Il cobalto, le nuove schiavitù e il modello Uber

Cristina Duranti ci ricorda che la città di Kolwezi, nella Repubblica Democratica del Congo, è la capitale mondiale del cobalto - minerale essenziale per le batterie di smartphone e auto elettriche - e sostiene che Kolwezi è l’esempio più eclatante di come la "maledizione delle risorse” coniugata con i meccanismi peggiori della globalizzazione possa devastare i diritti umani delle popolazioni locali. Le multinazionali dell’elettronica e dell’automotive dichiarano che la filiera da cui si approvvigionano per le batterie è pulita, ma Duranti mostra che la realtà è assai diversa.

Secondo stime recenti, la Repubblica Democratica del Congo detiene circa il 60% delle riserve mondiali di cobalto. Nel 2016, da questo paese politicamente fragilissimo e storicamente preda di appetiti economici globali, è stato estratto il 54% delle 123.000 tonnellate di cobalto prodotte in tutto il mondo.

La domanda di questo minerale, sotto-prodotto di rame e Nichel, un tempo considerato marginale, è determinata principalmente dall’uso nelle batterie agli ioni di litio.

Fino a due anni fa l’interesse per questo minerale era concentrato nel settore dell’elettronica. Lo shift verso l’elettrico del settore automotive, spinto dagli scandali legati alle emissioni di diesel e dagli impegni presi per ridurre l’uso di carburanti provenienti da fonti fossili, ha portato la domanda di cobalto a livelli mai raggiunti, come mostra il grafico che segue.

Mentre infatti per la batteria di uno smartphone sono necessari pochi grammi di cobalto (5-10gr) e per un laptop ne servono 30, per un’auto ne servono fino a 9kg.

Per conseguenza il prezzo del cobalto è cresciuto enormemente.

L’estrazione del cobalto nella Repubblica Democratica del Congo avviene secondo due modalità:

Large Scale Mining (LSM): il modello industriale classico, che ad oggi fornisce circa l’80% del cobalto mondiale ed è concentrato nelle mani delle poche multinazionali che, a partire dagli anni Novanta, si sono spartite le spoglie della Gécamines, azienda statale nata in epoca coloniale;

Artisinal and Small-Scale Mining (ASM): il modello incentivato dal Codice Minerario del 2002, recentemente riformato, basato su licenze di estrazione concesse ai singoli o a cooperative su Zone d’Estrazione Mineraria stabilite dal Governo. Si stima che questo modello rappresenti l’altro 20% della produzione e impieghi almeno 200,000 minatori artigianali (creseurs). Questo segmento è scarsamente regolato e vulnerabile a violazioni dei diritti umani che vanno dall’impiego di lavoro minorile nelle zone di estrazione non controllate, allo sfruttamento di manodopera a bassissimo costo da parte di intermediari collusi con autorità governative corrotte.

Deresponsabilizzazione della filiera internazionale. A causa della mancanza di trasparenza e di dati sulle condizioni di lavoro all’interno dei siti ASM, è attualmente impossibile garantire che la filiera del cobalto nel suo complesso rispetti gli standard internazionali di sicurezza e diritti umani stabiliti dalle linee guida dell’OECD. Inoltre, poiché il cobalto della RDC non è un “minerale dei conflitti”, non rientra tra quelli altamente regolamentati (3TG), che sono invece soggetti alla legge USA Dodd-Frank e al nuovo regolamento UE.

Questi gap e i relativi effetti sulla condizione delle popolazioni che vivono nelle zone minerarie sono stati portati a conoscenza del mondo da un primo rapporto di Amnesty International del 2015 e da uno più recente del 2017 (This is What we Die For, 2015 e Time to Recharge, 2017), in cui vengono documentati il lavoro minorile diffuso nelle miniere di cobalto, i danni ambientali e le condizioni di lavoro altamente rischiose per i creseurs. A questi sono seguiti articoli e reportage internazionali di SkyNews, Washington Post e CBS che hanno spinto i grandi gruppi a dare risposte immediate. Tra queste, due le iniziative maggiori, una del World Economic Forum (Global Battery Alliance) e una della Camera di Commercio Cinese dei Metalli (Responsible Cobalt Initiative), con l’obiettivo di effettuare un monitoraggio più accurato dell’applicazione delle regole internazionali lungo tutta la filiera. Tuttavia, a distanza di due anni, le condizioni socio-economiche delle comunità locali non sono migliorate, anzi in molti casi, la “corsa al cobalto” le ha fortemente esacerbate.

“Maledizione delle risorse” e modello UBER: una combinazione dagli effetti devastanti. Che l’economia di Kolwezi (e di tutto l’ex-Katanga) soffra della ben nota maledizione delle risorse (resource curse o Dutch disease) si evince facilmente dall’osservazione di alcune condizioni endemiche:

  • I settori economici alternativi all’estrazione mineraria sono inesistenti o sviluppati in maniera non sufficiente a rispondere alle esigenze di impiego di coloro che non possono/vogliono lavorare nelle miniere;
  • Oligopoli e cartelli di gruppi internazionali esercitano un’influenza determinante in tutti i settori della vita locale, determinando regole e prezzi sul mercato minerario senza controlli né contrappesi efficaci;
  • Il settore dei servizi e l’agricoltura non sono sviluppati in maniera adeguata a rispondere alla domanda locale, al punto da determinare la necessità di importare anche i prodotti di base, rendendoli scarsi e inaccessibili per la popolazione più povera.

