Il disegno di legge del Governo sul lavoro autonomo non imprenditoriale

Stefano Giubboni analizza i contenuti del disegno di legge governativo in materia di lavoro autonomo non imprenditoriale, ponendone in evidenza sia punti di forza anche i limiti. I primi risiedono essenzialmente nella scelta di introdurre una disciplina di base di generale applicazione; i secondi, nella totale assenza di previsioni su aspetti di grande rilievo, come quello del giusto compenso per il prestatore d’opera, e che sono dovuti proprio alla bassa “densità regolativa” implicata dall’impianto generalista della proposta legislativa.

1. L’esigenza di dotare i rapporti di lavoro autonomo, specialmente se connotati da una condizione di dipendenza economica da un committente dominante o solo prevalente, di uno statuto protettivo minimo, tanto sul piano contrattuale quanto su quello delle tutele previdenziali, non è certo nuova, né nel dibattito politico e sindacale italiano, né in quello europeo. Si tratta infatti d’una esigenza che ha cominciato ad essere avvertita già dai primi anni novanta, con il dibattito sulla “fuga dal lavoro subordinato” e sul più generale spiazzamento funzionale dei sistemi classici di tutela innescato dalla crescita – che si sarebbe bruscamente accelerata nel decennio successivo – delle forme contrattuali “atipiche”. Per molteplici ragioni, tuttavia, le proposte variamente avanzate negli anni – anche con organici disegni di legge d’iniziativa parlamentare – non hanno avuto fortuna, mentre, a partire dalla legge Biagi del 2003, ha preso forma quella singolare via italiana alla regolazione del lavoro autonomo “parasubordinato”, costituita dalla introduzione della disciplina del lavoro “a progetto”.

Il recente disegno legge del Governo AS 2233, in materia di lavoro autonomo non imprenditoriale (oltre che di cosiddetto smart work), ha ora l’ambizione di aprire una pagina nuova, consegnando definitivamente al passato l’esperienza (nel complesso negativa) del lavoro a progetto (già abrogato con l’art. 52 del decreto legislativo n. 81 del 2015), con l’introduzione di una prima forma di regolazione generale di questa essenziale componente del mercato del lavoro italiano. Il lavoro autonomo, in tutta la sua multiforme e complessa morfologia, entra infatti per la prima volta nell’agenda del legislatore in modo esplicito “in positivo”, come fondamentale fattore di dinamismo del mercato del lavoro e di sviluppo economico del Paese, in un’ottica che supera l’approccio di tipo prevalentemente negativo/repressivo, che ancora segnava la legge Fornero del 2012. Le politiche perseguite sino a oggi – in particolare con la legge Fornero, ma in realtà già a partire dalla legge Biagi – erano infatti prevalentemente indirizzate a contenere e reprimere le forme di utilizzo abusivo dei rapporti di lavoro autonomo, e in particole delle fattispecie di collaborazione coordinata e continuativa almeno formalmente senza vincolo di subordinazione, sull’assunto che esse fossero impiegate essenzialmente in funzione elusiva delle tutele contrattuali e previdenziali riservate al lavoro subordinato. La riconduzione delle collaborazioni coordinate e continuative previste dall’art. 409, n. 3, del codice di procedura civile al lavoro a progetto, e il progressivo irrigidimento del correlativo apparato presuntivo e sanzionatorio, si iscrivevano chiaramente in questa linea.

Oggi questa linea non viene peraltro del tutto abbandonata, visto che lo stesso Jobs Act (con una previsione assai discussa contenuta nell’art. 2 del citato decreto n. 81 del 2015) prevede l’estensione dell’intera disciplina del lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche quanto ai tempi e al luogo di lavoro. Il disegno di legge del Governo Renzi affianca, tuttavia, a questa linea più tradizionale di intervento (che oggi si situa peraltro all’interno di una complessiva riscrittura delle regole del lavoro subordinato all’insegna della flessibilità), una linea di regolazione e promozione del lavoro autonomo non imprenditoriale che mira a definire un’infrastruttura regolativa generale capace di dare per la prima volta nel nostro Paese un positivo riconoscimento normativo alle istanze provenienti dal mondo del lavoro autonomo globalmente considerato.

2. Il disegno di legge non delinea, per la verità, un organico statuto del lavoro autonomo, ma si presenta piuttosto come proposta di regolazione quadro, volta a introdurre alcune essenziali misure di tutela di carattere generale, comuni a tutti i rapporti di lavoro autonomo, con la sola esclusione dei piccoli imprenditori. Proprio perché volto a offrire una base generale di tutela a un universo di rapporti e di forme contrattuali assai diversificato (basti pensare alla classica linea di confine che corre tra professioni ordinistiche e attività professionali non regolamentate), esso non segue neppure l’esempio rinvenibile in altre esperienze europee, ma da tempo suggerito anche nel dibattito italiano, dove la regolazione è focalizzata sul lavoro autonomo economicamente dipendente.

