Il decreto Green Pass: alcuni dubbi e lo spazio per la contrattazione collettiva

Matteo Luccisano esamina il D.L. 127/2021 sull’obbligo di green pass per accedere al lavoro che ha provocato violente reazioni. Luccisano osserva che la norma lascia irrisolte diverse questioni e solleva numerosi dubbi interpretativi che il legislatore dovrà sciogliere. Luccisano propone alcune soluzioni interpretative e ritiene che la contrattazione collettiva, come aggiornamento e attuazione dei protocolli in tema di salute e sicurezza sul lavoro, possa risolvere le criticità del testo governativo.

Nella notte del 21 settembre 2021 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto-legge n. 127, recante misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l’estensione dell’ambito applicativo della certificazione verde COVID-19. Il testo, oltre alle polemiche trasformatesi in veri e propri disordini nei giorni scorsi, ha immediatamente suscitato dubbi legati alla concreta attuazione delle disposizioni contenute, e ha stimolato, al tempo stesso, alcuni interpreti che hanno individuato sin dalle primissime ore un notevole spazio in cui la contrattazione collettiva può (e deve) inserirsi. Tali questioni, anche alla luce dei recenti drammatici sviluppi, meritano di essere attentamente esaminate.

I temi centrali del decreto-legge. In estrema sintesi, il DL 21 settembre 2021 n. 127 ha esteso l’ambito applicativo della certificazione verde Covid-19 ai dipendenti pubblici e privati, a decorrere dal 15 ottobre 2021 e fino al 31 dicembre 2021 (termine attuale di cessazione dello stato di emergenza). Tale obbligo sussiste nei confronti di chiunque svolga attività lavorativa nel settore pubblico e privato, a qualsiasi titolo, anche sulla base di contratti esterni “presso le amministrazioni” o “nei luoghi” di lavoro delle imprese private (ad es. servizio mensa). Sono in ogni caso esclusi i soggetti esenti dalla campagna vaccinale sulla base di idonea certificazione medica.

Si prevede l’obbligo per i lavoratori suddetti, ai fini dell’accesso ai luoghi di lavoro, di “possedere e di esibire, su richiesta, la certificazione verde COVID-19”. Dall’altro lato, i datori di lavoro (pubblici e privati) sono tenuti a verificare il rispetto di tale prescrizione, e a definire, entro il 15 ottobre 2021, le modalità operative per l’organizzazione delle verifiche, “anche a campione, prevedendo prioritariamente, ove possibile, che tali controlli siano effettuati al momento dell’accesso ai luoghi di lavoro, e individuano con atto formale i soggetti incaricati dell’accertamento delle violazioni degli obblighi” di cui al decreto.

Sul versante delle conseguenze in caso di violazioni di tali prescrizioni, per quanto riguarda i lavoratori, nel caso in cui comunichino di non essere in possesso della certificazione verde al momento dell’accesso al luogo di lavoro, essi sono considerati assenti ingiustificati fino alla presentazione della predetta certificazione, con esclusione di conseguenze disciplinari e diritto alla conservazione del rapporto di lavoro, e non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato.

Nelle imprese con meno di 15 dipendenti, dopo il quinto giorno di assenza ingiustificata, il datore di lavoro può sospendere il lavoratore per la durata corrispondente a quella del contratto di lavoro stipulato per la sostituzione, comunque per un periodo non superiore a 10 giorni, rinnovabili per una sola volta, entro il limite del 31 dicembre 2021.

È, inoltre, prevista la sanzione da 600 a 1.500 Euro per i lavoratori (salve le conseguenze disciplinari secondo i rispettivi ordinamenti di settore) e da 400 a 1000 Euro (raddoppiata in caso di reiterazione della violazione e ferme le eventuali conseguenze penali) per i datori di lavoro, i cui soggetti incaricati dell’accertamento e della contestazione delle violazioni dovranno trasmettere al Prefetto gli atti relativi alla violazione stesse.

I principali problemi applicativi. È possibile dare, complessivamente, un giudizio positivo sul decreto, soprattutto per quanto riguarda l’intento di favorire la ripresa delle attività economiche e produttive, evitando spiacevoli situazioni di lockdown. È prevedibile, o quantomeno auspicabile, che l’estensione del green pass ai dipendenti pubblici e privati possa imprimere l’accelerazione necessaria a raggiungere gli obiettivi finali di copertura vaccinale, e quindi a superare – nel breve/medio periodo – la stessa necessità di una certificazione verde.

