Il fisco e le disuguaglianze: a proposito di un recente libro di Saez e Zucman (prima parte)

Ruggero Paladini nella prima parte di un contributo che proseguirà nel prossimo Menabò si occupa del recente libro di Saez e Zucman, concentrandosi sulla tesi secondo cui negli scorsi decenni in USA all’1% più ricco sarebbe andata un quota crescente non solo del reddito lordo ma anche di quello al netto delle tasse. Quest’ultima tesi è al centro di accesi dibattiti e di recente ha attirato anche l’attenzione dell’Economist. Paladini illustra i problemi da affrontare, tra cui quello della determinazione dell’incidenza delle imposte, e fornisce una valutazione articolata della tesi di Saez e Zucman.

Alcuni anni fa Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi al mondo, ebbe a dichiarare che considerava ingiusto pagare, in proporzione al reddito, meno imposte di Debbie Bosanek, la sua segretaria. Che i ‘ricchi‘ paghino proporzionalmente meno tasse dei ‘poveri’ negli Stati Uniti può accadere perché le aliquote delle imposte sul reddito delle persone fisiche (income tax) sono progressive (fino al 39,6%) mentre gli incrementi di valore patrimoniale (capital gains) sono sottoposti ad un’aliquota fissa del 20%. Vari istituti di ricerca, confrontando redditi bassi e (molto) alti, hanno concluso che l’affermazione di Buffett non può essere generalizzata. Ma la questione dei ricchi che pagano proporzionalmente meno dei ‘poveri’ è tornata all’attenzione generale con la pubblicazione del libro di Emmanuel Saez e Gabriel Zucman (The Triumph of Injustice. How the Rich Dodge Taxes and How to Make Them Pay,Norton & Company, 2019) nel quale si sostiene che nel 2018 l’incidenza fiscale, cioè il rapporto tra imposte pagate e reddito, sui 400 statunitensi più ricchi è stata inferiore a quella gravante sul 50% più povero della popolazione.

La questione è rilevante anche per stabilire se la quota di reddito al netto delle tasse appropriato dall’1% più ricco è cresciuta nel corso degli ultimi decenni. La questione è anche al centro di un briefing (Economists are rethinking the numbers on inequality) appena pubblicato dall’Economist (e comparso quando questo articolo era già stato scritto) nel quale si contrappongono i risultati cui pervengono G. Auten e D. Splinter (“Top 1 Percent Income Shares: Comparing Estimates Using Tax Data”, American Economic Review P&P, May 2019) con quelli di Saez e Zucman, riferiti anche a un lavoro con Piketty di cui si dirà più avanti. La contrapposizione riguarda soprattutto un punto specifico e cioè se la quota di reddito al netto delle tasse appropriata in USA dall’1% più ricco sia cresciuta (come sostengono Piketty, Saez e Zucman) o rimasta sostanzialmente costante (come sostengono Auten e Splinter) rispetto agli anni ’60. Non è, invece, in discussione l’aumento in termini di reddito lordo. Sulla questione specifica si ritornerà. Ora procediamo con l’esame delle tesi contenute nel libro di Saez e Zucman, che sarà utile anche per valutare meglio il briefing dell’Economist.

Come mostra il grafico, secondo i due autori il sorpasso sarebbe avvenuto nel corso degli ultimi tre anni grazie alla diminuzione dell’incidenza media sui 400 più ricchi. E’ importante soffermarsi su questi dati nonché su altri aspetti interessanti del libro di Saez e Zucman. Lo faremo in questo articolo e nella sua continuazione che sarà pubblicata sul prossimo numero del Menabò.

Sui dati forniti da Saez e Zucman si è sviluppata un’accesa polemica nel corso della quale si è giunti ad accusare i due autori di averli manipolati a fini partigiani (è noto il loro impegno al fianco di Elizabeth Warren, per la quale hanno elaborato la proposta di tassazione delle grandi ricchezze). In particolare è stato richiamato un lavoro, dello scorso anno, degli stessi due autori con Piketty (T.Piketty, E. Saez, G. Zucman, “Distributional National Accounts: Methods and Estimates for the United States”, Quarterly Journal of Economics 133, n. 1, 2018,) dal quale risulta che l’incidenza fiscale sui redditieri più ricchi è lievemente decrescente e non nettamente decrescente come invece si sostiene nel libro.

