Il contratto a tempo determinato nell’ordinamento giuridico italiano

Francesca Fontanarosa illustra l’evoluzione della normativa italiana sul contratto di lavoro a tempo determinato, collegando tale evoluzione al crescente dualismo e alla più netta segmentazione che si è venuta a creare nel nostro mercato del lavoro. Fontanarosa ricorda anche i principali contenuti del recente Jobs Act e ne mette in luce aspetti non facilmente conciliabili con quanto è previsto dalle direttive comunitarie.

Il contratto di lavoro a tempo determinato (o a termine) è una variante del contratto di lavoro standard a tempo indeterminato, che nell’ordinamento giuridico italiano rappresenta la forma più comune di impiego del lavoro dipendente e la principale fonte di godimento di diritti: lo svolgimento di una prestazione lavorativa continua nel tempo consente al lavoratore di avere una stabilità economica, di migliorare la propria qualità della vita e di partecipare in maniera attiva al progresso economico e sociale della società. Rispetto a questa fattispecie, il contratto a termine ha una durata prefissata, indicata da una data che stabilisce l’estinzione del rapporto di lavoro.

L’apposizione del limite temporale alla prestazione lavorativa che, di regola, dovrebbe avvenire in modo stabile e duraturo nel tempo ha, inizialmente, trovato ragion d’essere nella necessità di definire tramite legge quei casi in cui l’attività lavorativa richiede una prestazione di durata limitata, per il verificarsi di circostanze eccezionali, improvvise e straordinarie. Solo in un secondo momento, quando l’evoluzione del diritto del lavoro ha evidenziato una tendenza, ancora oggi in divenire, alla deregolamentazione del rapporto di lavoro, il contratto a termine si è rivelato uno strumento normativo per rendere l’organizzazione della forza lavoro più elastica alle esigenze della produzione.

L’istituto del contratto a termine viene per la prima volta disciplinato dalla l. n. 230/1962. La legge consente al datore di lavoro di impiegare tale tipologia contrattuale solo ed esclusivamente nei casi in cui la specialità dell’attività lavorativa richiede una prestazione di durata limitata, ossia nel caso di lavori stagionali, artistici, di sostituzione di lavoratori, dell’esecuzione di un’opera o di un servizio dal carattere straordinario o di un’attività che richiede competenze e specializzazioni diverse da quelle normalmente impiegate nell’azienda. È, inoltre, possibile prorogare il termine solo una volta, per una durata non superiore a quella inizialmente prevista, qualora vi siano esigenze contingenti e imprevedibili riguardanti la medesima attività lavorativa. L’eccezionalità del contratto a tempo determinato rispetto a quello c.d. standard è, quindi, evidente: se il termine del contratto non risulta dall’atto scritto e al di fuori delle ipotesi su elencate, il rapporto di lavoro si intende a tempo indeterminato.

Questo primo provvedimento si inserisce in un disegno legislativo volto a definire un modello “garantista” di regolazione dei rapporti lavorativi, improntato da un lato a favorire l’accesso al mercato del lavoro della manodopera stagionale e giovanile (l. n. 25/1955 sull’apprendistato), dall’altro sulla garanzia del posto di lavoro a tempo pieno e indeterminato. Solo pochi anni dopo, la l. n. 604/1966 e la l. n. 300/1970 introducono nell’ordinamento giuridico italiano il principio della “tutela reale” che prevede la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro quando si accerti l’illegalità del licenziamento. Si tratta, tuttavia, di un modello destinato a mutare da lì a breve: di fronte all’intensa e prolungata fase di inflazione e disoccupazione sperimentata negli anni ’70 e ’80, gli organi di governo italiani scelgono di mantenere alto il livello di protezione del lavoro a tempo indeterminato, pur incentivando l’impiego della manodopera con tipologie contrattuali flessibili. Si assiste così, a un’emersione di nuove forme di lavoro c.d. atipico, e a un parallelo ampliamento dell’ambito di applicabilità del contratto a termine. Il d.l. n. 876/1977 (conv. nella l. n. 18/1977), la l. n. 79/1983 e, infine, la l. n. 223/1991, estendono la possibilità di operare assunzioni a termine nei settori del “commercio e turismo”, in tutti i settori produttivi caratterizzati da “punte ricorrenti di attività”, ed anche ai lavoratori in mobilità.

Il mercato del lavoro italiano inizia, quindi, a caratterizzarsi per una forte segmentazione e dualità tra quanti si trovano impiegati con contratti a tempo indeterminato e, per ciò solo, beneficiano delle più ampie tutele previste contro il rischio di disoccupazione e quanti risultano impiegati in numero crescente con contratti a tempo determinato e, per la temporaneità del rapporto di lavoro, non riescono a maturare il minimo contributivo necessario per accedere alle prestazioni assicurative contro il medesimo rischio di disoccupazione. Questa situazione, aggravata dal persistere di un dualismo territoriale tra Nord e Sud e da un numero elevato di disoccupati di lunga durata, spinge il legislatore italiano a intervenire per riformare il mercato del lavoro, anche e soprattutto sulla base delle indicazioni comunitarie e internazionali.

