ALL'INTERNO DEL

Menabò n.174/2022

14 Giugno 2022

Il lavoro persistentemente povero e le conseguenze per le pensioni future

Michele Raitano, facendo uso di un ricco archivio amministrativo di fonte INPS, osserva le dinamiche di carriera in Italia con l’obiettivo di misurare quanti fra coloro che percepiranno un pensione calcolata col il metodo contributivo hanno accumulato finora un montante insufficiente per non rischiare di ricevere una pensione molto bassa. Il quadro che emerge è particolarmente preoccupante e dovrebbe indurre il legislatore a introdurre prontamente forme di tutela degli individui con carriere lunghe ma sfavorevoli.

Quando si parla di lavoratori poveri e bassi salari ci si riferisce, solitamente, all’osservazione di quanti in un anno ottengono retribuzioni particolarmente limitate (o non ne ottengono per nulla se disoccupati involontari). Guardare a un unico anno non offre, però, un punto di osservazione esaustivo in paesi come l’Italia in cui, come già argomentato sul Menabò, livelli retributivi e disuguaglianze salariali risultano particolarmente persistenti e, dunque, chi guadagna poco in un anno tende a rimanere a lungo in una condizione svantaggiata. Al di là degli effetti negativi sul tenore di vita corrente, salari persistentemente bassi causano un’accumulazione limitata di contributi a fini pensionistici e ciò è tanto più grave in Italia dove, come noto, gli entrati in attività dal 1996 in poi riceveranno una pensione interamente calcolata mediante la formula contributiva, ovvero in proporzione a quanti contributi si sono versati lungo l’intera carriera.

Ma quanti saranno i lavoratori a rischio di “pensioni da fame” in futuro? Estendendo precedenti analisi presentate anche sul Menabò e riprendendo alcuni risultati pubblicati nel Rapporto sullo Stato Sociale 2022 (a cura di F.R. Pizzuti, M. Raitano e M. Tancioni, Sapienza University Press), in questo contributo si prova a quantificare la diffusione di tale rischio facendo uso di un dataset amministrativo (gli estratti conto contributivi di fonte INPS-LOSAI) che consente di osservare dall’ingresso fino al termine del 2018 le storie lavorative di un ampio campione di individui appartenenti allo schema contributivo (il campione copre poco meno del 7% dell’universo degli iscritti all’INPS).

Quando si discute di inadeguatezza delle pensioni future bisogna chiarire preliminarmente come sia infondato il timore che “col contributivo avremo tutti pensioni da fame” e che, dunque, il problema delle eventuali basse pensioni future sia da imputare unicamente a una formula di calcolo poco vantaggiosa, anziché a dinamiche avverse del mercato del lavoro. Si dimostra infatti che individui con carriere “piene” e lunghe riceveranno nel contributivo – anche se a età di ritiro ben superiori di quelle in vigore in passato – pensioni di importo non dissimile da quello che si sarebbe ottenuto con la precedente formula retributiva (dove la pensione era legata al numero di anni di contribuzione e alla retribuzione della fase finale della carriera) e, dunque, adeguate al tenore di vita precedente al pensionamento. Tuttavia, le stesse simulazioni mostrano che in presenza di carriere sfavorevoli non basta il continuo incremento dell’età pensionabile per far sì che il montante accumulato sia sufficiente per ottenere prestazioni di importo ben maggiore delle misure assistenziali garantite agli anziani poveri indipendentemente dalla loro storia lavorativa pregressa (l’assegno sociale e la pensione di cittadinanza).

Ovviamente, non si sa quanti individui avranno, nei prossimi decenni, storie lavorative talmente sfavorevoli da avere in futuro “pensioni da fame”, ma l’osservazione delle carriere finora seguite dai “lavoratori contributivi” fornisce utili indicazioni sulla possibile incidenza del rischio di inadeguatezza della pensione futura. A tal fine si presentano alcuni indicatori sulla fragilità della carriera valutata in un orizzonte temporale di 20 o 10 anni dal momento dell’ingresso in attività.

