Il lavoro da remoto prima e durante il Covid-19: alcune evidenze dall’Eurofound

Teresa Barbieri mette a confronto alcune evidenze fornite da due rapporti dell’Eurofound riguardo l’estensione del telelavoro e dello smart working prima della pandemia da Covid-19 e nei mesi iniziali della sua diffusione. I dati mostrano che, se prima dell’emergenza sanitaria in Italia il lavoro da remoto era poco diffuso, adesso il quadro è completamente cambiato. Ne derivano riflessioni su vantaggi e svantaggi di un maggior ricorso allo smart working anche dopo il Coronavirus.

Con l’esplodere della pandemia da coronavirus è esploso anche il lavoro da remoto, nella forma di telelavoro o lavoro smart, utilizzato per garantire la sicurezza dei lavoratori e, al contempo, assicurare la prosecuzione dell’attività economica.

Il telelavoro è un modello di organizzazione del lavoro che consente di poter svolgere un’attività lavorativa a distanza rispetto alla sede centrale grazie all’utilizzo delle ICT. Queste nuove forme organizzative nascono dallo sviluppo tecnologico e dalla progressiva digitalizzazione che, a partire dagli anni ’70, hanno investito e trasformato la nostra società. Questo nuovo modo di lavorare risulta particolarmente congeniale in un mercato del lavoro sempre più flessibile e caratterizzato da una maggiore partecipazione femminile e dove, dunque, è sempre più forte il bisogno di trovare un maggiore equilibrio tra vita lavorativa e vita familiare. Lo smart working, comunemente detto anche lavoro agile, rappresenta l’evoluzione del telelavoro in quanto il luogo fisico di lavoro è sempre decentrato, ma non è più fisso. Inoltre, il lavoratore in smart working, sempre grazie al supporto della tecnologia, gode di ampia flessibilità e autonomia non solo nella scelta della sede lavorativa, ma anche nella gestione del monte ore e dei carichi lavorativi.

Un recente rapporto di ricerca dell’Eurofound fornisce alcune evidenze circa la diffusione del telelavoro e del lavoro mobile basato sulle ICT in Europa, prima dell’emergenza sanitaria. Secondo i dati dell’edizione 2015 della European Working Condition Survey (EWCS), il 19% dei lavoratori europei operava in regime di telelavoro, ma questo valore medio nasconde importanti differenze tra paesi. La figura 1 mostra come il telelavoro sia più diffuso nei paesi scandinavi, con una percentuale che si attesta al 38% in Danimarca e al 33% in Svezia. Altri paesi europei con una quota importante di telelavoratori sono: Paesi Bassi (31%), Lussemburgo (29%), Regno Unito (27%), Francia (26%) e Estonia (25%). L’Italia è invece il paese con la minore quota di lavoratori che si avvale delle ICT per poter operare da remoto (8%). Queste evidenze suggeriscono che il telelavoro è più diffuso nei Paesi dell’Europa settentrionale e occidentale, con alcune evidenti eccezioni, come la Germania che ha solo il 13% degli occupati che lavora lontano dall’ufficio e l’Estonia che, invece, registra una percentuale al di sopra della media europea. Inoltre, per quel che riguarda nello specifico l’Italia, vi è una notevole differenza nella diffusione del telelavoro tra lavoratori dipendenti (7%) e lavoratori autonomi (36%).

Figura 1. Quota di lavoratori (dipendenti e autonomi) in regime di telelavoro (%).

Per quel che riguarda il settore di attività economica, la figura 2 mostra come il telelavoro risulti essere più diffuso nei servizi di informazione e comunicazione (57% dei lavoratori del settore), nelle attività professionali e scientifiche (53%), nelle attività finanziarie (43%), immobiliari (43%) e, infine, nella pubblica amministrazione (30%). Per quanto riguarda la diffusione tra categorie professionali, il 6,5% della forza lavoro europea è rappresentata da professionisti che operano in regime di telelavoro. A questi seguono le professioni tecniche (4,5 % della forza lavoro dell’UE) e gli impiegati (2,5%).

