Il giudizio della CGIL piemontese. Una crisi inedita

Inedita perché, se già prima della crisi, con gli effetti della globalizzazione, il peso dei paesi sullo scacchiere internazionale era profondamente mutato (erano cambiati gli assunti, i parametri economici, valutari, industriali, tecnologici che avevamo mutuato dal passato) adesso, dentro una crisi di domanda globale, continuano i mutamenti e ci accorgiamo che i motori di ripresa stanno in Cina, in India e in Brasile, mentre in Europa Grecia e Portogallo sono in agonia e torna il rischio di una speculazione finanziaria nei paesi più esposti.

 

Inedita perché, anche se nessuno ne parla, la crisi ha spinto nel tunnel della malnutrizione circa 100 milioni di persone in più rispetto all’anno precedente. La FAO denuncia che le persone che soffrono la fame superano 1,02 miliardi.

 

Inedita perché la forte finanziarizzazione delle imprese industriali e la verticalizzazione globale della produzione che si sono dispiegate nel recente passato, rischiano di produrre un ulteriore effetto negativo sul lavoro con una ridislocazione delle multinazionali nel mondo e la chiusura o il ridimensionamento di stabilimenti.

 

In Italia la crisi ha già prodotto 600.000 posti di lavoro in meno, più di 1 miliardo di ore di cassa integrazione, l’aumento della povertà (1 famiglia su 4) e un aumento delle diseguaglianze: l’Istat dichiara che il 10% delle famiglie possiede il 45% della ricchezza. Il lavoro dipendente e i pensionati sono i contribuenti che pagano e pagano sempre di più (la pressione fiscale è salita al 44,4%).

 

La caduta delle esportazioni italiane era scontata ma le nostre pessimistiche previsioni sono state superate: il tonfo è stato del 21%. La produzione industriale è crollata, mentre debito pubblico e spesa pubblica aumentano.

 

Questo brevissimo quadro indica un “sistema paese” già in declino, che indirizza verso il “si salvi chi può”, mentre sarebbe urgente una svolta nelle politiche economiche, fiscali, sociali.

 

Le misure messe in atto dal governo sono sbagliate e inefficaci. Non voglio qui riportare il divario tra gli interventi messi in campo dagli altri paesi e il nostro in quantità e qualità. Non posso però tacere che l’aumento del debito pubblico in Italia non è giustificato dalle risorse spese per contrastare la crisi.

 

Finora il governo ha galleggiato illudendosi o volendo illudere il paese che un po’ di incentivi alla domanda svincolati da qualsiasi garanzia occupazionale e produttiva. Il click day sulla ricerca (si finanzia chi arriva prima e più veloce con il mouse) o un ulteriore pesante intervento sul diritto del lavoro – siamo al voucher nel p.i. – avrebbero consentito al sistema produttivo basato sulle piccole imprese di reggere.

 

I dati dimostrano che così non è e che c’è poco tempo per recuperare, per mettere in campo misure di politica industriale capaci di scegliere, mirando gli interventi sui settori, incentivando la ricerca e gli investimenti in macchinari ad alta tecnologia, ricercando e innovando nei settori manifatturieri, predisponendosi ad un recupero di competitività del paese attraverso le infrastrutture tecnologiche, lo sviluppo della banda larga, i poli di innovazione, capaci di mettere in rete una larga parte di piccole imprese che, proprio per le caratteristiche di concezione familiare, non sono in grado di reggere la sfida dentro la crisi.

 

Per fare questo occorre costringere/convincere il governo a cambiare rotta; ma questo implica anche convincersi (per alcuni rassegnarsi) che  avere prodotto la più alta frammentazione della produzione, l’atomizzazione delle tipologie di lavoro, aver scelto di comprimerne il costo agendo su salari e diritti, è stata una strada sbagliata e nefasta per il lavoro e inefficace e illusoria per il nostro sistema produttivo.