Significative sono, al riguardo, le innovazioni della direttiva 99/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato. La disciplina comunitaria ponendo l’attenzione sulle conseguenze derivanti in termini di precarietà, dalla reiterazione frequente e indiscriminata di contratti a tempo determinato, afferma, in primo luogo, che il termine da porre al contratto deve essere individuato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito, il verificarsi di un evento specifico. In secondo luogo, obbliga gli Stati membri a introdurre norme volte a prevenirne l’abuso, imponendo il vincolo della giustificazione del termine per la stipulazione o il rinnovo del contratto, la durata massima totale del rapporto di lavoro, il numero dei rinnovi contrattuali possibili. Rispetto a tali indicazioni, il d.lgs. n. 368/2001 di recepimento della direttiva comunitaria, amplia notevolmente le ipotesi di ricorso al contratto a tempo determinato che, di fatto, è sempre possibile stipulare quando si manifestino ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo, purché non si superi il limite massimo di 36 mesi. Il rapporto di lavoro a tempo determinato perde, quindi, quel carattere di eccezionalità che lo aveva qualificato in passato: la genericità delle causali richieste e l’abrogazione del principio per cui il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato, provocano la diffusione del contratto a termine come forma di impiego, tout court, flessibile.

Il processo di diffusione e liberalizzazione dell’uso di contratti a termine come tipologie flessibili di impiego sembra subire un’accelerazione quando gli effetti della crisi economica del 2008 e le difficoltà finanziarie attraversate dall’Italia persuadono gli organi comunitari e il Governo italiano a riformare il mercato del lavoro. La l. n. 92/2012, raccogliendo le indicazioni comunitarie volte a favorire la domanda di lavoro flessibile in funzione di una maggiore occupazione, ha modificato nel profondo l’istituto del contratto a termine. Pur riaffermando che il contratto a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro, la legge modifica il d.lgs. 368/2001, introducendo il principio della c.d. a-causalità, in base al quale è possibile non allegare le causali richieste per l’apposizione del termine al primo contratto stipulato tra datore di lavoro e lavoratore, di durata non superiore a 12 mesi. Il vincolo della giustificazione del termine da apporre al contratto cessa pertanto di essere un principio generale, operando solo nel caso di rinnovo; lo stesso termine da apporre al contratto non deve necessariamente essere legato alla temporaneità della prestazione lavorativa, ma rispettare il limite massimo di 36 mesi, oltre i quali il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato.

In linea di continuità con la legge del 2012, il d.l. n. 34/2014 (conv. nella l. n. 78/2014 c.d. Jobs Act), si propone di liberalizzare il primo contratto a tempo determinato tra datore e prestatore di lavoro. Tale disposizione prevede che sia sempre possibile stipulare un contratto a termine, anche in mancanza delle ragioni produttive, tecniche od organizzative che giustificano la temporaneità della prestazione lavorativa. La durata del contratto a termine privo della causale viene, infatti, elevata a 36 mesi, cifra che rappresenta anche il termine massimo entro cui un contratto può essere prorogato, per un massimo di 5 volte.

La generalizzazione del principio dell’a-causalità, chiaramente finalizzata allo scopo di favorire la domanda di lavoro flessibile pare, tuttavia, contrastare con quanto disposto dalla direttiva comunitaria 99/70/CE, in materia di contratto a tempo determinato. Il diritto comunitario e la giurisprudenza della Corte di Giustizia (C-144/04, C-212/04), hanno, infatti, ritenuto illegittima la normativa interna in materia, che non impone la giustificazione obiettiva o il numero massimo di rinnovi contrattuali possibili. Venendo meno l’obbligo di giustificare con “ragioni obiettive” la stipulazione di un contratto a termine o, per lo meno, la proroga e il rinnovo dello stesso, la legge contrasterebbe con la “clausola di non regresso”, che secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia vieta al legislatore nazionale di derogare in pejus alla normativa di recepimento, ossia al d.lgs. n. 368/2001 e successive modificazioni. Invero, si potrebbe obiettare che la legge, prevedendo un numero massimo di rinnovi e un termine oltre il quale non è consentito assumere a termine, risulta formalmente rispettosa della direttiva europea; tuttavia, ciò non sembra sufficiente a scoraggiare l’abuso dei contratti a termine, con conseguenze evidenti in termini di diffusione della precarietà.

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