Il governo della non-élite: il New Deal di Franklin D. Roosevelt

Maurizio Franzini in occasione della nuova pubblicazione in Italia degli interventi e dei discorsi di F.D. Roosevelt propone, guardando anche al presente, una riflessione sul New Deal degli anni ’30. Franzini, dopo aver sottolineato l’inconciliabilità, nella visione di Roosevelt, tra ilpotere economico e i valori fondativi e costituzionali degli Stati Uniti, sostiene che da ciò discende la priorità assegnata alla reform rispetto alla recovery e nelle conclusioni delinea le ragioni del successo di questo eccezionale “governo per la non –élite”.

In Guardare al Futuro (Looking Foreward)[1] due parole ricorrono con grande frequenza e aiutano a capire cosa avrebbe dovuto essere il New Deal secondo Roosevelt – e anche cosa, alla fine, esso sia stato. Le due parole sono: concentrazione e potere (economico).

Che i 2/3 dell’industria americana fossero concentrati nella mani di poche centinaia di grandi corporations e di non più di 5000 uomini a FDR appare estremamente preoccupante, e ancora di più è così se si tiene conto anche del potere della speculazione e della finanza. Quel potere, infatti, limita la libertà e perciò mette in pericolo il Contratto tra il Governo e i cittadini americani che fu alla base della Dichiarazione di Indipendenza:

“Meta ultima del Contratto era la libertà e il perseguimento della prosperità…..libertà individuale e prosperità individuale sono espressioni vuote di senso qualora l’una e l’altra non vengano disciplinate in modo che il pane di Tizio non si converta in veleno per Cajo…. La libertà di fare cosa che privi altri di quei diritti elementari esula dai termini del Contratto, e sotto questo rispetto il Governo non è altro che la bilancia di una giustizia uguale per tutti”.

Il venire meno della libertà implica che non esiste “più quell’eguaglianza di opportunità (di lavoro) per tutti che avevamo conosciuto nel passato” e che, si può aggiungere, è l’essenza dell’American Dream. Dunque, “in parole povere ci avviamo direttamente all’oligarchia economica: se non ci siamo già pervenuti”

La convinzione che il potere economico sia il problema – e lo sia, soprattutto, per i motivi appena detti – viene riaffermata da FDR, spesso in modo enfatico, in diversi interventi successivi; in particolare nel vibrante discorso di accettazione della candidatura per il secondo mandato, tenuto a Filadelfia alla fine di giugno del 1936 e in quello, di poco successivo, di chiusura della campagna elettorale al Madison Square Garden di New York.

A Filadelfia egli disse che in gioco c’era la libertà politica e economica per cui lottarono Washington e Jefferson, aggiungendo che la libertà presuppone l’opportunità di accedere a una vita decente. Le opportunità sono però limitate dai monopoli; l’impresa privata è diventata troppo privata, essa è privilegiata non libera. E, ancora: ”l’eguaglianza politica è priva di senso se manca l’eguaglianza economica”.

Dunque, per FDR il problema principale è la concentrazione del potere economico, che è anche la causa di fondo della crisi. Ma sarebbe illusorio affrontare quest’ultima senza contrastare l’intollerabile concentrazione del potere. La principale preoccupazione di FDR sembra essere il ripristino dell’eguaglianza, delle opportunità e della libertà. La ripresa economica (la recovery) di per sé non assicura quel ripristino e per questo non è l’obiettivo prioritario.

E’ forse più che una curiosità osservare che in Looking Forward la parola recovery compare soltanto 6 volte. Ancora più interessante, dal punto di vista dei nostri giorni è che anche la parola “crescita” ricorre poco: 7 volte e solo una come “crescita economica”, peraltro evocata per affermare che negli anni precedenti il ‘29 era stata superiore a quella normale. Siamo in un’epoca in cui ancora non è stato inventato il PIL e d’altro canto, l’eguaglianza delle opportunità e la libertà sostanziale per tutti, sembrano essere valori più importanti della crescita della complessiva ricchezza materiale.