 

Quanto  sta avvenendo dentro la crisi dimostra la debolezza del nostro sistema paese: le nostre multinazionali si ridislocano non solo in base al costo del lavoro e della flessibilità del mercato del lavoro, ma rispetto agli investimenti fatti dagli altri paesi per difendere le produzioni, ai costi dell’energia, alle infrastrutture materiali e immateriali, ai saperi, agli indotti tecnologici presenti nei territori. Sono questi i fattori che muovono la nuova dislocazione internazionale.

 

Leggere questa realtà è la condizione per uscire dal paradigma politico che per molti anni ha tenuto banco in Italia, quello che individuava nel mondo del lavoro troppo rigido e nel costo del lavoro troppo alto le cause della nostra scarsa competitività. Il governo non vuole cambiare strada, anzi si ostina a perseguirla, ma sarebbe bene  che almeno le forze di opposizione presenti nel Parlamento la contrastassero convintamente. E’ stata approvata la legge che attua una vera e propria riforma del diritto del lavoro, un attacco subdolo e insidioso contro i diritti e contro l’art. 18. Attraverso l’arbitrato – la definizione di nuovi termini per l’impugnazione dei licenziamenti, dei CO.CO.CO, dei C.A.T. e dei trasferimenti, la certificazione derogatoria si rendono ricattabili i lavoratori e li si mette nell’impossibilità di tutelare i propri diritti. E’ questo uno dei motivi dello sciopero generale del 12 marzo. Da molti mesi La CGIL denuncia i contenuti di questa legge.

 

Se questo è il quadro, occorre costruire alleanze cercando di guadagnare una consapevolezza collettiva, a partire dal  territorio, che i tempi di risalita da questa crisi saranno lunghi e in grado di determinare, anche in presenza di segnali di ripresa, degli effetti devastanti sul lavoro e sulla coesione sociale.

 

Non so se saranno 5 o 10 gli anni necessari per tornare ai livelli del 2008. Quello che  interessa è guadagnare consapevolezza e alleanze per affrontare quello che capiterà. Il sindacato ha  cercato, con una buona intesa con gli Enti Locali, Comune – Provincia – Regione, di utilizzare al meglio le risorse per evitare che aumentassero le diseguaglianze di reddito, di tutele, di opportunità, toccando con mano che le riforme annunciate e non realizzate sugli ammortizzatori più che una coperta di protezione si sono dimostrate una rete smagliata. Abbiamo imparato che alle diseguaglianze che si sono prodotte nel mondo del lavoro non si può rispondere con strumenti tradizionali ed uguali per tutti.

 

Non sempre ci si è  riusciti. Penso alle/ai 30.000 giovani, donne e uomini che hanno avuto solo e per pochi mesi la disoccupazione ordinaria e/o requisiti ridotti e non hanno occasioni di lavoro;   penso ai “precari”, agli assegnisti o dottorandi delle Università, un patrimonio di sapere, di conoscenza che non ha trovato e non trova lavoro e riconoscimento nel nostro territorio. Anzi, il loro titolo è un handicap nel mondo del lavoro.

 

Con un ulteriore sforzo, a partire dalla Regione, ottimizzando risorse europee e locali, si sono agite delle politiche industriali rivolte all’innovazione, alla ricerca, allo sviluppo di tecnologie eco-compatibili, al risparmio energetico, all’innovazione per la prevenzione, la salute e alla cura delle persone e, nello stesso tempo, interventi pubblici per salvare il patrimonio di sapere e saper fare in siti storici come per esempio la Pininfarina.

 

Il sindacato ha messo in campo la contrattazione sociale per cercare di arginare gli effetti sociali della crisi e promosso  nuovi equilibri e nuove solidarietà tra i soggetti che vogliamo tutelare. E’ stato, ed è, un lavoro unitario prezioso.

 

Sono stati  inventati svariati strumenti per misurare i repentini cambiamenti del reddito dovuti alla cassa, ai licenziamenti, alla contrazione dell’orario di lavoro.

