Il consumismo e il nuovo potere: il tormento di Pasolini

Maurizio Franzini ripercorre gli argomenti utilizzati da Pasolini nei suoi scritti degli anni Settanta per lanciare una terribile invettiva contro il consumismo, del quale provocatoriamente disse che il suo affermarsi equivaleva a un genocidio. Franzini sostiene che al di là degli eccessi verbali, peraltro scelti con cura, Pasolini coglie lucidamente i profondi cambiamenti in atto e ci offre riflessioni di inquietante attualità, come quelle che lo portano a concludere che si era ormai affermato un modello di sviluppo senza progresso.

Nella seconda metà degli anni Sessanta l’Italia completò la sua transizione da società rurale a società dei consumi. Rispetto al decennio precedente il reddito della famiglia media crebbe considerevolmente e così i suoi consumi che cambiarono profondamente anche nella composizione: se nei primi anni Cinquanta più della meta della spesa per consumo era destinata a beni che si potevano considerare essenziali (soprattutto alimentari e bevande) un decennio dopo quella quota era scesa a circa il 35%. Questa contrazione derivava dalla crescente importanza di beni che si potevano considerare superflui, la cui proliferazione è una delle cifre distintive del consumismo.

Ma la novità non era soltanto economica, non si trattava soltanto di consumismo così inteso. Cambiavano i valori e i comportamenti sociali, cambiavano le forme e le manifestazioni del potere. Pier Paolo Pasolini anticipò quasi tutti nell’individuare questi cambiamenti; lo sguardo lucido che posò su di essi gli restituì una profonda preoccupazione che espresse, anche con toni accorati, in una serie di interventi della prima metà degli anni Settanta. Quelli a cui mi riferirò sono ora raccolti in due volumi: Scritti corsari e Lettere luterane.

Pasolini è consapevole di cimentarsi su un terreno che non è il suo; tuttavia l’urgenza di intervenire su quello che considera uno snodo cruciale del presente e del futuro del nostro paese lo spinge a correre il rischio di apparire, come letterato, privo anche del linguaggio appropriato – come esplicitamente riconosce – per affrontare la questione. In realtà, gli argomenti che Pasolini sviluppa sono di grande acutezza e nel loro insieme costituiscono un prezioso mosaico che, forse anche con qualche forzatura, vale la pena di ricostruire.

Per dare un’idea dei radicali, e per lui devastanti, cambiamenti indotti dalla “società dei consumi” Pasolini non esita ad usare il termine “genocidio”. Lo usa nell’accezione del Manifesto del partito comunista: il genocidio è opera della borghesia ai danni delle classi dominate ed in particolare dei sottoproletari e delle popolazioni contadine, a cui ha sempre rivolto la sua attenzione.

Il genocidio si consuma attraverso la generale “assimilazione al modo e alla qualità della vita della borghesia” che comporta la pratica distruzione di modelli di vita alternativi, quelli seguiti dai segmenti di popolazione che fino ad allora erano riusciti a sottrarsi al dominio e alla rivoluzione borghese. Tratto distintivo di questa omologazione è la concezione edonistica dell’esistenza che promette piacere immediato: un piacere assicurato dal consumo e, si può aggiungere, da nulla altro – non dal lavoro, non dalle relazioni sociali. Questa omologazione si estende a tutta la società e, dunque, si sovrappone allo specifico “genocidio” dei sottoproletari.

L’edonismo del consumo, sostiene Pasolini, è perfettamente funzionale agli interessi della borghesia, che consistono nella ricerca del profitto; esso permette di realizzare, nel linguaggio di Pasolini, lo sviluppo – cioè l’ampliamento della produzione materiale e del suo consumo – ma non il progresso. La contrapposizione tra questi due termini è cruciale per la sua interpretazione. Alla borghesia interessa solo lo sviluppo, ma si tratta di uno sviluppo senza progresso, una combinazione che non esita a giudicare mostruosa. Il progresso richiederebbe cambiamenti nei modelli di vita culturale e civile – cambiamenti con determinate caratteristiche, naturalmente – ma si assiste soltanto a sviluppo e neanche per tutto il paese. Sembra anche di capire che a quella parte di paese che non beneficia neanche dello sviluppo resta soltanto una sorta di regresso, culturale e civile.

Pasolini torna spesso su una domanda cruciale: come è avvenuto tutto questo, cosa ha permesso il genocidio? Dietro un genocidio non può non esservi, in una forma o nell’altra, il potere. Pasolini, però, fatica a individuarlo: «Scrivo “Potere” con la P maiuscola solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è». Quel potere gli appare silenzioso e invisibile, non lo riconosce né nel Vaticano, né nei potenti democristiani, né nelle Forze Armate e neanche nella grande industria. Forse esso risiede nell’industria come un tutto, un tutto non italiano ma transnazionale. Lì, in definitiva, ci sono gli interessi che definiscono la visione sottesa alla società dei consumi.

