Il futuro della crescita americana secondo Robert J. Gordon

Stefania Jaconis riassume le tesi principali contenute nel monumentale volume di Robert J. Gordon, The Rise and Fall of American Growth, soffermandosi in particolare su quella che più ha attirato attenzione: un futuro di crescita economica debolissima o del tutto assente negli Stati Uniti. Jaconis elenca i fattori sui quali si basa il pessimismo di Gordon - principalmente, ma non soltanto, la debole spinta propulsiva della cosiddetta Terza Rivoluzione tecnologica – e considera il loro carattere di novità rispetto al passato.

La futurologia, di solito, la fanno gli ottimisti. Soprattutto quando si parla di progresso tecnico, e degli incrementi di produttività che ne conseguono. L’importante libro di Robert J. Gordon, The Rise and Fall of American Growth (Princeton University Press, 2016)  getta molta acqua sul fuoco che arde negli animi dei ‘tecno ottimisti’, di quelli che vedono la nostra civiltà, di cui l’economia statunitense è per molti aspetti l’epitome, proiettata verso un futuro di crescita inarrestabile, seppure con i limiti posti dalla variabilità dei cicli.

Le domande avanzate da Gordon sono di quelle che possiamo considerare epocali, nel senso più ampio del termine, e, in oltre 800 pagine di trattazione, l’autore riesce a dare risposte a quasi tutti gli interrogativi proposti: a iniziare da quello, fondamentale, del perché il mondo si sia improvvisamente ‘risvegliato’, intorno al 1750, dopo circa due millenni di crescita pressoché nulla. Schumpeterianamente, l’economista focalizza la sua attenzione sul fattore innovazione, e ripercorre i modi in cui questa ha subito una notevolissima accelerazione nel periodo 1870-1970, secolo unico per l’importanza delle sue ‘transizioni’, ma ancor più per la velocità con cui sono state realizzate. Convinzione dell’autore è che il reddito reale pro capite sia un indicatore che sottovaluta in misura cospicua l’andamento del tenore di vita, che maggiormente sta a cuore a Gordon, il quale per quantificarlo si basa sulla teoria beckeriana dell’allocazione del tempo: per misurare l’evoluzione del benessere delle famiglie egli considera dunque la produzione domestica, il valore del tempo libero, la ‘spiacevolezza’ decrescente del lavoro (in ogni caso, l’analisi è condotta tutta in termini di flussi, e quindi si evita l’annoso problema della disparità tra la crescita della ricchezza e quella del capitale produttivo; anche il capitale umano è lasciato fuori dell’indagine.)

Il risultato dell’imponente ricerca, condotta su queste premesse, è un’affascinante cavalcata su una prateria costellata dalle innovazioni che hanno maggiormente contribuito a rendere migliore (o, in ogni caso, più ‘facile’) la vita del consumatore medio americano, e più agevole il suo passaggio da abitante di un mondo rurale ‘quasi medievale’ a membro di una società urbanizzata e dotata di abitazioni con acqua corrente e servizi sanitari. Le innovazioni che hanno influito maggiormente sul tenore di vita, sostiene Gordon, sono probabilmente l’accesso alla luce e all’energia elettrica e l’invenzione del motore a combustione interna – alla base, quest’ultimo, del processo di motorizzazione di massa della popolazione. Le Grandi Invenzioni realizzate dall’inizio del secolo d’oro di cui sopra stanno dunque dietro il Grande Balzo in Avanti (maiuscole non mie) conosciuto dalla produttività americana nel periodo 1930-1950, fondamentalmente a causa prima della legislazione sul lavoro introdotta con il New Deal e poi dell’immissione di capitale reale nel sistema richiesta dallo sforzo bellico.

Se è vero, come sostiene l’autore del volume, che tutte le fonti di crescita possono essere ricondotte al ruolo dell’innovazione e del progresso tecnico, la Seconda Rivoluzione Industriale (che ha inizio intorno al 1870) si rivela essere più importante della Terza, quella che caratterizza l’epoca attuale. A dimostrazione di ciò, Gordon cita la bassa dinamica della produttività che si registra in tutto il mondo occidentale a partire dagli anni intorno al 1970. Infatti la Terza Rivoluzione, che fa perno sulla dimensione informatica, raggiunge risultati quasi esclusivamente nei settori della comunicazione e della tecnologia delle informazioni (ci sentiamo qui di aggiungere un settore che il libro tende a trascurare, cioè quello delle biotecnologie, le cui invenzioni hanno una rilevanza diretta, anche se difficilmente quantificabile, sulla qualità della vita delle persone).  Ma torniamo un attimo indietro. Il periodo 1920-1970 – che in qualche modo si avvantaggia ancora delle innovazioni rivoluzionarie dei decenni precedenti –è sicuramente quello che vede il trionfo del modello americano, soprattutto per quanto riguarda la capacità innovativa, ed è quello in cui maggiore è il gap produttivo con l’Europa. Sono, per gli Stati Uniti, gli anni in cui aumentano a ritmi più serrati sia il tenore di vita che la produttività del lavoro e la produttività totale dei fattori.

