Il diritto-dovere alla formazione nel contratto a tutele crescenti: una proposta per contrastare la precarietà e rilanciare la produttività

Federico Nastasi e Fabrizio Patriarca muovono dalla diffusa opinione secondo cui il nuovo contratto ridurrà il precariato e che ciò avverrà grazie alla combinazione delle tutele crescenti con la riduzione del cuneo contributivo. Nastasi e Patriarca ritengono che per raggiungere questo scopo, e anche per sostenere la produttività, il nuovo contratto dovrebbe contenere previsioni innovative sulla formazione dei lavoratori dalla quale dipende sia il consolidarsi dei legami tra impresa e lavoratori sia la possibilità di attuare politiche industriali e formulano un’articolata proposta a questo riguardo

La riduzione del precariato e il rilancio della produttività del lavoro sono due dei problemi più urgenti del nostro mercato del lavoro. Dal contratto a tutele crescenti rinforzato dalla riduzione del cuneo fiscale – misure entrambe previste dal Jobs Act – ci si attende una riduzione delle forme di precariato poiché l’aspettativa è che esso regolerà la maggior parte dei nuovi rapporti di lavori. D’altro canto, nel corso del dibattito sulla Legge di Stabilità, diversi esponenti della maggioranza si sono soffermati sulla necessità di politiche strutturali a sostegno della produttività del lavoro che in Italia vive da lungo tempo una fase di lento declino.

Il raggiungimento di questi due obiettivi richiede, probabilmente, ulteriori misure disegnate tendendo conto del nuovo scenario che si viene delineando nel mercato del lavoro dopo il Jobs Act. E’ con questo obiettivo che avanziamo una proposta che riguarda l’accumulazione di capitale umano che può costituire, da un lato, uno strumento attivo di contrasto della precarietà, in grado di accrescere l’occupabilità di chi cerca lavoro e di rinforzare i legami tra impresa e lavoratore e, dall’altro, un vero e proprio strumento di politica industriale.

La proposta è di inserire quale elemento vincolante nel nuovo contratto il pilastro della formazione per associare alla crescita delle tutele, anche la crescita delle capacità effettive e potenziali del lavoratore che avrebbe l’effetto di accrescere il suo valore per l’impresa e, quindi, di rappresentare un fattore in grado di contribuire a disincentivare la rottura del rapporto tra lavoratore e impresa. Inoltre, l’investimento in capitale umano risponde alla necessità di favorire le politiche strutturali, che possono manifestare i loro effetti nel medio e lungo periodo e porre fine a un ventennio di erosione della capacità produttiva del paese. Ciò è coerente con le indicazioni contenute nell’ultimo rapporto della Commissione Europea ”Employment and Social Development in Europe” che individua come elementi cruciali per permettere ai paesi Europei di uscire dalla crisi, sia il rafforzamento della formazione continua sia, più in generale, l’aumento delle competenze e delle capacità dei lavoratori. Da un lato, gli investimenti in educazione e formazione sono riconosciuti come presupposti fondamentali per invertire il diffuso trend di declino della produttività e per accrescere – integrandosi con gli investimenti pubblici e privati in innovazione e nuove tecnologie – la competitività degli stati membri. Dall’altro, in tutta Europa, la crisi occupazionale si è scaricata in misura nettamente maggiore sui lavoratori meno istruiti e, inoltre, la partecipazione a percorsi formativi costituisce la forma più efficace di politica attiva per contrastare la disoccupazione (cfr. Employment and Social Developments in Europe, 2014).

E’ anche noto che le politiche formative ed educative sono un elemento essenziale dei sistemi di flexicurity dei paesi nord europei, e che la formazione professionale è alla base dei successi dell’economia tedesca.

