Il lavoro da casa prima dello “smart working”: radiografia della lavorante a domicilio tra produzione e riproduzione

Eloisa Betti presenta un affresco della storia del lavoro a domicilio nel periodo fordista, utile per confrontare lo “smart working” contemporaneo con la principale forma di “lavoro da casa” degli anni Cinquanta-Settanta. Betti mette al centro dell’analisi il complesso intreccio tra lavoro produttivo e riproduttivo tra le mura domestiche, focalizzando l’attenzione sulla difficile conciliazione, sull’invasione degli spazi domestici e di vita, sulle condizioni psico-fisiche delle lavoratrici, sulle assenti forme di socializzazione e sul possibile ruolo delle organizzazioni sindacali.

Il lavoro da casa, risemantizzato come “smart working” e “telelavoro” nel dibattito pubblico del 2020, non costituisce una novità nell’Italia del Nuovo Millennio, come emerge dagli studi di sociologhe come Sandra Burchi (Ripartire da casa. Reti e lavori nello spazio domestico, Franco Angeli, 2014). Degli anni Novanta, sono le prime riflessioni e tentativi di regolamentare il cosiddetto “telelavoro” (G.Scarpitti, D.Zingarelli, Il telelavoro. Teorie e applicazioni, La destrutturazione del tempo e dello spazio nel lavoro post-industriale, Franco Angeli,1996), antecedente novecentesco dello “smart working”. Non costituisce neppure un fenomeno inedito nell’Italia Repubblicana novecentesca né nella più ampia storia del lavoro femminile nell’età contemporanea, come messo in luce da Alessandra Pescarolo (Il lavoro delle donne nell’Italia contemporanea, Viella 2019). Tra i lavori svolti per eccellenza all’interno della casa, dobbiamo infatti ricordare il lavoro domestico e il lavoro a domicilio. Se il primo, che vede necessariamente la casa come luogo di svolgimento del lavoro, ha una lunga storia, ricostruita nella sua lunga durata da storiche come Raffaella Sarti e per la fase più attuale da sociologhe come Sabrina Marchetti, il lavoro industriale o artigianale svolto all’interna delle mura domestiche è sì un fenomeno di lunga durata ma la cui sopravvivenza non è scontata nella fase di massimo apogeo del sistema di fabbrica: il periodo fordista.

Proprio la parabola del lavoro a domicilio nel periodo fordista può costituire un interessante punto di osservazione per chi vuole comprendere le relazioni di genere all’interno della casa intesa come luogo di lavoro, il complesso intreccio spaziale tra lavoro produttivo e riproduttivo tra le mura domestiche, le condizioni psico-fisiche di chi lavora esclusivamente da casa, i possibili livelli di sfruttamento, le (non) forme di socialità/socializzazione, il potenziale ruolo delle organizzazioni sindacali. Le voci delle lavoranti a domicilio degli anni Sessanta e Settanta ci restituiscono un minuzioso affresco non solo della loro esperienza quotidiana ma anche della loro percezione di essere lavoratrici invisibili.

Nel periodo fordista il lavoro a domicilio divenne sempre più femminilizzato e invisibile nelle statistiche ufficiali, nonostante coinvolgesse stabilmente circa un milione di lavoratrici tra fine anni Cinquanta e primi anni Settanta. Inchieste promosse da organizzazioni politico-sindacali e associazioni femminili hanno fatto emergere la sua ampiezza, oggetto di ben due diverse leggi, nel 1958 e nuovamente nel 1973, tese a tutelare le lavoranti a domicilio e ridurre l’espansione del fenomeno. L’idea che il lavoro a domicilio fosse una forma produttiva economicamente arretrata, un residuo del passato incompatibile con il sistema di fabbrica fordista, appare scarsamente coerente con lo sviluppo effettivo dell’Italia degli anni del miracolo. Alla fine degli anni Cinquanta era diffuso in tutte le regioni d’Italia, in una molteplicità di settori industriali e lavorazioni. Organizzazioni sindacali e perfino imprenditoriali lamentavano la smobilitazione di interi reparti industriali a favore della proliferazione del lavoro a domicilio, molto meno costoso del lavoro operaio in fabbrica.

