre 2014, dopo aver ricordato i dati – ben noti – che documentano quella “precaria sostenibilità” ha dichiarato che “le università italiane sono a favore della valutazione, del merito e della selezione”, che “il sapere dovrebbe essere il primo obiettivo”, che “non si può competere senza competenza” e che le “valutazioni di (merito e di competizione) devono essere basate su un quadro di regole riconosciute”. Le parole di Paleari sembrano contenere un invito a guardare oltreoceano, al modello statunitense dove i principi dell’autonomia, della meritocrazia e della competizione sono, in teoria, accettati tanto dalle 2100 istituzioni private che dalle ben meno numerose (circa 700) istituzioni universitarie pubbliche. L’invito a guardare oltre oceano è condiviso da molti e, dunque, vale la pena di esaminare brevemente il modello statunitense, anche con l’obiettivo di mettere in luce i fini che si possono conseguire adottando quel modello oltre che la coerenza tra quei fini e i mezzi utilizzati per raggiungerli.

È interessante notare come sistemi universitari ben diversi da quello italiano, ad esempio il sistema australiano, si sono visti proporre, di recente, il modello britannico, prima, e quello statunitense, poi, come esempi di successo nella gara verso la qualità, l’eccellenza e l’autonomia. E questo a dispetto della storia del sistema universitario australiano. Proprio sui principi della qualità e dell’autonomia si basò uno dei suoi fondatori, Sir Robert Menzies, per gettare le basi del moderno sistema universitario australiano. Quando Menzies iniziò il suo primo mandato da premier nel 1939, in Australia c’erano 6 università e solo 14.000 studenti su una popolazione di circa 7 milioni. Il bisogno di investire nella ricerca e di aumentare il numero di laureati era già fortemente avvertito dal governo laburista di John Curtin degli anni Quaranta, che moltiplicò i bandi per borse di studio e li aprì anche alle donne per incentivare le iscrizioni.

Nel 1966 alla fine del secondo mandato di Menzies, l’Australia contava 16 università e circa 91.000 studenti. Nel 1974, con l’abolizione delle tasse universitarie da parte del governo laburista di Gough Whitlam, venne data attuazione al piano di rendere gli studi universitari più facilmente accessibili anche alle classi che tradizionalmente ne erano escluse. Soltanto nel 1989 il governo laburista dell’epoca adottò l’HECS (Higher Education Contribution Scheme), un sistema di finanziamento pubblico-privato, che mantenne tuttavia un generoso sussidio alle famiglie per le spese universitarie. Attualmente, circa 580.000 studenti (su una popolazione di 22 milioni) frequentano le 40 università del paese. Circa il 48% della popolazione di età compresa tra i 25 e i 34 anni ha una laurea. Il successo delle politiche a sostegno dell’istruzione universitaria è ancora più visibile dalle statistiche riguardanti le persone tra i 55 e i 64 anni d’età: oltre il 33% ha una laurea. Attualmente il sistema universitario australiano dà lavoro a circa 100.000 persone, è il primo settore esportatore e contribuisce in modo tangibile allo sviluppo delle comunità locali svolgendo ricerca applicata e collaborando con il sistema delle imprese private.

Così, con questo sistema “misto”, l’Università australiana è andata avanti, con tutti i suoi pregi e difetti, fino allo scorso anno. Uno dei principali pregi, riconosciuto da molti, è che il suo basso costo ha reso l’Università accessibile anche a chi proveniva da background familiari svantaggiati. Il che non è poco e soprattutto non è un aspetto che si può dare per scontato. Sul versante dei difetti, quello maggiormente sottolineato da molti di coloro che sono a favore della totale de-regulation – un processo iniziato nel 1996 con il governo conservatore di Howard – è la non sostenibilità del sistema di finanziamento pubblico-privato (nonostante che il tasso di rendimento della ricerca pubblica universitaria vari tra il 20 e il 60 percento, come sostenuto da Universities Australia, il principale rappresentante del settore universitario in Australia).

Il punto è, ribatte Christopher Pyne, ministro dell’Università del governo conservatore di Abbott nel 2013-2015, che il sistema di finanziamento pubblico-privato ha avuto effetti negativi sulla qualità del sistema universitario non tanto perché abbia abbassato la sua sua qualità media quanto piuttosto perché ha ostacolato il raggiungimento dell’eccellenza (cioè, in definitiva, la nascita di una Harvard dell’emisfero meridionale). È così che nel 2015, un governo di coalizione tra i più conservatori degli ultimi 50 anni, ha proposto una serie di riforme del sistema di finanziamento dell’Università, di nuovo all’insegna della qualità, dell’eccellenza e dell’autonomia. Questi termini hanno assunto con Abbott e Pyne significati peculiari, come dimostrano le loro proposte: la totale de-regolamentazione delle tasse universitarie (rispetto agli attuali $15.000 circa, potrebbero aumentare a tassi compresi tra il 300 e il 600%, con gli aumenti maggiori previsti per Giurisprudenza e Medicina), l’ancoraggio del tasso d’interesse sul debito delle famiglie al tasso di mercato anziché al tasso d’inflazione, la privatizzazione e la totale de-regolamentazione delle tasse di iscrizione ai TAFE, gli istituti universitari specializzati in studi tecnici para-universitari di breve durata.