In questo quadro, la realtà italiana risulta come una delle più problematiche, con tassi di partecipazione alla formazione continua da parte degli occupati (di età compresa tra i 20 e i 65 anni) che sono circa la metà di quelli di UE-27: 6% contro 11,4%. Il diritto alla formazione continua e professionale è previsto dallo Statuto dei Lavoratori ma è una previsione generica che non diventa realtà in assenza di una specifica previsione nei contratti di lavoro.

La nostra proposta è che il diritto alla formazione continua e professionale, e al suo sostegno pubblico, si trasformi da diritto contrattuale, che esiste solo se è previsto nei contratti, (e come tale è modificabile o anche annullabile) in un minimo di formazione garantito come diritto-dovere individuale non negoziabile (se non al rialzo) previsto dalla legge per i contratti a tutele crescenti. In particolare, proponiamo che, con il nuovo contratto, ogni giorno di lavoro faccia maturare per il lavoratore il diritto-dovere individuale ad un’ora di formazione retribuita. Il 25% delle ore complessivamente maturate (che in media dovrebbero essere 240 all’anno) sarebbe destinato a formazione organizzata dall’azienda, mentre il lavoratore potrebbe scegliere liberamente come impegnare il restante 75%.

La parte di formazione svolta in azienda garantirebbe la formazione di capitale umano specifico, così accrescendo il valore del legame tra impresa e lavoratore. Per il suo finanziamento si può ricorrere ai fondi del cosiddetto “0,30%” per la formazione continua che alimenta i fondi interprofessionali. Assumendo un costo di 250 euro per un intervento di formazione specifica di 60 ore (cioè un costo complessivo di 3000 euro per 12 persone) e considerando che in base alla legge 845/1978 l’azienda già maturerebbe su un neo assunto circa 60 euro l’anno per la formazione continua (nell’ipotesi di retribuzione media annua lorda di 20.000 euro), il costo totale a valere sui fondi dello 0,30% per il 2015 sarebbe di 95 milioni di euro (nell’ipotesi, della Ragioneria Generale dello Stato, che i contratti a tutele crescenti saranno 1000 e si distribuiranno uniformemente nell’arco del 2015), pari a circa il 40% dei fondi non utilizzati (infatti nei Bilanci dell’Inps per il 2013 si indica un gettito di circa 900 milioni di Euro, di cui 660 destinati ai fondi interprofessionali e 240 destinabili alla proposta). A ciò vanno aggiunte le giacenze accumulate presso i “conti sistema” dei diversi fondi. Questo meccanismo incentiverebbe fortemente le aziende ad aderire ai fondi interprofessionali, superando barriere di natura informativa e procedurale, con l’ulteriore effetto positivo di poter erogare la formazione continua anche al resto degli occupati. Tuttavia, se le procedure di accesso alle risorse dei fondi costituissero un ostacolo si può permettere alle imprese di utilizzare direttamente le quote dello 0,30% senza prima versarle all’INPS per poi riottenerle attraverso i fondi.

La nuova Agenzia Nazionale del Lavoro avrebbe non soltanto il compito di monitorare l’effettivo svolgimento della formazione in azienda ma anche quello di creare gli strumenti per assistere le piccole aziende nella programmazione e realizzazione (in proprio o tramite il ricorso ad enti esterni) della formazione specifica, a partire dalle esperienze già realizzate tramite i “conti sistema” dei fondi interprofessionali. Laddove poi l’azienda non fosse in grado di assolvere in tutto o in parte tale compito, le ore residue si aggiungerebbero a quelle sulle quali il lavoratore ha libera scelta.