Al tempo stesso, sono state individuate sin da subito rilevato alcune difficoltà applicative e interpretative, che stanno provocando discussioni tra le imprese che dovranno applicare concretamente la norma.

Ci si riferisce, innanzitutto, alla predisposizione (onerosa, anche in termini di tempo) delle modalità operative per l’organizzazione delle verifiche, con il rischio di scaricare (solo) sui datori di lavoro il compito di attuare le disposizioni del decreto.

Inoltre, è opportuno fare chiarezza sulla disposizione che regola la sospensione e la sostituzione dei lavoratori nelle imprese con meno di quindici dipendenti. Formulata in questo modo, la misura rischia, infatti, di creare difficoltà nell’organizzazione del lavoro, compromettendo la prosecuzione stessa dell’attività lavorativa.

Sussiste poi la tematica dei soggetti esenti dall’obbligo vaccinale e pertanto privi del green pass: si tratta di un aspetto delicato, poiché non si comprende come dovranno comportarsi tali lavoratori e, soprattutto, come dovranno proseguire l’attività, se in presenza (con rischi per la salute) o da remoto.

Alcune proposte. Ci sono alcune principali questioni su cui bisognerebbe intervenire.

La prima riguarda l’estensione dell’ambito di applicazione del decreto, che dal 15 ottobre 2021 riguarderà tutti coloro che accedono in un luogo di lavoro (a prescindere dalla tipologia contrattuale), e dunque anche chi non ha un rapporto di lavoro con l’impresa all’interno della quale accede. In tal caso, sarebbe bene specificare che laddove si parla di “datore di lavoro” è da intendersi in senso ampio, nell’accezione presente nel Testo unico in tema di sicurezza di lavoro (cfr. art. 2, comma 1, lett. b), secondo cui: “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa.”).

Un altro aspetto determinante è costituito dalle eccezioni previste per i datori di lavoro con meno di 15 dipendenti. Non è chiaro, infatti, a cosa serva questa norma, e se introduca o no un regime speciale di lavoro a termine. Si ravvisano anche problemi nella gestione delle sostituzioni di lavoratori: cosa accade dopo la seconda sostituzione di 10 giorni? Si tratta di un tema foriero di problematiche, soprattutto per le PMI, per non parlare del rischio che tale disposizione inneschi contenziosi anche sulla gestione dei contratti a termine, non essendo chiaro cosa scatta all’undicesimo giorno (proroga o rinnovo?).

Va anche chiarito il termine “sospensione”, che, in mancanza di una esplicita precisazione in senso contrario, potrebbe ben essere intesa come sanzione disciplinare che può reiterarsi fino a 20 giorni (e, estremizzando il ragionamento, giustificare un licenziamento disciplinare al termine dei predetti 20 giorni).

Per quanto riguarda i soggetti esenti dalla campagna vaccinale, non è chiaro come dovranno comportarsi le imprese, poiché un loro eventuale ingresso sul luogo di lavoro senza green pass rappresenterebbe un rischio molto alto di contagio. Ecco che da più parti si invoca il giudizio del medico competente e le misure protettive da adottare ex art. 279, co. 2, D.Lgs. 81/2008, compresa l’adibizione del singolo lavoratore a mansioni conformi o che non mettano a repentaglio la salute sua e degli altri lavoratori, magari in regime di lavoro agile. Tuttavia, sul punto non è chiaro fino a dove può spingersi il medico, e, di conseguenza, il datore di lavoro.

Altrettanto oscuro è il destino dei lavoratori privi di certificazione verde: essi sono tenuti a comunicarlo ai datori di lavoro? Nel decreto non è previsto. Ma se uno si assenta lo stesso per altri motivi non legati al possesso del green pass, non essendoci nessun obbligo, il datore di lavoro lo considererebbe assente ingiustificato senza procedura disciplinare, ma questo genererebbe una disparità di trattamento.

Inoltre, in alcune situazioni, al di là dell’assenza ingiustificata, lo smart-working potrebbe rappresentare uno strumento utile; tuttavia, sarebbe bene disporre l’inidoneità lavorativa di tali soggetti, anche da remoto, per evitare disparità di trattamento fra lavoratori.

