Il fisco e le disuguaglianze: a proposito di un recente libro di Saez e Zucman (seconda parte)

Ruggero Paladini continua la sua analisi del recente libro (The Triumph of Injustice) di Saez e Zucman esaminando le proposte di riforma fiscale avanzate dai due autori per il sistema statunitense: l’introduzione di un’imposta personale sui grandi patrimoni e di una nuova imposta su tutti i redditi per finanziare un sistema sanitario pubblico; la revisione della progressività dell’imposta sui redditi e la previsione di un credito di imposta sui dividendi. Paladini valuta pregi, limiti e realizzabilità di queste proposte e ne suggerisce la rilevanza per l’Europa.

Nella prima parte di questo articolo, pubblicata sullo scorso numero del Menabò, ho illustrato le principali ragioni a favore di un fisco contro le disuguaglianze sostenute da Saez e Zucman in The Triumph of Injustice. How the Rich Dodge Taxes and How to Make Them Pay, Norton & Company, 2019. In questa seconda parte esaminerò le loro proposte in tema di tassazione.

La maggiore novità è, forse, l’introduzione di un’imposta su tutti i redditi (chiamata National Income Tax) da cui dovrebbe provenire oltre la metà dei 2.000 miliardi di dollari (9,8% del PIL) di maggior gettito che i due autori si attendono dalle loro proposte. Si tratta di un prelievo con un’aliquota fissa al 6% su tutti i redditi da lavoro e da capitale, cioè sul valore aggiunto. Una vera“flat tax” che non sostituisce l’imposta progressiva sul reddito (resa, anzi, più progressiva) e che dovrebbe finanziare un’assicurazione sanitaria universale e una maggiore spesa per l’istruzione, dall’asilo all’università.

Il prelievo sui salari viene effettuato dai datori di lavoro, che pagano sia sui loro utili che sugli interessi passivi (che fanno parte del valore aggiunto); l’unica deduzione ammessa riguarda gli ammortamenti. La National Income Tax appare del tutto simile al “Contributo per il welfare” proposto da Vincenzo Visco (“Promemoria per una riforma fiscale”, Politica Economica, n. 1, 2019), e di cui si è occupato Di Nicola sul Menabò, per finanziare le pensioni; la differenza sta nel fatto che Visco include gli ammortamenti nell’imponibile. La logica delle due proposte è la stessa: per finanziare adeguatamente la spesa sociale – e, nel caso degli USA, per realizzare una sanità pubblica – le risorse devono essere prelevate su tutto il valore aggiunto, non solo sulle retribuzioni dei lavoratori.

La seconda novità è l’imposta personale sui grandi patrimoni, che divide i candidati democratici alle elezioni presidenziali: è sostenuta da Warren (e, in forma anche più aggressiva, da Sanders) e avversata da Biden. Nella versione di Saez e Zucman essa consiste in un prelievo del 2% se i patrimoni eccedono i 50 milioni e del 3,5% se eccedono il miliardo. Il gettito è stimato in 250 miliardi di dollari (1,2% del PIL).

Si propone, poi, la revisione della progressività dell’imposta personale portando l’aliquota marginale più elevata al 60% (gettito atteso: 350 miliardi, 1,7% del PIL), e la tassazione dei dividendi e degli incrementi di valore patrimoniale come qualsiasi altro reddito da lavoro.

Infine, la corporate tax sale dal 21% al 30% e si introduce una aliquota minima del 25% sui profitti esteri delle società, per un gettito previsto di 250 miliardi (1,2% del PIL).

I 2000 miliardi di gettito aggiuntivo previsto sarebbero così destinati: 460 per eliminare le imposte indirette sulle vendite (sales taxes, che negli USA, a differenza dell’IVA europea, colpiscono consumi e investimenti) e le tariffe di Trump; 300 per finanziare le scuole pubbliche e le università per migliorare la formazione giovanile e aumentare il numero di iscrizioni all’università; 1.200 per finanziare un’assicurazione generale sulla salute, con una spesa di 8.000 dollari a testa per tutti, si usufruisca o meno già di assicurazione (30 milioni ne sono privi).

Parafrasando Keynes possiamo chiederci: can Saez and Zucman do it? O meglio: potrebbe un eventuale presidente democratico attuare il programma dei due studiosi francesi, i quali, come recita il sottotitolo del libro, vogliono spiegare non“come i ricchi evitano le imposte” ma soprattutto“come fargliele pagare”? I capitoli centrali del libro sono dedicati a tre questioni fondamentali, sotto questo aspetto: i paradisi fiscali, l’industria dell’elusione fiscale, e le società della rete (Google, Facebook ecc..).

I paradisi fiscali – nati ai primi del 900, quando le imposte in Europa e nei paesi anglosassoni hanno cominciato a crescere – si caratterizzano per livelli bassi, o nulli, d’imposizione e per il segreto bancario sul quale di recente sono stati fatti progressi, grazie alla vigorosa azione di Obama (FATCA: Foreigh Account Tax Compliance Act) e, sulla sua scia, della Commissione Europea.