Il grafico che segue (tratto da P. W. Magness, “The Big Fib about the Rich and Taxes”, American Institute for Economic Research, ott.17, 2019) mostra la differenza nei due andamenti. La prima ragione di tale differenza è questa: il grafico di Piketty, Saez e Zucman (2018, in blu), tratto dall’appendice on line, riguarda 2.344 redditieri al top, mentre quello di Saez e Zucman (2019, in rosso) considera soltanto 400 redditieri (il top del top). I redditi di questi ultimi derivano esclusivamente da guadagni di capitale, gli altri percepiscono anche alte remunerazioni da lavoro, per conseguenza, come risulta dal grafico 1.2 (p. 15) del libro di Saez e Zucman, per i 2.344 redditieri l’incidenza risulta più alta. Inoltre, il grafico di Magness si ferma al 2014, quindi prima dei tagli d’imposta a favore dei ricchi effettuata da Trump, mentre i due autori francesi si riferiscono ai dati fiscali del 2018.

Ma la differenza tra i due andamenti ha un’altra e più importante spiegazione. Si tratta delle ipotesi sull’incidenza effettiva delle imposte che nel libro sono diverse rispetto a quelle formulate nell’articolo. Saez e Zucman si sono soffermati sulla questione in un altro loro recente lavoro (E. Saez, G. Zucman, “Clarifying Distributional Tax Incidence: Who Pays Current Taxes vs. Tax Reform Analysis”, UC Berkeley Working Paper 2019)

Per cogliere l’importanza del tema occorre ricordare i classici manuali di Scienza delle Finanze (a differenza di quelli odierni) dedicavano ampio spazio all’esame di chi sopportasse effettivamente il peso delle imposte, distinguendo tra contribuente percosso (chi è tenuto legalmente a pagare una certa imposta) e contribuente inciso (chi effettivamente paga l’imposta in seguito al processo di traslazione). In particolare, le imposte più studiate sono state quelle sui profitti. In genere, si assume un’economia in concorrenza, con funzioni di produzione con elasticità di sostituzione costante tra capitale e lavoro (funzioni CES, se non Cobb-Douglas con elasticità uguale a 1). Sulla base dei risultati di tali studi, istituti di ricerca pubblici e privati stimano come si distribuisce il peso delle imposte. Così, ad esempio, nel caso dell’imposta sulle società (corporate tax, in Italia, l’Ires), s’ipotizza che attraverso le scelte di portafoglio degli investitori tenda ad eguagliarsi il rendimento netto sulle varie modalità di detenzione della ricchezza: azioni, obbligazioni, imprese individuali (o società di persone) o immobili, anche di tipo residenziale, compresa la casa di abitazione. Ciò significa che l’imposta societaria colpisce in prima battuta le società e quindi inizialmente riduce il rendimento delle azioni, ma successivamente farà cadere anche quello delle obbligazioni e via via tutti gli altri, fino agli immobili. Si assume, inoltre, che la riduzione degli investimenti finisca per colpire anche i salari. Di conseguenza un’ipotesi adottata da molti istituti di ricerca è che l’imposta societaria incida non solo su tutti i rendimenti del capitale, ma anche sui salari e la misura di questa incidenza sarebbe il 25%. Pertanto, ogni anno sui salari gravano non solo i contributi sociali e le imposte sul reddito, ma anche una quota dell’imposta sulle società.

Piketty, Saez e Zucman (2018) suppongono che solo il 45% della corporate tax ricada sugli azionisti, mentre il 40% colpisca i titoli obbligazionari (cioè i loro detentori, spesso tramite fondi) e il 15% gravi sulle imprese non corporate; essi escludono (ragionevolmente direi) che l’imposta ricada sui proprietari di abitazioni o sui salari.

Tuttavia nel citato paper del 2019, Saez e Zucman – e anche nel libro – formulano un’ipotesi diversa basata sul presupposto che momento in cui si fotografa la distribuzione delle imposte in un dato anno, si calcolano le imposte a carico di chi è tenuto a pagarle: le imposte sul reddito sui lavoratori, dipendenti o autonomi, la corporate tax sui (soli) azionisti, le imposte immobiliari sui proprietari e così via. L’eccezione è costituita dai contributi sociali (payroll taxes), che vengono attribuiti ai lavoratori, anche se metà di essi sono a carico dei datori di lavoro; si tratta di un’ipotesi abbastanza plausibile, che è generalmente adottata ovunque, e basata sull’ipotesi che la domanda di lavoro sia molto più elastica dell’offerta. I dati relativi sono definiti current distributional tax tables. A questo punto, nel momento in cui vengono formulate delle proposte di riforma fiscale, si ipotizzano effetti di traslazione su profitti e salari con modifiche delle quote distributive e quindi sulle nuove tavole d’incidenza. Queste nuove tavole sono le distributional tax reform tables.