 

Con alcuni Comuni, a partire da quello di Torino, si è attuata una lotta all’evasione fiscale che ha portato posti di lavoro pubblici e un recupero non indifferente di risorse. Grandi sono tuttavia le difficoltà che si incontrano  nell’agire rispetto agli interventi e ai cambiamenti in corso sul territorio del Piemonte, nel seguirne le trasformazioni con una elaborazione e un punto di vista autonomo. Si  corre il rischio di non poter mettere in cantiere  investimenti indispensabili  per il lavoro e per la qualità del vivere, a partire da quelli sulla scuola e della casa che continuano ad essere un’emergenza. Senza risorse c’è il rischio che le protezioni diminuiscano e che si venda o svenda l’unico vero patrimonio permanente: il territorio. D’accordo con il sindacato, la Provincia di Torino ha esteso l’anticipo della cassa e attivato misure di sostegno al reddito a partire dai più deboli. L’obiettivo è stato quello di unificare con interventi e misure diverse, i livelli di protezione nella crisi, anche scontando qualche malumore, dovuto a delle motivate e forti soggettività  presenti sia tra i lavoratori,  sia nelle istituzioni locali.

 

Due domande tuttavia si pongono: come resistere nel prossimo futuro per tutelare il lavoro; come impedire che il  territorio torinese e piemontese esca dalla crisi con un tessuto produttivo ridimensionato e più povero.

 

Uno degli effetti più vistosi e dirompenti della crisi è stata l’esplosione in Italia del ricorso alla cig nelle sue varie forme.

Nel 2009 la cig ordinaria è stata autorizzata per 71,5 mln di ore, con un incremento rispetto al 2008 di oltre il 600%. Quasi l’80% riguarda il settore metalmeccanico. La cig straordinaria fa registrare per ora una dinamica più contenuta, con 26,2 mln di ore ed un incremento sul 2008 del 164%. Complessivamente dall’inizio della crisi, ottobre 2008, a dicembre 2009, le ore autorizzate sono state 119 mln: è come se fosse stato cancellato completamente il lavoro di un anno di 70.000 persone. L’esaurimento della cig ordinaria determinerà a breve un brusco incremento della straordinaria, che a sua volta per molte imprese sta arrivando al termine: al 28 febbraio 2010 risultano fare ricorso alla cigs 504 aziende, per un totale di oltre 32.000 lavoratori coinvolti; di queste, 111 imprese per 4110 lavoratori sono in cigs per cessata attività o procedura concorsuale.

Anche più eloquente è l’andamento della cig in deroga. Nel 2009 è stata utilizzata da oltre 1.800 imprese, con 13.000 lavoratori coinvolti per circa 6 mln di ore (nel 2008 i lavoratori coinvolti erano stati 2.380 per 746.000 ore). Il ricorso alla cig in deroga è destinato anch’esso (per paradosso, sperabilmente!) ad aumentare, rappresentando l’unica alternativa ai licenziamenti da parte delle imprese che esauriscono l’ordinaria e non possono accedere alla straordinaria.

 

Il ricorso massiccio alla cig non è stato sufficiente ad impedire l’ingrossamento delle liste di mobilità. Al 1° gennaio 2010 si registravano in provincia di Torino 21.166 iscritti contro i 15.441 di un anno prima; è da rilevare come mentre in precedenza il 55% era rappresentato da iscritti con indennità, oggi la percentuale si è esattamente invertita. Questi numeri già preoccupanti non danno conto di altri aspetti drammatici: in primo luogo non sono ovviamente inclusi tutti coloro che hanno perso il lavoro ma provenivano da rapporti precari e quindi non possono essere inseriti nelle liste; inoltre è in costante aumento il numero delle cancellazioni per scadenza termini e per contro in riduzione quelle per rioccupazione o pensionamento. Sul versante della composizione di genere, contrariamente a quanto ci si potrebbe attendere, cresce maggiormente la componente maschile, che passa dal 56 a quasi il 60%, ma questo dato va letto tenendo conto che per settori e tipologia di occupazione sono più le donne che hanno perso il lavoro ad essere “invisibili” per le liste di mobilità. Contemporaneamente i disoccupati iscritti ai Centri per l’Impiego sono passati da 103.156 del 31.12.08 a 125.361 del 31.12.09.  Da sottolineare il fatto che ben il 35% dei nuovi iscritti è rappresentato da giovani sotto i 30 anni.