Il lavoratore riceverebbe dallo Stato un voucher finalizzato al finanziamento totale o parziale di questo percorso formativo; ciò avverrebbe in seguito all’attività di orientamento svolta dal sistema dell’Agenzia Nazionale del Lavoro cui spetterebbe anche il compito di provvedere al monitoraggio dell’effettivo svolgimento degli interventi formativi. Nell’insieme, il lavoratore potrebbe scegliere in modo consapevole se rafforzare le proprie competenze specifiche o, piuttosto,  intraprendere o proseguire percorsi formativi in grado di migliorare le sue potenzialità di impiego sul mercato del lavoro in generale. Il combinato disposto di una scelta libera individuale (all’interno di un sistema di certificazione, monitoraggio e valutazione pubblico nazionale) e dell’utilizzo dello strumento del voucher, potrebbe anche stimolare un vero e proprio mercato regolamentato della formazione, contrastando le inefficienze del sistema della formazione italiana, rese più gravi dalla frammentazione territoriale, dalle complicazioni burocratiche che rendono lunghi e incerti i tempi di realizzazione degli interventi e dall’incapacità di molte Regioni di programmare attività formative coerenti con la domanda espressa dalle imprese.

Il costo totale per il 2015, nell’ipotesi di un voucher medio da 750 euro per 180 ore e prendendo per buone le previsioni della Ragioneria Generale dello Stato su numero e scansione temporale dei contratti di inserimento, ammonterebbe a 375 milioni di Euro. Si tratta di una cifra non troppo rilevante se si considera che il Fondo Sociale Europeo (FSE), per il settennio 2014-2020, destina annualmente alla formazione 800 milioni di Euro. D’altro canto, l’entità del voucher può variare con la tipologia dell’intervento formativo e può essere condizionato alla prova dei mezzi; inoltre, si potrebbe prevedere una forma di prestito d’onore per i lavoratori che si volessero impegnare in corsi di durata maggiore.

Il finanziamento dei voucher si potrebbe inserire anche nella nuova programmazione del FSE; tuttavia, l’investimento in capitale umano dovrebbe essere previsto tra gli investimenti pubblici di cui si sta discutendo nell’UE [1. Trattandosi di formazione in orario di lavoro retribuito, tali interventi figurerebbero formalmente come cofinanziati dalle imprese e non come “aiuti di stato”; inoltre sarebbe semplice destinare ad essi i fondi provenienti dalla BEI o dal futuro piano di investimenti Juncker.]. In fondo, anche se l’Europa delineata dalle Strategie di Lisbona fosse svanita, l’obiettivo di creare una società fondata sulla conoscenza resterebbe ancora valido.

Un ulteriore aspetto da considerare è quello della perdita che l’azienda subisce in conseguenza della sottrazione di un ottavo dell’orario di lavoro all’attività produttiva. In primo luogo, la possibilità di concordare con il lavoratore gli orari di espletamento dell’attività formativa può alleviare questa perdita. Inoltre, la formazione in azienda potrebbe, almeno in parte, consentire di risparmiare il tempo da dedicare all’inserimento dei nuovi assunti o alla formazione “on the job” . Un ulteriore elemento compensativo è rappresentato dagli aumenti di produttività connessi all’accumulazione di capitale umano, in particolare quello specifico. Va, infine, ricordato che la Legge di Stabilità prevede per i contratti di inserimento la fiscalizzazione degli oneri contributivi a carico del lavoratore il cui ammontare è pari a circa il 31% del costo del lavoro. Si tratta, cioè, di un importo ben superiore all’aggravio di costo (12,5%) che le imprese sosterebbero nella peggiore delle ipotesi, e cioè nel caso in cui i costi aumentassero in modo proporzionale alla riduzione del tempo di lavoro e fosse nullo l’alleggerimento derivante dai diversi effetti citati in precedenza.

In conclusione, consentire ai lavoratori di dedicare un ottavo del proprio tempo di lavoro alla formazione potrebbe essere il segnale che si intende affrontare in modo determinato il problema del precariato e si intende farlo all’interno di una nuova, e più solida, prospettiva di sviluppo. Peraltro, si in questo modo si potrebbe recuperare e riproporre un’esperienza di eccellenza nella nostra tradizione sindacale e politica: quella delle “150 ore” che in passato assicurò il diritto allo studio e oggi potrebbe costituire la base per conquistare un lavoro sicuro, soddisfacente e professionalmente qualificante.

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