Il contesto in cui discutiamo di Europa. Scontro di civiltà o scontro di regionalismi?

Stiamo vivendo gli anni del dopo ’89, dopo la fine delle certezze ideologiche -per chi ne aveva- in un’atmosfera di crescente inquietudine. Una paura a metà fra il timore per la precarietà del lavoro e l’incubo della minaccia proveniente da persone di culture diverse dalle nostre. È ora di fare pulizia nelle nostre menti e separare il ‘mito’ dalla realtà. Se disoccupazione e precarietà del lavoro sono sotto gli occhi di tutti, è proprio vero che le nostre teste bianche di cittadini occidentali sono tutte a rischio di decollazione ad opera delle curve scimitarre islamiche?

In queste poche righe mi propongo di dimostrare – ricorrendo anche all’aiuto di Amartya Sen- in che senso ritengo sbagliata e dannosa la teoria formalizzata sette anni fa dallo storico americano Samuel Huntington, ed in voga nelle cancellerie di molti paesi occidentali, che vuole le relazioni fra gli stati e fra i popoli del globo dominate da un cruento ‘scontro di civiltà’. Argomenterò che i conflitti in atto nel mondo contemporaneo, che hanno prevalentemente natura economica, non possono essere spiegati come la conseguenza di un secolare scontro fra religioni e tradizioni ancestrali ma come il manifestarsi di regionalismi, taluni solo in fasce, altri adolescenti, altri ancora maturi, originati o solamente rafforzati dalla crisi economica degli anni ’70.

Il saggio di Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, si incardina sull’idea che, dopo la fine del bipolarismo fra Stati Uniti e Unione sovietica, il mondo si trovi in balia di una lotta per il potere fra diverse società amalgamate dal credo religioso. Civiltà occidentale contro Civiltà islamica, contro Civiltà induista, contro Civiltà buddista, contro Civiltà ortodossa. L’idea è semplice, ben argomentata, ed è sembrata addirittura profetica nel momento in cui gli attacchi dei fondamentalisti islamici distruggevano uno dei simboli del capitalismo occidentale e le democrazie europee facevano dell’immigrazione e della difesa delle proprie identità nazionali il cuore delle campagne elettorali[1].

Mi piacerebbe qui riprendere le argomentazioni di Amartya Sen[2] contro le tesi di Huntington, così come espresse in un recente articolo. Sen, dapprima, si pone in contrasto con lo storico americano dal punto di vista filosofico, epistemologico, affermando come sia arbitrario il ricorso alla sola categoria dell’appartenenza religiosa per definire l’agire di un gruppo d’individui. Gli individui appartengono, infatti, allo stesso tempo a più ‘comunità’: si può essere allo stesso tempo italiano, comunista, operaio, membro della società degli scacchi, juventino, ateo, padre. Sen ricorda che “ognuna di queste collettività, alle quali quella singola persona appartiene, le assegna un’identità particolare che – a seconda del contesto – può risultare più o meno importante; ma nessuna svolge un ruolo unico e prestabilito nel definire quella singola persona”. Una volta messo in discussione il concetto di civiltà come ultimo movente dell’agire umano, l’economista indiano si impegna a smontare la stessa possibilità di definire una civiltà da un punto di vista storico. Ha gioco facile nel ridicolizzare la definizione di ‘civiltà induista’ riferita al territorio dell’odierna India dove gran parte della popolazione è laica, vive la più grande comunità musulmana (125 milioni) dopo l’Indonesia e che è stata governata per secoli dai buddisti e, fino al XIX secolo, dai Moghul musulmani. In sintesi, dice Sen, “conflitti moderni, che esigerebbero di essere analizzati alla luce degli eventi e delle vicende di oggi, vengono repertoriati come antiche contese che assegnano ai protagonisti attuali certi ruoli prefissati in drammi di presunta origine ancestrale”.

La tesi ‘scontro di civiltà’ dunque poggia su fondamenta filosofiche e storiche assai deboli. Quel che è peggio è pericolosa. Se si parte dall’assunto che non vi siano al mondo altro che civiltà in lotta fra di loro, il singolo cittadino non è che un Rambo, in Occidente, un Bin Laden, nel mondo musulmano, una tigre Tamil, in India e, magari, uno Zulu incazzato, nell’Africa nera. Tutto quello che dovrebbero fare i governanti sarebbe di rappresentare al meglio le virtù guerriere del proprio popolo e di preparare alla guerra la propria civiltà eliminando gli elementi di disturbo e non omogenei al suo interno. La tesi dello scontro di civiltà implica un popolo in guerra e un capo carismatico alla sua guida.