Figura 2. Diffusione del telelavoro (TICTM – Telework and ICT based mobile work) per settore di attività economica (%)

Lo scenario sino a qui presentato ha subito notevoli cambiamenti poiché l’emergenza sanitaria ha di fatto “forzato” il ricorso al lavoro da remoto come strumento di salvaguardia sia della salute sia dell’economia. Per tenere traccia di questi cambiamenti, lo scorso aprile l’Eurofound ha lanciato online un’indagine dal titolo esplicativo “Living, Working and Covid 2019”. Agli intervistati sono state sottoposte domande sulla loro situazione occupazionale, sul modo in cui sono riusciti a conciliare lavoro famiglia e sul ricorso al lavoro da remoto durante la prima fase della pandemia. Una seconda rilevazione, effettuata a luglio, ha permesso di mettere a confronto le risposte fornite in un periodo in cui molti paesi erano in regime di lockdown con quelle date in un momento di generale allentamento delle restrizioni. A luglio 2020 circa 1/3 dei lavoratori intervistati ha dichiarato di aver lavorato esclusivamente dalla propria abitazione e di non essersi mai recato in ufficio o presso la sede principale (tabella 1).

Tabella 1. Quota di occupati per sede di lavoro durante la prima fase della pandemia da Covid-19, UE 27

La figura 3 descrive le caratteristiche dei lavoratori che hanno potuto portare avanti la propria attività lavorativa in sicurezza da casa. Se si classificano i lavoratori in base al livello di istruzione, la quota di ‘lavoratori agili’ è più elevata tra i laureati. Se si guarda al settore, durante la prima fase della pandemia lo smart working era più diffuso nel settore dell’istruzione (molti paesi hanno chiuso le scuole), seguito da quello dei servizi di tipo finanziario e dalla pubblica amministrazione. È interessante notare che tra i lavoratori che hanno potuto lavorare da casa solo il 24% ha dichiarato di aver affrontato difficoltà economiche tra aprile e luglio 2020, contro il 44% di coloro che invece hanno continuato a lavorare in sede.

Figura 3. Chi sono i lavoratori che hanno lavorato da casa durante l’epidemia di Covid19, EU27 (%)

L’Italia, che prima della pandemia, era fanalino di coda per diffusione del telelavoro, tra aprile e luglio, in base ai risultati di quest’indagine, è stata uno dei paesi che ha fatto più massicciamente ricorso al lavoro agile per poter arrestare la diffusione del contagio da Coronavirus (figura 4).

Figura 4. Sede di lavoro durante la pandemia, EU27, %

Le evidenze sino a qui riportate mostrano che in Italia lo smart working è nato o comunque si è diffuso in modalità emergenziale. Il ricorso a questo modello organizzativo è stato dunque improvviso e forse anche un po’ “improvvisato”, configurandosi più come un lavoro da remoto forzato dalle circostanze che come una forma di organizzazione del lavoro caratterizzata da autonomia e flessibilità nella scelta del luogo di lavoro, quale dovrebbe essere lo smart working vero e proprio.

Questo “esperimento” di lavoro da remoto sollecita, ovviamente, molte riflessioni sui punti critici che sono emersi dall’inizio della pandemia e che riguardano la possibilità di ricorrere a questo nuovo modo di lavorare in maniera più diffusa, anche dopo la pandemia. Le aziende possono aver vantaggi in termini di riduzione dei costi e i lavoratori di un migliore bilanciamento dei propri tempi di vita, ma lo smart working potrebbe invece rappresentare un peggioramento per quelle categorie di soggetti, in particolare le lavoratrici, per le quali il lavoro rappresenta anche una forma di emancipazione dalla propria quotidianità familiare. Un altro punto su cui potrebbe valere la pena di riflettere riguarda la possibilità che la parcellizzazione del lavoro si spinga anche oltre quella configuratasi nel Taylorismo degli anni ’30, poiché ognuno starebbe a casa sua e si perderebbero tutti i vantaggi della socializzazione, sia formale che informale, e che porta a far circolare conoscenza. Lo smart working potrebbe portare inoltre a frammentare ulteriormente il mondo del lavoro, sostituendo alla classe dei lavoratori, tanti lavoratori separati gli uni dagli altri.

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