Che cosa succede dopo il 1970? Si tratta, come sappiamo, della fine di quelli che i regolazionisti francesi definiscono i ‘30 anni gloriosi’, periodo ampiamente indagato in relazione a un modello, quello europeo, che certamente si caratterizza per una diversa dialettica del rapporto stato-economia, e per un peso differente attribuito alle politiche di welfare. Il ‘modello americano’ invece, secondo Gordon, resta fondamentalmente basato sul capitalista-innovatore di stampo schumpeteriano e, poggiando sul ruolo essenziale di questa figura, vede condizionato da essa anche il suo destino per quanto riguarda la crescita. ‘La cadenza temporale del flusso di innovazioni prima e dopo il 1970, afferma Gordon (p.642), è la causa fondamentale dell’ascesa e della caduta della crescita americana.’ A partire dalla fine degli anni ’70 invece si riduce la dinamica dell’innovazione, che per di più si concretizza in invenzioni e progetti di minore portata e impatto  (fa eccezione il decennio ‘felice’ 1994-2004, gli anni clou della Terza Rivoluzione Industriale, ma i successi che hanno caratterizzato questo breve periodo – rapportabili in gran parte agli avanzamenti dell’informatica – non sono purtroppo destinati a ripetersi).

C’è però un altro elemento di cui tener conto per valutare la fine del ‘secolo d’oro’, e cioè la disuguaglianza crescente del sistema, che fa sì che i frutti della (scarsa) attività di innovazione non vengano più suddivisi equamente tra la popolazione. Ciò accade a causa della progressiva riduzione del peso dei sindacati, dell’aumento del commercio estero, dell’afflusso di immigranti, dell’automazione, dell’erosione del salario minimo. Poichè i salari reali non sopravanzano più gli incrementi di produttività, la quota del lavoro sul reddito tende a ridursi, al contrario di quanto accaduto nei primi decenni del XX secolo. Il basso dinamismo dell’economia americana poggia dunque su una situazione che vede incrementi di reddito crescenti per le fasce al top, e una situazione di stagnazione per il 90% della popolazione. Tali fenomeni si sono accentuati negli ultimi anni, con l’avanzare della finanziarizzazione del sistema e, probabilmente, con l’implodere della crisi, una parola, questa, che il nostro riesce a evitare in tutto il suo corposo libro…

Le previsioni di Gordon per il prossimo futuro sono, come ci si poteva aspettare, improntate a pessimismo. Un pessimismo che riguarda l’evoluzione immaginabile nel prossimo quarto di secolo delle principali grandezze analizzate nel testo: tasso di innovazione, produttività dei fattori e, in conclusione, tenore di vita. A far sì che i nostri figli e nipoti vivranno meno confortevolmente e con più incertezza dei loro avi contribuiscono infatti i ‘venti contrari’ che spirano sulla brezza affievolita della crescita americana: la disparità reddituale crescente, la situazione demografica, l’apporto minore dell’istruzione e l’evoluzione prevedibile della dinamica del debito pubblico.Tutto ciò fa sì che non vi siano praticamente margini, nei prossimi 25 anni, per una crescita del reddito disponibile pro capite. Infatti la dinamica negativa del progresso tecnico (con innovazioni non più ‘fondamentali’ come quelle dei due secoli scorsi) si cumulerà con le politiche fiscali richieste dall’onere del debito. L’attenzione agli aspetti distributivi riemerge con vigore nelle proposte di policy avanzate nel libro, tra le quali possiamo citare: aumento del salario minimo, ampliamento del credito fiscale sui redditi da lavoro, aliquote speciali per i ‘super-ricchi’, aumento dell’imposizione sui dividenti e sul capital gain.

Serviranno, queste ed altre misure, a mantenere soddisfacente il tenore di vita della famiglia americana mediana? E, soprattutto, a cancellare quei ‘segni di decadimento sociale che si riscontrano ovunque nell’America dell’inizio del ventunesimo secolo’ (p.608)? Questo è l’unico interrogativo al quale il libro non offre una risposta precisa.

Potendo scegliere, vogliamo chiudere su una nota meno negativa (che, non a caso, si riferisce al passato…): nelle parole dello stesso Gordon (p.641), ‘Quello che è notevole dell’esperienza americana non è che la crescita stia decelerando, ma che sia stata così rapida per così tanto tempo, e che gli Stati Uniti abbiamo mantenuto una leadership di produttività sui principali paesi europei sin dalla fine del XIX secolo.’

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