I recenti attentati dei fondamentalisti musulmani hanno spinto alcuni governi e le opinioni pubbliche ad affidarsi alla semplicistica tesi dello scontro fra civiltà. I terroristi sarebbero dei fanatici dell’Islam che hanno in odio l’Occidente, dunque staremmo assistendo ad uno scontro fra Occidente ed Islam. L’importanza del fondamentalismo islamico come fattore dominante delle relazioni internazionali viene clamorosamente sovradimensionata, anche grazie alla morbosa attenzione dei media per qualsiasi episodio di violenza, sia interna agli stati che fra gli stati stessi. Il terrorismo coinvolge un’esigua minoranza della popolazione mussulmana[3], così come di quella occidentale, di quella indiana, di quella sudamericana e via dicendo. Al contrario di quanto sembra emergere dal saggio dello storico di Harvard, la stragrande maggioranza dei cittadini di ogni parte del mondo ha a cuore più che altro la salute dei propri figli, poter mangiare tre volte al giorno, poter guarire dalle malattie e, magari, poter vagare con la mente al di sopra dei bisogni quotidiani. Certo non lo sterminio di chi la pensa diversamente. C’è bisogno di una teoria che spieghi le tensioni politiche ed economiche mondiali su una base più realistica e analitica di quella adottata da Huntington.

Osserviamo il mondo di oggi. Sanguinose guerre civili dalla Colombia, all’Angola, alla Yugoslavia, che poco hanno a che fare con scontri fra civiltà. Guerre commerciali, ma anche queste hanno poco ha che fare con conflitti di natura religiosa. Ho già detto terrorismo e di come questo per me non sia, al di là del forte impatto mediatico, uno fattori strutturali nel muovere le relazioni internazionali.

E’ mia opinione che le tensioni politiche e, soprattutto, economiche che esistono a livello globale, traggano origine non già da scontri di civiltà o terrorismi di multiforme natura ma dal lento processo di formazione di aree regionali. Dall’Europa, al mondo arabo, all’America latina, al Sudest asiatico, vari stati puntano a rafforzare l’integrazione economica con le nazioni più o meno contigue territorialmente attraverso l’eliminazione delle barriere doganali, l’unificazione monetaria e la creazione di qualche forma di coordinamento politico. Si tratta di un processo grandioso e non privo di contraddizioni che incontra nemici sia all’interno delle varie aree regionali che all’esterno di queste. Si tratta di un processo, se si deve prendere ad esempio l’Europa, generalmente pacifico, ma che può generare notevoli tensioni sul commercio internazionale qualora prevalgano le forze di orientamento protezionistico.

L’integrazione europea ha subito nell’ultimo decennio una decisa accelerazione: nel 1992 gli europei hanno deciso per la moneta unica che da quest’anno è diventata realtà, tutto è pronto per l’allargamento ad Est che farà dell’Unione europea il più ricco spazio economico del mondo, un gruppo di costituenti sta cercando di dar vita ad una costituzione europea che, fra l’altro, potrebbe prevedere la creazione di un vero e proprio esercito europeo. Il movimento panarabo, che sembrava defunto dopo il fallimento degli Hashemiti alla fine della Seconda guerra mondiale, sembra risvegliarsi. Basti pensare che quest’anno sei paesi arabi (Arabia Saudita, Qatar, Bahrein, Oman, Kuwait, Emirati Arabi) hanno commissionato alla Banca centrale europea uno studio per far partire il processo di unificazione monetaria dal 2005, e la circolazione della moneta comune dal 2010. Il regionalismo sudamericano è stato fra quelli che hanno subito in misura maggiore e più diretta l’influenza dell’integrazione europea con la creazione del Mercosur negli anni ‘70. La creazione di un mercato sudamericano integrato è stato allo stesso tempo ostacolata dalla crisi economica, dall’ostilità Usa e dalla debolezza, per non dire l’inerzia, delle classi dirigenti dei vari paesi dell’America latina. Tuttavia, con la vittoria in Brasile (la più grande economia regionale) del segretario del Partito dei lavoratori Lula, portavoce di un programma apertamente contrario al libero mercato dell’Americhe e favorevole ad una cooperazione fra i paesi dell’America latina, sembra profilarsi un nuovo impulso del regionalismo sudamericano.