Le lavoranti a domicilio erano infatti tenute a dotarsi dei macchi­nari necessari allo svolgimento del lavoro, generalmente affittando o acquistan­do a rate le macchine dalle stesse fabbriche che appaltavano loro il lavoro. In larghissima parte senza contratto, queste lavoratrici non beneficiavano di quei diritti che venivano garantiti dai contratti alle operaie di fabbrica: assistenza sanitaria, trattamento di maternità, assicurazione contro i licenziamenti, ferie, contributi per la pensione. Il lavoro a domicilio non aveva le caratteristiche del lavoro autonomo, ma rappresentava spesso una forma di lavoro dipendente mascherato. Di fatto le lavoranti ricevevano un salario complessivo, calcolato in regime di cottimo ma prestabilito unilateralmente dal committente. La durezza e la fatica ritornano nei racconti, ac­canto alle pressioni ricevute, alle forme (anche nascoste) di sfrutta­mento legate al sistema di cottimo. «Il padrone ci ricatta dicendo che non può contare su di noi per le consegne, ma io ho sempre mantenuto l’impegno prese. Le misure le controllano, vigilano più che per le interne. Se una lavora in fabbrica anche se sbaglia un pezzo e lo si disfa l’ora che passa è pagata, ma una che lavora in casa…e poi si dice che noi siamo avvantaggiate perché stiamo in casa, non facciamo le pendolari e non perdiamo le ore ad aspettare i mezzi di trasporto. Però se facciamo un capo che non va bene ci tocca disfarlo e rifarlo, per cui un’ora fa presto a passare. E quell’ora lì non sei pagata».

I vari aspetti che connotavano la pre­stazione lavorativa delle lavoranti a domicilio tendevano poi ad alimentare un cir­colo vizioso che portava lo sfruttamento a livelli insopportabili. Il pagamento a cottimo e le bassissime tariffe erogate, associate all’obbligo di pagare le rate delle macchine acquistate o affittate, nonché alla necessità di garantire una certa quota di reddito, le obbligavano a prolungare l’orario di lavoro oltre ogni limite di logoramento fisico. Uno dei problemi che tendeva a perpetuare le durissime condizioni di sfrutta­mento e precarietà era la scarsissima sindacalizzazione, associata ad una limitata co­noscenza dei propri diritti ed alla convinzione, da parte delle stesse lavoratrici, che non vi fosse alcun rimedio possibile alla situazione di sfruttamento che vivevano quotidianamente. A renderle meno combattive delle operaie di fabbrica non vi era solo il rischio concreto di perdere all’improvviso la loro unica fonte di reddito, a fronte del quale tendevano a non rivelare nemmeno dove prendevano il lavoro, ma anche il timore di mostrarsi come lavoratrici. La situazione tese a modificarsi a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, quando organizzazioni sindacali, partiti politici e associazioni femminili promossero numerosi incontri di discussione sulla loro condizione, a cui seguì l’elaborazione di una rinnovata strategia da parte delle stesse organizzazioni e un più incisivo protagonismo delle lavoranti, come emerge nel caso emiliano-romagnolo e toscano.

Se per lungo tempo è stato presentata come una delle modalità più semplici di conciliazione tra compiti di cura e lavoro retribuito, il lavoro a domicilio assume infatti un’altra fisionomia nei racconti delle lavoranti. La difficoltà di realizzare una reale concilia­zione emerge a chiare lettere dalle vivide descrizioni delle donne impegnate in un continuo e vorticoso slalom tra faccende domestiche e lavoro produttivo: «sto cinque minuti alla macchina, poi mi devo alzare per controllare che il bimbo non si faccia male. È tutto uno smettere e un riprendere: lascio in sospeso la camicia che sto cucendo e do un’occhiata al ragù. Poi torna a casa mio marito, si mangia, poi riprendo il lavoro. La sera mi accorgo di non aver lavorato abbastanza e devo stare su ancora un po’ per finire. Mio marito magari è alla televisione tranquillo, perché per lui la giornata di lavoro è finita».