Naturalmente, casi come quello dell’Irlanda sono diversi da Bermuland, come i due autori chiamano le decine di paesi dove in un solo edificio hanno sede centinaia di società (sul web è disponibile l’elenco aggiornato dei paradisi fiscali, anche di quelli che hanno accettato lo scambio d’informazioni, ma in cui permangono prelievi fiscali molto ridotti). L’Irlanda ha un’aliquota molto bassa (12,5%) sui redditi delle società, una forza lavoro istruita e di lingua inglese: tutte caratteristiche che la rendono attraente come sede di uffici e stabilimenti. Tuttavia, anche le società residenti fiscalmente in Irlanda realizzano all’estero buona parte dei propri profitti.

Ad esempio, Apple ha negozi in tutte le città del mondo, ma il venditore risulta sempre Apple Distribution Ireland. Inoltre, in seguito ad un accordo con il governo irlandese l’aliquota per Apple è scesa dall’1% nel 2003 allo 0,005% nel 2014. La commissaria europea Margrethe Vestager ha sanzionato la società in quanto il quasi azzeramento dell’imposta non era di applicazione generale e quindi si configurava come aiuto di Stato. Significativamente, contro tale decisione ha presentato ricorso non solo Apple, ma anche il governo irlandese, mostrandosi disposto a rinunziare ad incassare 13 miliardi di euro pur di conservare il diritto di praticare sconti illimitati a chi investe in Irlanda.

La causa di tutto ciò è la concorrenza fiscale, intensificatasi di recente. Le aliquote sulle società sono diminuite dappertutto e, inoltre, gli utili derivanti da brevetti o patenti sono stati progressivamente detassati (Patent Box). In Europa ha iniziato, nel 2007, l’Olanda e altri paesi l’hanno imitata – l’Italia lo ha fatto nel 2017.

A livello internazionale (FMI, OECD, CE), la concorrenza fiscale è ancora vista con favore in base alla tesi, tipica della Public Choice, che essa – costringendo i governi a tassare meno, soprattutto il capitale – frenerebbe la spesa pubblica, resa eccessiva dalla “dittatura della maggioranza”.

Per invertire questo processo è necessario passare dalla concorrenza alla cooperazione; al riguardo, Saez e Zucman propongono una tassazione minima al 25%, comune, inizialmente, ai paesi anglosassoni, l’Europa ed il Giappone. In prospettiva, l’obiettivo dovrebbe essere l’adozione, a livello internazionale, dell’apportionment taxation, cioè del sistema, utilizzato negli USA, per ripartire le imposte prelevate su società che hanno sedi in diversi Stati. Si tratta di una prospettiva di non immediata realizzazione, ma il suggerimento alle forze progressiste è di farla propria.

Le proposte di Saez e Zucman in tema d’imposte dirette, sia personali che societarie, potrebbero, però, essere adottate in tempi brevi. Una di esse prevede di affiancare all’aumento delle aliquote, un credito d’imposta sui dividendi che, peraltro, fino ad una ventina di anni fa era diffuso nei paesi europei. Va ricordato che negli USA l’imposta sui profitti della società è separata da quella sui redditi dei soci: la prima riduce i profitti netti. mentre la parte di questi ultimi distribuita come dividendi si somma agli altri redditi personali dei soci e viene colpita con l’ appropriata aliquota marginale. Vi è quindi una doppia tassazione dei dividendi. Prima della riforma di Trump la corporate tax riduceva l’utile societario da 100 a 65 e sui dividendi la massima aliquota marginale era del 39,6%; dunque, il peso fiscale complessivo sui profitti poteva arrivare al 60,74% (35 di corporate tax e 25,74 di imposta personale). Poiché sugli incrementi di valore patrimoniale l’aliquota è del 20% si comprende la preferenza degli azionisti per essere remunerati con quegli incrementi anziché con i dividendi – e tale preferenza permane anche dopo che la riforma di Trump (corporate tax al 21% e aliquota massima al 37%) ha ridotto quel 60,74% al 50,23%.

La ragionevole proposta di Saez e Zucman è di introdurre il credito d’imposta sui dividendi, in modo che l’imposta societaria, riportata al 30%, costituisca un acconto sull’imposta personale; al contempo, gli incrementi di valore sono soggetti all’imposta personale come qualunque altro reddito. In tal modo i percettori di redditi più elevati sarebbero tassati sui profitti con la propria aliquota marginale, che al top arriverebbe al 60%. Lo stesso varrebbe per gli incrementi di valore.

Si potrebbe obiettare che in tal modo permarrebbe la doppia tassazione degli incrementi di valore. Ma così non è: nel caso dei dividendi la società ha già realizzato profitti; nel caso degli incrementi di valore le azioni salgono per l’attesa di maggiori futuri profitti, che non è detto si avvererà. Piuttosto, la coerenza del sistema implica che anche le minusvalenze, se realizzate, entrino, col segno negativo, nel reddito personale dell’azionista; plausibilmente con qualche forma di limitazione, per non incentivare comportamenti speculativi.