 

Ai dati sulle sospensioni ed espulsioni dal lavoro, fanno riscontro quelli sugli avviamenti.

Nel 2009 si sono registrati 344.293 avviamenti totali (-81.642 rispetto al 2008): di questi, solo 61.000 hanno riguardato contratti a tempo indeterminato e oltre 283.000 lavori precari di varia natura. I dati mostrano rispetto al 2008 l’inequivocabile caduta dei rapporti di lavoro a carattere subordinato: -29% il tempo indeterminato, -27% il tempo determinato, -27% le somministrazioni, e per contro una crescita (+5%) dei contratti cosiddetti parasubordinati; per questi ultimi bisogna peraltro rilevare come ad una crescita del numero corrisponda una riduzione della durata media, che passa 313 giorni di calendario a 212. Ad un generale peggioramento quantitativo, si somma un forte deterioramento qualitativo. Bisogna infine tenere conto del fatto che il raffronto tra il 2009 ed il 2008 non dà pienamente conto della reale riduzione degli avviamenti al lavoro, in quanto il primo manifestarsi della crisi nell’ultimo trimestre del 2008 aveva già determinato una riduzione di circa il 15% rispetto all’anno precedente.

 

La crisi ha colpito Torino in una fase di transizione non completata, una debolezza frutto di una crisi che nel recente passato aveva già pesantemente intaccato e scompaginato il nostro sistema manifatturiero, lasciando anche grandi aziende senza soluzioni.

 

Ne ricordo una per tutte: la Bertone, oggi con una reale possibilità di ripartire. La ricordo perché la capacità di lotta, di coesione, di solidarietà di quelle/i lavoratrici/ori è esemplare, ma soprattutto perché c’è una pratica sindacale, una esperienza contrattuale che, credo, faccia parte della miglior tradizione del sindacalismo a Torino.

Le debolezze precedenti alla crisi, parlano del salto di qualità che dovremmo fare dentro la crisi; soprattutto per un territorio che basa la sua forza nell’esportazione, rispetto alla quale l’innovazione di prodotto e la capacità di internazionalizzazione giocheranno un ruolo fondamentale, sapendo che se non ci sarà la leva della domanda interna il rischio di una competizione giocata nel lavoro c’è tutto.

Lo dico a partire dalla Fiat; se abbiamo scongiurato grazie a tutti, in primo luogo alla tenacia dei lavoratori, una Fiat senza Torino e Mirafiori, non possiamo oggi non vedere che le scelte messe in campo sullo scacchiere mondiale ci consegnano un nuovo problema: quello di quale sarà la produzione di auto in Italia e se Torino sarà non solo la testa (magari ridotta) di un gruppo che ha guardato altrove, ma sarà il cuore dell’innovazione.

Portare a Torino produzioni innovative, l’ibrido, termico/elettrico è importante anche per l’indotto, ridisegnare nuovi componenti, produzioni più qualificate, nuovi insediamenti per ricostruire un nuovo ciclo. Torino e il Piemonte hanno le carte in regola per richiederlo. Occorre operare perché la Fiat senta questa richiesta come una richiesta di tutti.

Da qui si può giocare un salto di qualità che deve investire anche gli altri settori confermando la forza dei distretti e potendo contare su aziende che avendo innovato hanno retto bene la crisi. In questo quadro assumono un ruolo decisivo i 12 poli di innovazione proposti dalla Regione che riguardano settori innovativi, chimica sostenibile, energie rinnovabili, il biomedicale, ecc.., sapendo che ancora una volta si ripropone sul nostro territorio la questione di come fare sistema, come mettere in rete, come coordinare, consorziare, un mondo di piccole imprese che per le sue caratteristiche è restio a giocare in squadra.