Il troppo poco tempo libero, conti­nuamente agognato, riecheggiava frequentemente nelle testimonianze. Un impiego in fabbrica con un tempo definito, che lascia momenti di libertà senza la preoccupazio­ne del lavoro non finito o non sufficiente, viene contrapposto al lavoro a domicilio che invade il tempo di vita: «le otto ore sono tante, però sono quelle e basta. Invece in casa hai del lavoro e stai lì finché non è finito. E poi le faccende domestiche: la roba da stirare si ammucchiava e la domenica poi una grande lavorata». L’invasione degli spazi domestici da parte del lavoro a domicilio era fonte di particolare tensione all’interno dei nuclei familiari delle lavoranti a domicilio, poiché spesso il marito faticava a riconoscere l’attività della moglie come lavoro. «Quando mio marito, a mezzogiorno, smette di lavorare e torna a casa per il pranzo, pretende di trovare tutto sgombro, tutto pulito. Niente deve fargli capire che la cuci­na è servita anche per il mio lavoro. Devo nascondere tutto, riordinare tutto. E guai se trova qualcosa fuori posto. O se non trova il mangiare pronto. Diventa cattivo, può arrivare a usare le mani».

Anche il problema della salute delle lavoranti a domicilio emerse a più riprese nella discussione politico-sindacale. L’inchiesta realizzata nel Comune di San Giovanni in Persiceto da un Collettivo di medici e studenti alla fine degli anni Sessanta faceva emergere le caratteristiche dell’ambiente in cui lavoravano le lavoranti a domicilio durante l’autunno caldo. La maggioranza delle lavoranti utilizza­va una macchina (rettilinea, dipanatrice, taglia-cuci, circolare), questa era collocata prevalentemente in cucina, sala da pranzo o camera da letto dove illuminazione, temperatura e umidità risultavano problematiche. Così veniva descritta l’invasione dello spazio abitativo e familiare dal lavoro a domicilio: «In tal modo il processo produttivo e la vita familiare coincidono, la fabbrica invade la casa, i prodotti tossici, le polveri ecc. si diffondono in ogni ambiente, il rumore delle macchine è fastidioso ed irritante, i bambini sono costretti a vivere in spazi ristretti, circondati da materiali che non devono toccare».

La crisi che investì il sistema fordista negli anni Settanta generò nei decenni successivi una espansione del lavoro a domicilio su scala globale e al successivo varo della Home Work Convention da parte dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (1996). In paesi occidentali come l’Italia dove la nuova legislazione progressista del 1973 non riuscì ad arginarne la cresciuta a scapito del lavoro operaio, il lavoro a domicilio tese a ridimensionarsi dagli anni Ottanta con la crisi e ristrutturazione del comparto del tessile-abbigliamento e la delocalizzazione di parte della produzione. I recenti studi di Marlese von Broembsen, che analizzano le condizioni lavorative e le mobilitazioni promosse dalle lavoranti a domicilio nelle catene globali di subfornitura, evidenziano la funzione centrale di tale attività nell’economia e nella produzione globale contemporanea (M. Von Broembsen, L. Alfers, The UN Guiding Principles and the Informal Economy: Homeworkers in Global Supply Chains). Anche in Italia, tuttavia, il lavoro a domicilio è balzato nuovamente agli onori della cronaca negli anni Duemila, nell’ambito di inchieste sul lavoro nero che ne hanno svelato la persistenza e aumento negli anni della crisi globale.

La storia del lavoro a domicilio nel trentennio glorioso mostra la difficoltà di regolamentare, sindacalizzare e contrattare un lavoro svolto tra le mura domestiche, svela le motivazioni alla base della sua proliferazione, in primis il minor costo del lavoro e lo scaricamento dei costi e rischi di produzione sulle lavoratrici. La sua estrema femminilizzazione tradisce non solo forme di discriminazioni nell’accesso al lavoro, ma anche la difficoltà delle lavoratrici di trovare una forma di impiego retribuito al di fuori delle mura domestiche in assenza di servizi sociali, in primis all’infanzia. Nella casa la conciliazione tra lavoro produttivo e riproduttivo, nel momento in cui quest’ultimo è scaricato primariamente sulle donne, appare una missione impossibile.

 

(Questo testo trae spunto da: Le ombre del fordismo. Sviluppo industriale, occupazione femminile e precarietà del lavoro nel trentennio glorioso (Bologna, Emilia-Romagna, Italia), Bononia University Press, 2020, accessibile gratuitamente al seguente link https://buponline.com/prodotto/le-ombre-del-fordismo/).

Schede e storico autori