La vicenda di Saddam Hussein è in qualche modo emblematica delle tensioni che si possono innescare nel tentativo di dar vita ad aree regionali e di quanto la categoria interpretativa dello scontro fra civiltà non aiuti in nessun modo a spiegare i conflitti in Medioriente. Il leader iracheno tentò, subito dopo il crollo dell’Unione sovietica che gli apriva un maggior spazio di manovra, di farsi promotore di un progetto panarabo mirante a fare dell’Iraq il paese egemone nella regione. I carri armati iracheni entrarono in Kuwait il 2 agosto del 1990: doveva essere il primo passo per fare di Hussein il leader del regionalismo arabo e mettergli a disposizione risorse economiche sufficienti a svolgere tale ruolo. Ma il suo tentativo si scontrò con l’opposizione Usa, così come contro quella di altri stati arabi. Oggi, undici anni dopo l’intervento di papà Bush contro l’Iraq, il regionalismo arabo sembra essersi ricompattato in difesa di Hussein, ma l’ostilità statunitense verso qualsiasi forma di progetto panarabo resta un punto fermo. Sembra evidente che se guerra ci sarà contro Baghdad non sarà certo una guerra contro il terrorismo, tantomeno uno scontro fra civiltà, ma un avvertimento preventivo degli Usa contro profilarsi di tentativi d’integrazione nella regione araba e di gestione autonoma delle proprie risorse economiche.

Osservare il mondo nell’ottica del formarsi, in modo accentuato dopo il 1989, di regionalismi possiede un grande potere esplicativo delle relazioni internazionali. Può spiegare gli scontri, anche armati, all’interno di un’area regionale, il susseguirsi delle guerre commerciali, perfino la crisi di alcuni prodotti globali come i jeans Levis, ormai incalzati dai concorrenti europei Diesel, o del MacDonald, che ha recentemente dovuto chiudere 165 esercizi. Il processo di formazione dei regionalismi è alimentato dalla ricerca di benessere materiale da parte dei cittadini di diverse nazioni e meno dalla ricerca di una comune identità. Se tali regionalismi non sono necessariamente pacifici, l’esempio dell’integrazione europea dimostra che essi volgono le proprie energie più che altro al proprio interno.

In conclusione, vorrei formulare la mia morale della favola: ad analisi sbagliate corrispondono soluzioni sbagliate. Se il problema, come sostiene Huntington, è quello dello scontro fra civiltà la soluzione migliore è quella di armarsi per difendere la propria o di lasciarsi assorbire dalla civiltà più forte. Se il problema, come io credo, è invece quello del formarsi di nuovi regionalismi e del rafforzarsi di regionalismi già maturi, la soluzione è quella di concentrarsi sulla risoluzione dei problemi sociali nel proprio spazio regionale e, allo stesso tempo, contribuire a favorire il pacifico sviluppo degli altri regionalismi.

[1] E’ forse utile qui ricordare che la teoria dello scontro fra civiltà non è nuova e riprende tesi che risalgono agli inizi del XX secolo sul tramonto della nostra civilizzazione. Nel 1922 Oswald Spengler, filosofo della storia tedesco, pubblicava la sua opera principale Der Untergang des Adendlandes, che dava per morta la Civiltà occidentale. Nel suo pensiero le otto civiltà, la babilonese, egiziana, indiana, cinese, ellenico-romana, araba, occidentale, Maya sarebbero durate ciascuna in carica per un periodo di circa 1000 anni al termine del quale ciascuna si sarebbe estinta, come in una specie di ciclo vitale umano. La debolezza di questa, come di altre teorie che vedono nelle varie civiltà una specie di organismo con autonome capacità decisionali, è evidente quando si confronti teoria e realtà. Nello specifico né la civiltà occidentale è collassata, né quella cinese, che Spengler dava in stato puramente vegetativo ed, al contrario, è più che mai vitale.

La tesi di Huntington cancella, inoltre, ogni riferimento alle ragioni di tipo economico alla base dei conflitti e mette al centro il fattore religioso in un’epoca nella quale, fondamentalisti a parte, questo movente religioso è decisamente in crisi rispetto al passato.

[2] Sen A. Civiltà prigioniere in MicroMega, n.4 2002

[3] Lo dice in tutti i suoi articoli Bernard Lewis dell’università di Princeton, uno fra i più autorevoli studiosi dell’Islam e noto per le sue posizioni tutt’altro che filoarabe.

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