Personalmente trovo convincente questo modo di vedere il tema dell’incidenza; si possono fare ipotesi su cosa succeda se si aumenta un’imposta o se ne diminuisce un’altra, ma in un dato anno è più logico attribuire le imposte sui salari ai lavoratori, quelle sul reddito societario sugli azionisti, e così via. L’implicazione però nel nostro caso è rilevante e spiega in buona misura lo spostamento dalla curva in blu a quella in rosso del grafico II. Infatti, la diminuzione dell’aliquota dell’imposta societaria, che è passata da oltre il 50% degli anni sessanta al 21% con la riforma Trump, viene ora attribuita ai possessori di azioni, e più azioni si hanno maggiore sarà la riduzione del peso fiscale. Dunque, i principali avvantaggiati saranno soprattutto i famosi 400 miliardari.

Saez e Zucman nel libro concentrano la loro attenzione sul sistema fiscale e non considerano la spesa pubblica (a parte la componente pubblica della spesa pensionistica). Anche questo punto è stato oggetto di discussione. Infatti, i due autori sono stati criticati per non aver considerato due sistemi di detrazione d’imposta nell’ambito dell’Income Tax: l’Earned Income Tax Credit (EITC) e il Child Credit. L’EITC concentra le detrazioni sui redditi da lavoro dipendente bassi ma, con un sistema a scalare, interessa anche quelli medi, e, qualora il contribuente non sia capiente, la detrazione si trasforma in un sussidio (refundable). Il Child Credit (che riguarda tutti i contribuenti) estende la detrazione ad oltre il 90% dei genitori di figli minorenni, sempre con un sistema a scalare; in precedenza non era refundable (non era previsto rimborso per gli incapienti), ma nel 2018 è stata introdotta anche una forma parziale di trasferimento monetario. Nell’insieme si tratta di circa lo 0,7% del PIL statunitense, che riduce l’imposta netta per le classi basse e medie. I due autori non hanno considerato queste due detrazioni fiscali considerandole parte della spesa, a causa della parte refundable del credito. Si tratta a mio avviso di una scelta debole, che li espone alla critica di aver fatto una scelta per ragioni “politiche”, allo scopo di mostrare che nel 2018 si era avverata l’affermazione di Buffett.

Forse, considerando EITC e CC come riduzione del prelievo fiscale, l’affermazione dei due autori francesi, che cioè i 400 più ricchi negli USA hanno un’incidenza più bassa della metà dei contribuenti più poveri, andrebbe rivista; tuttavia, la variazione sarebbe solo per pochi decimali. La tabella che segue, opera di S. Wamhoff per lInstitute on Taxation and Economic Policy mostra quanto poco crescerebbe l’incidenza, tenendo conto di quelle detrazioni. Va ricordato che l’1% dei redditieri più ricchi sono oltre due milioni, e tra questi predominano i redditi da attività professionali, quindi tassati con l’aliquota progressiva, mentre i 400 ricevono solo incrementi di valore patrimoniale. Lo stesso Wamhoff considera compatibili questi dati con quelli di Saez e Zucman.

Una conclusione che si può trarre da tutto ciò è che certamente la politica fiscale non ha contribuito molto a contrastare le disuguaglianze. All’inizio del loro libro Saez e Zucman (grafico 1.1 p. 7) descrivono l’andamento della distribuzione dei redditi negli Stati Uniti mettendo a confronto la quota di reddito del 50% più povero con quella del top 1% nel periodo 1978-2018 e mostrando che la prima è crollata, passando dal 20% a 12%, mentre la seconda, quella del top 1%, è cresciuta dall’11% a 21%, in pratica un capovolgimento delle due quote. Il peggioramento che ha inizio con gli anni ottanta ha riguardato molti paesi avanzati, ma negli Stati Uniti è stato particolarmente marcato. Il libro di Piketty (Il capitale nel XXI secolo) aveva a suo tempo richiamato l’attenzione su questo fenomeno e, dal canto loto, Saez e Zucman, sostengono che lo strumento fiscale deve essere usato per contrastare con forza la crescita della diseguaglianza, così com’era avvenuto nei decenni precedenti.

Una tabella (Tabella 9.2 p. 191) sintetizza le loro proposte: riforma in aumento delle imposte federali sul reddito individuale e societario, introduzione di un’imposta sui grandi patrimoni, introduzione di un’imposta su tutti i redditi, definita national income tax. Nel prossimo numero del Menabò esaminerò in dettaglio queste proposte.

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