In primo luogo, guardiamo all’estensione di due cruciali fattori di rischio i bassi salari e i “buchi” nella contribuzione. Relativamente al primo, misuriamo il numero di anni nel periodo (nei 20 o 10 anni di riferimento) con retribuzione nulla o inferiore a quella che possiamo considerare una soglia di low pay (individuata come il 60% della mediana delle retribuzioni lorde annue da lavoro dipendente nel settore privato, dove tale soglia nel 2018 era pari a circa 11.700 euro). Relativamente al secondo, misuriamo il rapporto fra il numero di settimane di contribuzione (effettiva o figurativa) e quello potenziale nel periodo (1040 o 520, a seconda che si segua l’individuo per 20 o 10 anni).

Basse retribuzioni e frequenti periodi di mancata contribuzione (associati anche al lavorare con contratti ad aliquota ridotta, aspetto non trattato di seguito) danno luogo a una limitata accumulazione contributiva. Come indicatore sintetico della carriera va quindi calcolato il montante accumulato nei 20/10 anni osservati. Per valutare l’entità del montante seguiamo un approccio relativo esprimendolo in rapporto a quanto avrebbe accumulato, nello stesso periodo, un lavoratore rappresentativo, individuato come una persona sempre occupata come dipendente (dunque, versando l’aliquota del 33%) e con retribuzione annua lorda sempre uguale a quella mediana (pari attualmente a circa 19.500 euro reali annui).

Il dataset a nostra disposizione ha molti pregi – e si auspica che la metodologia qui presentata sia seguita per monitorare periodicamente la distribuzione pluriennale degli esiti lavorativi individuali – ma, a differenza di altri archivi a disposizione dell’INPS, ha il limite di non includere i dipendenti pubblici e i libero professionisti. Ciò potrebbe portare a sovrastimare la frequenza di carriere fragili. Una storia lavorativa discontinua nel nostro dataset può infatti riferirsi a individui che, dopo aver lavorato come dipendente privato, autonomo o parasubordinato, transitano verso il settore pubblico o la libera professione. Dato, il limitato assorbimento di tali forme contrattuali rispetto al complesso dell’occupazione italiana per le generazioni più giovani, la sovrastima delle carriere fragili non è però, presumibilmente, troppo elevata.

Nell’analisi ci siamo focalizzati dapprima sul sotto-campione degli entrati in attività fra il 1996 e il 1998, seguiti per i 20 anni successivi a quello di ingresso.

I valori medi degli indicatori descritti in precedenza non restituiscono un quadro molto rassicurante: in media, nei 20 anni, si trascorrono solo 10,9 anni su 20 con una retribuzione annua superiore al 60% della mediana, si lavora o contribuisce figurativamente per meno dei 2/3 delle settimane potenziali (62,5%) e al termine dei 20 anni il montante medio è pari al 74,5% di quello che avrebbe accumulato nello stesso periodo un dipendente con retribuzione costantemente intorno a 19.500 euro lordi annui. Come atteso, gli indicatori mostrano valori sempre relativamente migliori per gli uomini che per le donne, confermando l’esistenza di ampi divari di genere anche quando si guarda a indicatori pluriennali della carriera individuale.

Al di là dei valori medi, più informativo è descrivere come si distribuisce la popolazione rispetto alle varie dimensioni di successo della carriera. Dai nostri dati emerge un quadro di grave fragilità per una quota molto ampia di individui: solo il 39,5% (30,3% fra le donne, 46,0% fra gli uomini) ha trascorso meno di 5 anni su 20 con una retribuzione nulla o da low pay (Figura 1) e solo il 43,1% (37,5% fra le donne, 46,9% fra gli uomini) ha dopo 20 anni un’anzianità contributiva pari ad almeno 16 anni (l’80% del totale potenziale; Figura 2).