Penso che si debba declinare così un nuovo forte ruolo pubblico indispensabile per andare oltre la crisi.

La Rai di Torino è destinata a pagare il prezzo più alto della crisi complessiva dell’azienda. Tutti gli insediamenti sono minacciati di ridimensionamento, dall’orchestra al centro di produzione, che vedrà sparire alcune delle produzioni storiche della produzione per ragazzi, eliminate dal palinsesto di RAI3 e spostate alle “reti tematiche” (senza soldi). A Torino si sono realizzati e si gestiscono le piattaforme per la gestione dei contenuti del digitale terrestre e dei servizi interattivi al cittadino, si è realizzato e implementato il recupero, la digitalizzazione e l’archiviazione di oltre 500.000 ore di trasmissioni RAI. Non può finire così. Così come sarebbe indispensabile assegnare una nuova missione ai servizi pubblici locali nel dare impulso a una riconversione ecologica dell’economia, rendendo così più forte, anche attraverso vere scelte industriali, l’opposizione alla privatizzazione obbligatoria dei SPL e la riaffermazione della proprietà pubblica dell’acqua.

 

In questo quadro dovrebbe assumere una importanza decisiva il sapere. La CGIL ha  promosso una legge sull’apprendimento permanente. Il sapere deve diventare un  nuovo fondamentale diritto in una società in grande trasformazione.

Invece di ciò abbiamo avuto in Italia una politica di tagli e non di riforme (che lascia scuole povere e Istituti nel caos, per arrivare sino all’assolvimento dell’obbligo scolastico a 15 anni con l’apprendistato) consegnandoci l’obbligo di ripensare alla scuola come luogo in cui istruzione ed educazione siano parte di un progetto integrato. Bisogna reagire: stanno mandando in fallimento  la più grande infrastruttura pubblica del paese: la scuola, l’Università, la ricerca.

Il sindacato è  impegnato a unire politiche attive e passive, azioni di ricollocazione che vedono ancora interventi parziali e frammentari. Ci sarebbe bisogno di un governo del sistema e di un’offerta formativa meno generica. Anche l’intervento dei fondi interprofessionali che si sta ampliando è troppo slegato da un quadro di insieme e si rivolge prevalentemente a ridotte coorti di lavoratori. Superare la logica imposta dal Governo nell’ambito degli ammortizzatori in deroga, logica che non tiene conto delle esigenze delle imprese e dei lavoratori, induce perciò un senso di incomprensione e di rifiuto da parte degli stessi, per evitare di sperperare risorse preziose delle Regioni e dell’Unione Europea.

 

Vorrei concludere con due proposte:

 

1.    un salto di qualità nel diritto sapere per gli occupati. Abbiamo, in tutti i settori, diplomati e non che hanno lasciato l’istruzione 10-15 anni fa, dovrebbero essere un punto di forza sul quale scommettere. Penso che il nostro territorio, il nostro sistema, a partire da Politecnico e Università, dovrebbe offrire una possibilità formativa di aggiornamento, di ampliamento delle competenze. Una nuova stagione di 150 ore non per diventare tutti laureati, ma per avere strumenti in più per essere protagonisti dei cambiamenti e dell’innovazione.

2.    Abbiamo cercato di affermare che vivere più a lungo deve e può essere considerata una risorsa per il paese. E allora investire in sapere anche per gli anziani può essere una strada. Penso a come renderli partecipi e protagonisti dei cambiamenti che avvengono nell’informazione, nell’uso degli strumenti di comunicazione, indispensabili anche per velocizzare e rendere trasparenti le pubbliche amministrazioni, a come rendere meno soli coloro che vivono nei piccoli paesi montani e collinari. A partire da qui, pensare per loro ad una offerta formativa articolata da svolgere utilizzando la struttura fisica più decentrata che abbiamo: le scuole.

 

* Segretaria generale CGIL Torino e Piemonte

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