Si può, quindi, dare ragione a Keynes che – in modo assai rispettoso – nella lettera aperta al New York Times, del 31 dicembre 1933, critica FDR proprio per essersi dedicato più alla reform (certamente necessaria, peraltro) che non alla recovery.

Tutto ciò non vuol dire che la ripresa sia mancata: nel primo mandato di Roosevelt la crescita fu dell’ordine del 9% medio annuo, un tasso senza paragoni per periodi di pace. Né vuol dire che Keynes non ebbe influenza su FDR. Ad esempio, dell’incontro tra i i due del maggio del 1934 esistono resoconti diversi, ma, secondo Tugwell – figura di spicco del Brain Trust – uno dei suoi effetti fu di rafforzare all’interno del Brain Trust le posizioni a favore del deficit spending e delle politiche fiscali.

Animato da questa filosofia FDR si impegnò subito in uno straordinario programma di riforme che fu particolarmente intenso nei primi 100 ma che continuò anche successivamente. Lo spettro delle policies attuate o inventate fu impressionante.

Nel complesso queste policies modificarono profondamente il funzionamento del sistema economico, limitando il potere economico e ampliando le opportunità di molti. In particolare, il sistema bancario e finanziario finirono sotto una regolamentazione severa; le relazioni industriali cambiarono e venne riconosciuto il diritto dei lavoratori a difendere collettivamente i propri interessi; venne introdotto un sistema di protezione sociale per assicurare contro le oscillazioni del mercato.

Possiamo chiederci cosa rese possibile tutto questo che peraltro si realizzò in modo non lineare tra molti conflitti di cui quello forse più acuto fu con la Corte Suprema, in particolare sui poteri del Governo in tema di lavoro. Un elemento essenziale è stata, quasi certamente, la straordinaria forza di un messaggio imperniato sul collegamento tra potere economico, libertà, eguaglianza e che riconduceva ai valori della Dichiarazione di Indipendenza. In un certo senso, FDR pose una gigantesca “questione morale” sugli eccessi del mercato e sui compiti (che potremmo anche chiamare “etici”) del governo.

Quel messaggio raccolse un largo consenso presso chi era svantaggiato dal sistema (e mostrava fiducia nel cambiamento promesso). Ma anche tra gli avvantaggiati vi era chi non poteva non porsi il problema richiamato con tanta forza da FDR. Al riguardo è molto significativa la distinzione che tracciò nel discorso sul controllo dei monopoli del 1938 tra coloro che erano “ciecamente egoisti” e coloro che, pur non essendolo, “non vedono le conseguenze sociali ed economiche delle loro azioni nelle moderne comunità economicamente interdipendenti”. Si potrebbe, cioè dire, che costoro condividono i valori ai quali si richiama FDR ma non si rendono conto che i loro comportamenti portano a esiti non conformi con quei valori. Una conseguenza rilevante è che il fronte delle corporations non è compatto e ciò allarga lo spazio del consenso potenziale per le politiche del New Deal.

Naturalmente, gli avversari nelle corporations non mancavano ed erano particolarmente agguerriti. Di tutto ciò FDR si mostrò ben consapevole e si dichiarò pronto – e anche più! – alla sfida. Nel discorso del 31 ottobre 1936 al Madison Square Garden di New York lo fece con queste parole:

“Per quattro anni …. abbiamo dovuto combattere con tutti i vecchi nemici della pace, i monopoli della finanza e dell’industria, la speculazione, le pratiche bancarie senza scrupoli, l’antagonismo di classe, il settarismo, la speculazione di guerra. Avevano cominciato a considerare il governo degli Stati Uniti come una semplice appendice dei loro affari. …. Mai nella storia del nostro Paese queste forze sono state così unite contro un candidato come sono adesso. Sono unite nel loro odio contro di me – e io do il benvenuto al loro odio.”

E a Filadelfia pochi mesi prima aveva lanciato strali contro quelli che chiamò “i reazionari dell’ordine economico”. Costoro, disse FDR, lo accusavano di voler rovesciare le istituzioni americane mentre in realtà “vogliamo portare via il loro potere” proprio perché “la nostra fedeltà alle istituzioni americane richiede di rovesciare questo tipo di potere”.