Quanto alle sanzioni, sarebbe utile modificare il comma 8 dell’aggiornato art. 9-septies (del D.L. n. 52/2021), sostituendo “lavoratori” con “i soggetti di cui al comma 1 e 2”, nel senso di non escludere dal campo di applicazione della sanzione coloro che accedono nel luogo di lavoro ad altro titolo (si veda il comma 2) che pure sono soggetti all’obbligo.

Infine, quanto alle segnalazioni delle violazioni al prefetto, non è previsto che il datore di lavoro avvisi il lavoratore. Tuttavia, servirebbe un minimo di procedura per permettere al lavoratore di difendersi, anche perché potrebbero esserci casi di errori o di abusi a danno di dipendenti che pur avendo green pass sono segnalati al prefetto.

Lo spazio per le relazioni industriali. Dopo la pubblicazione del decreto, molti studiosi, pur riconoscendone le criticità (alcune delle quali descritte sopra), hanno praticamente escluso che la contrattazione collettiva potesse avere voce in capitolo nel dirimere le questioni sollevate dalla decretazione d’urgenza.

La realtà, tuttavia, può essere esattamente l’opposto. Alle parti sociali, infatti, insieme ai datori di lavoro, deriva dal decreto in esame un potere amplissimo: si apre uno scenario importantissimo, di aggiornamento dei protocolli sicurezza COVID-19, in conformità all’apparato prevenzionistico di cui al Testo Unico n. 81/2008. E la leva, in questo senso, per gli attori economici chiamati a essere di nuovo protagonisti di questa fase sarà il comune interesse alla salvaguardia della salubrità dell’ambiente ove si svolge l’attività lavorativa da un lato, e lo spettro delle chiusure aziendali imposte dall’alto, misti alla necessità di certezza delle regole in un momento in cui la prevenzione della salute di chiunque accede ai luoghi di lavoro ha assunto una grandissima rilevanza.

Ecco che la contrattazione collettiva dovrà, innanzitutto, intervenire nella definizione delle modalità organizzative alla luce dei controlli della certificazione verde, stabilendo chi può effettuare i controlli, le tempistiche, imponendo vincoli ai controlli “a campione”, e regolando l’accesso al luogo di lavoro.

Non solo, poiché l’aggiornamento dei protocolli potrà definire una vera e propria cabina di regia nella verifica dell’attuazione delle modalità organizzative: in questo senso, il Protocollo condiviso del 14 marzo 2020 aveva già previsto l’istituzione di un comitato aziendale che verificasse le misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID -19 in ambito lavorativo. In tale prospettiva, si dovranno definire, con maggior precisione, le funzioni, la composizione e le modalità di verifica del comitato, anche in relazione all’obbligo di possedere e esibire il green pass.

L’accordo tra le parti sociali è, inoltre, inevitabile nella previsione dell’esonero dall’obbligazione della certificazione verde per i soggetti vulnerabili: al fine, dunque, di risolvere le criticità sollevate anche sopra, la revisione dei protocolli dovrà contenere le causali di esonero (osservando anche la circolare del Ministero della salute in tal senso, ancora in fase di pubblicazione), e disciplinare le modalità di svolgimento dell’attività da remoto per tale categoria di lavoratori.

Infine, sussiste ampio spazio per la contrattazione collettiva per meglio definire i contorni delle autorizzazioni ai preposti alle verifiche dei green pass, e per regolare con precisione le modalità in cui dovranno avvenire le segnalazioni disciplinari a seguito della rilevazione delle violazioni da parte di lavoratori e imprese.

Se questo è lo scenario, non è possibile auspicare che sia solo il legislatore a risolvere le problematiche evidenziate, che dovranno invece essere affrontate dalle parti sociali.

Del resto, l’aggiornamento in tal senso dei protocolli aziendali in materia di COVID-19 godrebbe di una vincolatività più forte nei confronti dei singoli lavoratori, potendo essere considerati alla stregua di veri contratti gestionali sottoscritti in caso di trasferimento d’azienda o di licenziamenti collettivi. In questa prospettiva, il contratto collettivo rappresenterebbe la cabina di regia della tutela dei lavoratori dalla pandemia.

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