L’odierna corsa al cobalto, preceduta da quella al rame, all’uranio e alla gomma, fin dai primi anni del ‘900, invece di arricchire una comunità nata proprio intorno alle miniere, ha depauperato le scarse risorse esistenti, distruggendo qualsiasi mezzo di sussistenza alternativa e determinando condizioni di dipendenza vicine alla schiavitù per i più vulnerabili.

Con la decadenza della gestione statale del settore estrattivo, infatti, si è verificata prima una corsa all’accaparramento delle concessioni e delle strutture industriali da parte delle grandi multinazionali che, grazie ad accordi di favore con il governo, hanno redistribuito sotto forma di tasse e dividendi percentuali insignificanti dei profitti realizzati. Più recentemente, grazie alla riforma del codice minerario, che mirava a redistribuire, anche se in maniera confusa, la ricchezza, dando a tutti i congolesi la possibilità di ottenere licenze, si è consolidato un modello economico “misto”, adottato soprattutto dalle aziende cinesi, che potremmo definire “UBER-mining model”, che sta ulteriormente esacerbando le disuguaglianze socioeconomiche.

Tale modello, si basa su accordi strategici con il governo nazionale per la concessione di diritti di sfruttamento in zone nelle quali spesso sono presenti comunità ben insediate, che vengono delocalizzate forzatamente e a condizioni non sempre rispettose dei diritti umani. Le aziende effettuano su queste concessioni investimenti iniziali minimi, con infrastrutture essenziali, impiegando direttamente pochissimo personale locale e sfruttando la forza lavoro non istruita, non regolamentata e disponibile in quantità pressoché illimitata, dei creseurs, gli artigiani minerari.

Nelle -poche- zone di estrazione “ufficiali” ( ZEA – Zone d’Exploitation Artisanal), la regolamentazione è migliorata in modo contenuto negli ultimi due anni e il lavoro minorile si è ridotto, ma le condizioni di lavoro restano inaccettabili per gli standard internazionali e l’asimmetria tra i minatori artigianali che quotidianamente entrano nelle concessioni, estraggono il cobalto e lo vendono al concessionario, resta elevatissima. I creseurs, essendo fungibili e non sindacalizzati, hanno potere negoziale inesistente.

Fuori da queste ZEA la situazione è -se possibile- ancora peggiore. Nel raggio di 30-50 km da Kolwezi continuano a funzionare miniere meno controllate in cui entrano creseurs indipendenti o gestiti da caporali. Qui polizia e guardia nazionale, invece di proteggere e tenere a distanza i bambini, richiedono a tutti, indistintamente, pagamenti a seconda della capacità di trasportare minerale all’esterno. Da qui il minerale lavato dalle bambine e dalle donne in pozze inquinate e malsane, viene acquistato da intermediari collegati alle aziende maggiori e portato nei depositi locali, fino ad arrivare ai magazzini delle grandi aziende, soprattutto cinesi. Distinguere il minerale estratto in zone più regolamentate (ma comunque soggette al modello UBER) e quello proveniente dalle miniere più “anarchiche” è pressoché impossibile al momento. Tutto finisce in grandi camion che esportano il semilavorato all’estero per la raffinazione finale. Questo modello estrattivo low cost consente di continuare ad alimentare la fame di cobalto in questa fase di boom della domanda internazionale.

Così, mentre i mercati globali continuano a spingere in alto il valore del cobalto, migliaia di bambini, ragazze e donne nella provincia di Lualaba continuano a vivere in condizioni di povertà estrema, costretti a impegnarsi nelle peggiori forme di lavoro e sfruttamento sessuale, per mancanza di mezzi di sostentamento alternativi e di istruzione. Le principali multinazionali del settore elettronico e automobilistico che traggono profitti immensi da questo sistema di approvvigionamento, si rifiutano di assumere responsabilità diretta di tali violazioni dei diritti umani e scaricano “a monte”, sui fornitori, il compito di realizzare i necessari investimenti sociali che possano eliminare o, almeno, mitigare queste condizioni.

Negli ultimi cinque anni, un progetto della Fondazione Internazionale Buon Pastore, realizzato a Kolwezi in partenariato con l’associazione locale Bon Pasteur, è riuscito ad ottenere ottimi risultati nell’eliminazione del lavoro minorile, attraverso la mobilitazione delle comunità di creseurs, la creazione di opportunità economiche alternative e la riduzione della violenza di genere. In un recente seminario coordinato da Jeffrey Sachs sulle nuove schiavitù, presso la Pontificia Accademia delle Scienze, questo progetto è stato indicato come modello di protezione dei più vulnerabili e di promozione di uno sviluppo che mette al centro la dignità delle persone. Sachs ed altri leader politici e religiosi si sono impegnati a chiedere alle multinazionali dell’elettronica e automotive di sostenere questo modello per eliminare il lavoro minorile e le altre violazioni dei diritti umani nella filiera del cobalto. Di questo progetto si darà conto nel prossimo numero del Menabò.

Schede e storico autori