Il primo nucleo di tali misure è costituito dalle tutele, già operanti nell’ordinamento nel contesto dei rapporti commerciali di subfornitura, contro forme che potremmo in senso lato definire di abuso di dipendenza economica e di asimmetria di potere contrattuale e di mercato nelle relazioni con le imprese committenti. L’estensione della disciplina sul ritardo nei pagamenti e la previsione relativa alle clausole abusive, come anche la stessa disposizione sulle invenzioni e la proprietà intellettuale del lavoratore autonomo, vanno in questa direzione e hanno lo scopo di rafforzare la posizione contrattuale di prestatore quale contraente debole, riducendo le asimmetrie di potere che si generano, a suo sfavore, nel mercato.

Un secondo gruppo di norme ha uno scopo collegato a questo obiettivo, ma più ampiamente rivolto a promuovere le opportunità di mercato dei lavoratori autonomi, in quanto è diretto a favorire – con diverse misure (tra le quali la deducibilità fiscale degli investimenti in formazione) – l’accrescimento e l’aggiornamento del bagaglio professionale e delle risorse di professionalità di tali prestatori (il loro principale asset competitivo), aprendo inoltre la possibilità di fruire dei servizi e di accedere alle informazioni necessarie per concorrere su un piano di parità agli appalti pubblici (previsione, quest’ultima, peraltro già in parte operante nell’ordinamento in virtù di recenti riforme).

Un terzo nucleo di disposizioni ha, infine, una ratio più spiccatamente lavoristica, in quanto attiene alle tutele di natura previdenziale (indennità di maternità, congedi parentali, tutela in caso di gravidanza, malattia e infortunio) e alle connesse garanzie sul piano del rapporto contrattuale. Questo nucleo di disposizioni ha un raggio applicativo tendenzialmente più limitato e per lo più ristretto ai lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata dell’INPS o titolari di rapporti caratterizzati dall’elemento della continuità e del coordinamento con l’impresa committente.

3. L’ambizione “generalista” del disegno di legge – che intende come detto abbracciare tutti i rapporti di lavoro autonomo non imprenditoriale, tendenzialmente senza distinzioni – costituisce una scelta in linea di principio senz’altro apprezzabile, ma comporta anche dei limiti, sui quali è opportuno svolgere qualche considerazione critica.

Un primo limite evidente è che il disegno di legge non affronta la questione, drammaticamente avvertita da larghe fasce di lavoro autonomo precarizzato e fortemente colpito dalla grande crisi, dei criteri per la determinazione di un compenso equo, sottratto alle pure logiche dei rapporti di forza nel mercato. Il tema della giustizia dello scambio contrattuale, con la fissazione di un principio di equo compenso, non sembra tuttavia poter essere eluso quantomeno per quelle categorie di lavoratori autonomi che agiscono in condizioni di maggiore debolezza sul mercato, in posizione di vera e propria dipendenza economica dal committente “monopsonistico” (non a caso, una norma con questa funzione era presente all’interno della disciplina, ora abrogata, del lavoro a progetto).

Un altro limite è dato dalla totale assenza, nel disegno di legge, di diritti di natura collettiva in favore dei lavoratori autonomi. Anche sotto tale profilo può aver sicuramente pesato la difficoltà di dettare una disciplina unitaria per forme di lavoro autonomo che possono essere in effetti molto diverse (da quella del free lance di nuova generazione alla figura dell’avvocato più o meno vecchio stile, ammesso che se ne possa ancora parlare in questi termini). Ma anche tenendo conto di tale aspetto, colpisce questa singolare forma di amnesia del legislatore per la dimensione collettiva della regolazione del lavoro autonomo, che pure è fenomeno tutt’altro che irrilevante nelle concrete dinamiche sociali.

Infine, è evidente la debolezza delle previsioni sulle tutele di carattere previdenziale, la parte certamente meno innovativa del disegno di legge. I rigidi vincoli di finanza pubblica hanno evidentemente condizionato le scelte del legislatore, che si muovono in una logica di razionalizzazione di tutele per lo più già previste nel sistema, con assai timide estensioni. La questione del riequilibrio e dell’adeguatezza della protezione sociale, in particolare per i lavoratori autonomi di nuova generazione e per gli iscritti alla gestione separata dell’INPS, oggi fortemente penalizzati da meccanismi perversi di solidarietà “alla rovescia”, rimane tuttavia un capitolo centrale del riassetto del sistema previdenziale italiano, che non potrà essere rinviato troppo a lungo.

Il disegno di legge del Governo lascia dunque irrisolti molti nodi, che forse non potevano essere realisticamente affrontati in questa sede, ma ha sicuramente il merito di tracciare una linea di primo riconoscimento di misure di tutela e di promozione del lavoro autonomo non imprenditoriale da molto tempo attese in Italia.

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