Le proposte (imposta sulla ricchezza, tassazione progressiva del reddito e imposta societaria nonché national income tax anche sui redditi da capitale) non rischiano di provocare, da parte di più ricchi, reazioni che possono vanificare l’obiettivo di un maggior gettito pari a oltre tre punti di PIL? Qui entriamo nel campo della distributional tax reform, cioè dell’impatto effettivo delle riforme tenendo conto delle reazioni dei vari soggetti.

Le reazioni dei super-ricchi alla proposta di tassare di più la ricchezza non appaiono tranquillizzanti. Ad esempio, Jemie Dimon, CEO di JPMorgan Chase, ha dichiarato che l’imposta sulla ricchezza avrebbe gravi effetti negativi e, detto da lui, ciò non sorprende. Forse sorprende di più la reazione di Bill Gates – noto per essere a favore di imposte progressive e per la sua filantropia – il quale, commentando la proposta della Warren il 7 novembre scorso, ha affermato: “io sono assolutamente per sistemi tributari super-progressivi, ho pagato oltre 10 miliardi di imposte, più di ogni altro. Se dovessi pagare 20 miliardi, d’accordo. Ma quando mi si dice che dovrei pagare 100 miliardi, allora incomincio a fare un po’ di calcoli per capire cosa mi rimarrebbe. Scusate, sto scherzando”. Ora la cosa interessante è che anche con il raddoppio di aliquota proposto dalla Warren (dal 3 al 6% per patrimoni superiori al miliardo), l’imposta sulla ricchezza di Gates (stimata a 106 miliardi) passerebbe da 3,34 a 6,49 miliardi, comunque meno dei 10 miliardi in più che egli si dichiara pronto a pagare. La reazione istintiva di Bill Gates fa riflettere perché non sembra diversa da quella tipica di un ricco che, sentendo parlare di imposta sul patrimonio, pensa: mi vogliono portare via tutto.

Saez e Zucman, però, sono ottimisti e credono che un’amministrazione efficiente e determinata, con misure come il FATCA, possa limitare in modo significativo i possibili effetti negativi, in particolare le fughe all’estero (E. Saez, G. Zucman, “Progressive Wealth Taxation”, Brookings Paper on Economic Activity, Conference Drafts, September 5–6, 2019). L’imposta sulle grandi ricchezze colpirebbe solo il 10% del totale; l’effetto più probabile sarebbe l’addensamento dei patrimoni sotto i 50 milioni, cioè il limite di esenzione dalla imposta. Negli USA si è tenuti a pagare le imposte anche se si risiede all’estero (e ciò vale per chi ha il permesso di soggiorno,); nel caso in cui si volesse rinunciare alla cittadinanza statunitense, si sarebbe sottoposti ad una imposta per l’espatrio (expatriation tax, più nota come exit tax). Attualmente l’imposta riguarda i patrimoni superiori ai due milioni e si applica su tutti gli incrementi patrimoniali realizzati; Elizabeth Warren ha proposto di applicarla su tutta la ricchezza con aliquota al 40%.

In conclusione, The Triumph of Injustice, anche se scritto da due accademici – che hanno avuto la cura di rendere accessibili tutti i dati e le assunzioni in una appendice on line al volume – è un libro di impegno politico, a favore soprattutto di due candidati alle primarie dei democratici: Sanders e Warren. I loro messaggi principali sono: la distribuzione di mercato del reddito, negli USA, è peggiorata negli ultimi 40 anni; l’intervento pubblico, soprattutto dal lato del prelievo fiscale, non ha più l’efficacia redistributiva che ha avuto nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale; è possibile invertire la tendenza, accentuando fortemente la progressività del sistema – e ciò anche per reperire le risorse necessarie a finanziare un sistema sanitario pubblico.

Questi messaggi poggiano su una base solida di dati; l’unica debolezza, come si è detto nella prima parte di questo articolo, sta nel non aver tenuto conto delle due detrazioni d’imposta concentrate sui redditi bassi e medi. Ma questa mancanza non inficia la sostanza delle argomentazioni di Saez e Zucman. Ovviamente, nessuno può nascondersi che, almeno nel breve, la strada indicata da Saez e Zucman è piena di ostacoli che potrebbero indurre il candidato democratico alla presidenza, anche se di sinistra, a deviare in qualche misura da essa. Inoltre, non va dimenticato il rischio che l’imposta sulla ricchezza venga bocciata da (questa) Corte Suprema.

Ma i temi sollevati dai due autori ormai sono parte del dibattito politico e ci resteranno a lungo, anche perché non riguardano solo gli USA. Rivolgendoci all’Europa, potremmo dirle, con Orazio, de te fabula narratur.

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