La frammentazione di quel potenziale blocco politico e sociale, documentata da W.G. Domhoff e M. J. Webber (Class and Power in the New Deal: Corporate Moderates, Southern Democrats and the Liberal-Labor Coalition, Stanford University Press, 2011), fu un altro fattore del successo di FDR che dipese anche dal suo genio politico.. Scrivono, ad esempio, Domhoff e Webber (2011, p. 4): “Roosevelt era un politico consumato e le sue abilità sono state documentate da varie fonti. Era un maestro nel tempismo, nella sintesi, nel compromesso, nella scelta delle parole, nell’ambiguità, nella riassicurazione e nel simbolismo”.

Questo vale anche se, come è stato da molti ricordato, egli non comprendeva i dettagli tecnici di tutte le soluzioni che gli venivano proposte e nonostante fosse considerato, nei suoi anni giovanili, un figlio di papà e un avvocato fallito. Ma, secondo una testimonianza riportata da H.W. Brands (Traitor to His Class, Doubleday, 2008, p. 61), già nel 1907 aveva le idee chiare: voleva diventare presidente degli Stati Uniti

FDR mise queste sue capacità al servizio di un progetto che non era quello di conservare privilegi alla classe alla quale apparteneva. Sotto questo aspetto è possibile individuare un filo, un altro, che collega FDR a Keynes. E. Rauchway (The Money Makers, Basic Books, 2015) lo descrive così:

“Roosevelt, come Keynes, avrebbe potuto avere una vita più tranquilla se si fosse schierato dalla parte dei ricchi e dei potenti. Entrambi avevano famiglie, formazione e temperamenti che avrebbero loro permesso di andare d’accordo con uomini politici e imprenditori conservatori. Al contrario, entrambi spesero le loro vite a sfidare alcuni idoli Vittoriani: la parsimonia, l’oro, e l’iniziativa privata senza freni”.

Il valore epocale di questa scelta di FDR si comprende appieno alla luce di una penetrante osservazione di J. Cowie (The Great Exception. The New Deal and the Limits of American Politics, Princeton University Press, 2016), il periodo compreso tra gli anni ’30 e gli anni ’70 costituisce una “grande eccezione” nella storia politica americana ed è così perché in quel periodo il governo ha usato i suoi poteri per sostenere gli interessi dei “non-elite Americans”. Non una cosa da poco. Difficilmente tutto questo sarebbe stato possibile senza FDR.

Cosa possiamo desumere da tutto ciò per il presente? Anzitutto che forse si è parlato un po’ a sproposito, negli anni recenti, di ritorno al New Deal. Anzi è certamente così se quest’ultimo è considerato – come dovrebbe essere – un grande movimento di contrasto del potere economico e non soltanto per il ricorso a politiche fiscali espansive. Tutti i programmi governativi degli ultimi anni, incluso quello, imponente, adottato dal governo americano per fare fronte alla crisi del 2008 contengono, al più, labili tracce di una strategia di contenimento del potere economico.

Inoltre, possiamo chiederci perché la direzione di marcia sembra oggi essere diversa, se non opposta, rispetto a quella del New Deal. La risposta è tutt’altro che semplice ma un elemento può essere individuato: la libertà e l’eguaglianza a cui molti oggi dicono di richiamarsi sono ben diverse dalla libertà e dall’eguaglianza che FDR difese e per le quali si impegnò. In particolare, la libertà è intesa anche come assenza di vincoli all’azione di chi ha potere. L’opposto della concezione di FDR.

[1] E’ questo il titolo del volume appena pubblicato da Castelvecchi a cura di G. Amari e M.P. Del Rossi che raccoglie, con una nuova traduzione e con la Prefazione di J.K. Galbraith, discorsi e interventi di Franklin Delano Roosevelt degli anni ’30. Questo scritto è una sintesi del più ampio saggio che compare nel volume.

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