A spingerlo verso questa interpretazione sembra essere stato soprattutto il discorso tenuto nel 1972 all’Accademia militare di Modena da Eugenio Cefis, allora Presidente della Montedison, nei confronti del quale Pasolini nutriva una profonda disistima, se è vero che a lui si è ispirato, in maniera neanche troppo velata, per caratterizzare, nel suo Petrolio, un personaggio immorale come Carlo Troya. In quel discorso, riprendendo temi che allora iniziavano ad avere ampia circolazione, Cefis parlava del potere inarrestabile delle imprese multinazionali al quale invitava non ad opporsi ma, in qualche modo, ad adattarsi. Inviti come questo confermano Pasolini della sua convinzione che per affermarsi il nuovo potere ha sostituito alla “violenza esplicita, aperta” la persuasione occulta che, peraltro, “ridicolizza ogni precedente sforzo autoritario di persuasione” come quello che consiste nel cercare di imporre una concezione religiosa o moralistica della vita. I valori funzionali alla visione del mondo del nuovo potere prendono il posto dei vecchi quasi “di soppiatto” senza nemmeno suscitare dibattiti ideologici. In realtà le ideologie restano largamente sconosciute alle masse. In questo subdolo processo naturalmente la televisione svolge un ruolo cruciale. Pasolini dice di non avere alcun pregiudizio nei confronti della televisione e dei mezzi di comunicazione di massa, ma gli appare del tutto evidente la loro responsabilità nel permettere quella silenziosa sostituzione di valori; quello che con più enfasi chiama cambiamento antropologico.

Proprio a proposito di cambiamento antropologico Pasolini avanza una considerazione decisamente provocatoria. A suo parere la società dei consumi avrebbe ottenuto un risultato che il fascismo aveva mancato: «se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio fascismo». La diversità con il fascismo mussoliniano sta nel fatto che quest’ultimo aveva reso i giovani dei pagliacci, dei servi forse anche convinti ma «non li aveva toccati sul serio, nel fondo dell’anima, nel loro modo di essere» tanto che quando «riprendevano la strada verso i loro paesi ed i loro campi, ritornavano gli italiani di cento, di cinquant’anni addietro, come prima del fascismo». Ora, invece, il nuovo potere ha modificato i sentimenti, i modi di pensare, i modelli culturali spingendo verso l’edonismo consumistico. Se fascismo significa prepotenza del potere, la «società dei consumi» ha realizzato il fascismo.

Essa non ha invece realizzato l’obiettivo proprio di una società edonista, quello di portare felicità, soprattutto ai giovani. Anzitutto, li ha spinti a “esprimersi vivendo” impoverendo il loro linguaggio verbale e spegnendo quella “inventività gergale” che caratterizzava in modo particolare i ragazzi del popolo. Soprattutto, li ha consegnati a una tristezza non priva di venature nevrotiche. Non che l’allegria non si manifesti occasionalmente ma è «esagerata, ostentata, aggressiva e offensiva». E può facilmente sfociare anche nella violenza, una violenza, c’è da pensare, che difficilmente nascerebbe in un mondo meno edonista e meno individualisticamente consumista.

Per dare il senso del cambiamento che ormai si è compiuto Pasolini si dice certo che non troverebbe più un giovane in grado di impersonare, come fece Sergio Citti, il personaggio di Accattone; gli sembra che nessuno avrebbe “lo spirito e la mentalità” per pronunciare le sue battute e, cosa ben peggiore, la capacità di comprenderle. Un impoverimento percettivo in cambiò di una promessa (non mantenuta) di felicità materiale. Forse è quasi tutto qui il tormento di Pasolini.

Svanisce – per via culturale – quel mondo contadino a cui era fortemente legato e la cui cultura in vari sensi gli sembrava necessaria. Afferma che prima della promessa età dell’oro quel mondo viveva – l’espressione la riprende da Chilanti – nell’età del pane. I consumi erano “estremamente necessari” e ciò rendeva “estremamente necessaria” la loro povera e precaria vita. Le ristrettezze economiche non toglievano senso e valore alla vita come invece rischia di accadere nell’età dell’oro: ai consumi superflui può facilmente accompagnarsi una vita superflua. Ancora una provocazione, da non dismettere con sufficienza.

Pasolini non vuole apparire e non si sente un nostalgico del passato. Dice esplicitamente che davvero non gli manca la vecchia Italietta. Ha, invece, qualche rimpianto per «l’illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa» e, sebbene fugacemente, rende esplicito il suo sogno: vedere affermarsi in certe zone contadine nuovi modi di vita culturale e civile anche senza, o con un minimo di sviluppo materiale. Insomma, un sogno di progresso accompagnato da uno sviluppo limitato, gentile. Forse oggi diremmo – cercando la meno banale delle declinazioni di questi termini – socialmente sostenibile. A quasi 50 anni di distanza il tormento di Pasolini può ancora aiutare non soltanto a interpretare il presente, così poco distinguibile da quello che allora si offrì al suo sguardo lucido, ma anche a comprendere quanto sia importante, parafrasando le sue parole, non permettere allo sviluppo di trascurare il progresso.

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