Figura 1: Distribuzione del numero di anni con retribuzione nulla o inferiore al 60% della retribuzione lorda mediana nei 20 anni osservati

Figura 2: Distribuzione del rapporto fra settimane di contribuzioni effettive e potenziali nei 20 anni osservati

Quando si guarda alla distribuzione del montante accumulato il quadro si fa ancora più fosco (Figura 3). Da una parte, nonostante le nuove coorti di lavoratori abbiano, in media, livelli di istruzione più elevati di quelle più anziane, solo il 27,8% del campione (19,1% fra le donne e 33,9% fra gli uomini) ha ottenuto nei 20 anni un risultato superiore al “dipendente mediano”. Dall’altra, ben il 51,1% (60,9% fra le donne e 44,1% fra gli uomini) ha accumulato meno del 60% di quanto ottenuto dal lavoratore rappresentativo.

Figura 3: Distribuzione del rapporto fra montante accumulato e montante figurativo del dipendente mediano rappresentativo nei 20 anni osservati

Per fornire un ordine di grandezza, va rilevato che una persona che guadagnasse tutta la vita, come dipendente, il 60% della mediana (un salario simile a quello di molto dipendenti part time) otterrebbe a 69 anni, dopo 45 di lavoro, una pensione di circa 900 euro lordi al mese, valore in linea con la soglia di povertà relativa per un single calcolata da Eurostat. La distribuzione della quota di individui con un valore del nostro indicatore inferiore al 60% può, quindi, esprimere l’incidenza del rischio di “povertà relativa di accumulazione contributiva”, ovvero la quota di lavoratori che, se la carriera futura non dovesse migliorare sensibilmente, rischierebbero al pensionamento di ricevere una prestazione di importo molto limitato.

Osservare le carriere degli entrati in attività nel 1996-1998 non permette di confrontare come i rischi stiano evolvendo fra coorti. Abbiamo quindi calcolato il valore degli indicatori di fragilità nei 10 anni dopo l’ingresso in modo da confrontare gli esiti di chi è entrato in attività fra il 1996 e il 2008.

Nel confronto fra coorti, il quadro si fa ancora più preoccupante: il valore di tutti gli indicatori di fragilità peggiora per le coorti più giovani (tralasciando il 2002 che è un anno anomalo in cui i dati amministrativi registrano gli immigrati entrati negli archivi INPS in seguito alla sanatoria) e, in modo drammatico, per chi ha iniziato a lavorare in prossimità della crisi iniziata nel 2008. Se anche restringiamo l’attenzione a chi risulta avere un reddito da lavoro per almeno 5 anni su 10, la quota di individui “a rischio di futura pensione bassa” cresce dal 40,1% della coorte 1997 al 54,2% della coorte 2008 (Figura 4).

Figura 4: Quota di lavoratori che ha accumulato meno del 60% del montante del dipendente mediano rappresentativo al termine dei 10 seguenti all’entrata in attività, per coorte di ingresso in attività

Pur rimarcando i limiti di copertura dell’archivio a disposizione, dai nostri dati emerge chiaramente un’ampia quota di individui con carriere fragili. Se le dinamiche di carriera di questi individui non dovessero migliorare negli anni a venire – cosa di cui è lecito dubitare, anche in seguito all’emergenza Covid-19, che potrebbe aver ulteriormente complicato le prospettive delle coorti più giovani – una quota non trascurabile di lavoratori del contributivo rischia, quindi, di ricevere una pensione di importo limitato anche in seguito a una vita lavorativa relativamente lunga.

E’, dunque, urgente ragionare su come modificare la formula contributiva in modo da garantire chi dovesse avere carriere lunghe ma sfavorevoli quantomeno contro i rischi più gravi di povertà da anziani. Il contributivo, con la sua logica attuariale e le sue tecnicalità, rappresenta una buona cornice per definire i criteri di fondo del sistema previdenziale, ma la sua applicazione non implica che, in modo trasparente, non ci si possa distanziare dalle sue regole rigide per far fronte a situazioni che dovessero comportare rischi di prestazioni particolarmente insufficienti. Per i “lavoratori fragili” la previdenza privata non può peraltro rappresentare una risposta; è, infatti, molto poco plausibile che un lavoratore povero risparmi parte della retribuzione per garantirsi un maggior consumo da anziano. Questa esigenza va posta a carico del sistema pubblico, all’interno del quale, come da anni proposto da chi scrive, andrebbe introdotta una “pensione di garanzia”.

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