Non è ben chiaro se tutti questi siano fini o piuttosto mezzi per raggiungere fini di sviluppo sociale e culturale. E’, invece, più chiaro è che i governi conservatori australiani dal 1996 in poi hanno teso a confondere qualità con prezzo, eccellenza con elitismo, autonomia con mercato. Comunque, pur nella consapevolezza che i tre termini possano essere intesi in vari modi, occorre chiedersi se sia proprio quello statunitense il modello di finanziamento delle università che assicura qualità, eccellenza ed autonomia.

Al riguardo, una questione rilevante è quella relativa alle modalità di valutazione della qualità di un sistema universitario. Si tratta di una questione complessa che non ammette risposte semplici, come mostrano queste brevi considerazioni. In una ricerca pubblicata sul Journal of Higher Education Policy and Management alcuni ricercatori dell’Università di Melbourne hanno individuato quattro elementi salienti di un sistema universitario di qualità. Il primo è, ovviamente, la disponibilità di risorse. Nel valutare 48 sistemi universitari in Europa, Stati Uniti ed Australasia, questo studio riconosce che i paesi dispongono delle maggiori risorse sono gli Stati Uniti ed il Canada, grazie anche al finanziamento privato e all’intervento filantropico.

Ma le risorse non sono l’unico criterio per valutare i sistemi universitari; rilevanti sono anche la struttura gestionale e l’ambiente istituzionale, il grado di connettività (mobilità geografica) di studenti e ricercatori, la qualità dell’insegnamento (da sempre difficile da valutare). Sotto tutti questi aspetti, ad eccezione di quello delle risorse, i modelli a cui ispirarsi sono il Canada, la Finlandia, la Danimarca e la Svezia.

D’altro canto, e più in generale, sul problema della definizione dei fini e, in subordine, su quello dell’individuazione dei mezzi più idonei per raggiungerli solo pochi si soffermano. Il fatto che le università degli Stati Uniti siano in testa alle classifiche mondiali, ad esempio quella del Times Higher Education e la Shanghai Rankings , è spesso considerato più che sufficiente per eleggere il sistema americano a campione da seguire, malgrado la limitata conoscenza delle modalità con cui vengono redatte queste classifiche.

Molti ascrivono alla competizione di mercato la capacità delle università americane di primeggiare nei rankings; a loro parere, sarebbe la forza delle competizione per la sopravvivenza nel mercato ad innescare la ricerca della qualità. Questa idea non descrive adeguatamente il modo con cui il sistema statunitense funziona. Le università americane che si collocano ai vertici di questi rankings sono lì grazie, soprattutto, al sostegno finanziario, spesso generosissimo, dei privati: individui e imprese (si veda a questo proposito il rapporto della Spellings Commission del 2006). D’altro canto, molte famiglie non sono in grado di far fronte alle elevate tasse universitarie e, quindi, come riconosce anche la Spelling Commission (Rapporto no. 5), l’accesso agli studi universitari negli Stati Uniti è fortemente limitato dalle alte barriere finanziarie.

Tra gli altri importanti elementi da considerare uno merita di essere sottolineato, anche nella prospettiva della qualità. Qualunque sia il sistema di finanziamento, le università dovrebbero essere in grado di promuovere l’innovazione. Le università americane, in generale, non sono riuscite ad integrare nei loro programmi gli strumenti didattici, i contenuti e la ricerca di base necessari per sostenere la capacità di innovazione e di rinnovamento. Il sentimento diffuso è che le pratiche di ricerca prevalenti nelle università americane nonché i requisiti da soddisfare per ottenere la tenure (il posto fisso) basati su rigide classificazioni delle riviste su cui si è pubblicato, spingano i giovani ricercatori a riprodurre le metodologie e i contenuti prevalenti nelle cerchie accademiche, piuttosto che a criticare, cambiare e rinnovare (si veda il rapporto no. 16 della Spellings Commission).

Tanto sul piano della performance che su quello dei costi, il sistema americano appare inadeguato di fronte alle nuove sfide globali, economiche e non solo. Le forti limitazioni all’accesso agli studi universitari sono particolarmente preoccupanti, vista l’importanza della diffusione delle conoscenze – non solo quelle tecniche e scientifiche – per dare ai cittadini di domani anche gli strumenti necessari a un’effettiva partecipazione politica.

La questione dei fini e dei mezzi adeguati per raggiungerli è, a mio parere, fondamentale. Il processo di definizione dei fini è tutto politico, come bene ha detto, tra gli altri, Amartya Sen. Come tale, esso dovrebbe coinvolgere tutti e non solo gli addetti ai lavori. In fondo proprio a questo si riferiva E.G. West nel 1965 nella sua opera magna “Education and the State”, chiarendo il senso della presenza dello stato in ambito educativo negli Stati Uniti. E da Sen viene anche l’invito a non confondere i mezzi con i fini, e soprattutto a non servirsi sempre della stessa cassetta di attrezzi, basandosi sul presupposto che contenga gli attrezzi che permettono di raggiungere sempre e ovunque i fini ritenuti desiderabili. Se è vero che non possiamo permetterci di adottare gli strumenti sbagliati (un errore diciamo di natura tecnica), tantomeno ci possiamo permettere di adottare modelli idonei a perseguire fini che neanche sottoponiamo a un’accurata valutazione critica.

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