Il cinema di Ken Loach, uno specchio del lavoro

Emanuele Di Nicola propone un’analisi del cinema di Ken Loach, nell’ottica dei cambiamenti del mondo del lavoro rappresentati nei suoi film. In occasione dell’uscita in sala di Sorry We Missed You, Di Nicola esamina la strada percorsa dal cineasta prestando particolare attenzione alle condizioni di lavoro: dal patto di solidarietà degli operai in Riff-Raff al sindacalista tenace di Bread and Roses, fino all’ingresso nel nuovo millennio, l’esplosione della precarietà e il lavoratore solo con se stesso di Io, Daniel Blake e Sorry We Missed You.

Il mondo del lavoro cambia insieme ai film di Ken Loach. Il regista inglese, arrivato oggi a 83 anni, è indubbiamente il maggiore cineasta in attività sul tema dell’occupazione: da oltre cinquant’anni, infatti, segue le evoluzioni del lavoro e le mette in scena nei suoi racconti. L’ultimo è Sorry We Missed You, presentato al Festival di Cannes 2019 e nelle sale italiane dal 2 gennaio 2020: la storia di Ricky, un corriere a Newcastle oggi (driver, in inglese) che con il suo furgone consegna pacchi per un’azienda in franchise, inquadrato in un regime che viene definito di auto-impiego (self-employment).

Prima di addentrarsi nel film, però, occorre ricordare che questa è solo l’ultima tappa di un percorso lavoristico coerente e curioso, frutto di uno studio decennale, in cui Loach e i suoi collaboratori hanno sempre indagato l’universo dell’impiego e il suo lato oscuro. Mettendo a confronto i titoli del regista nell’ultimo trentennio, dunque, si possono ricostruire trent’anni di lavoro svilito e sfruttato, pieno di ombre, insieme all’evoluzione della lotta per migliorare le condizioni. Se le storie in questione riguardano naturalmente il Regno Unito, la loro collocazione geografica non è però limitante: al contrario il terreno britannico si fa metonimia del lavoro universale, che è uguale (o anche peggiore) in molti altri Stati.

Il percorso si può iniziare da Riff-Raff (1991), il film che vinse il premio Fipresci al Festival di Cannes di quell’anno e impose il regista inglese all’attenzione della comunità cinematografica internazionale, dopo un periodo di lavori televisivi o meno noti. Riff-Raff è la storia di un gruppo di operai che lavorano in un cantiere edile a Edimburgo: sono proletari nel Regno Unito degli anni Novanta, impegnati a costruire case per ricchi in cui loro non abiteranno mai. Siamo in piena epoca thatcheriana: seppure tecnicamente il governo Thatcher sia decaduto nel 1990, la sua impronta è più che mai presente nella politica di privatizzazioni e in particolare nella riduzione del grado di sicurezza sul lavoro. Il manipolo di personaggi di cui seguiamo le gesta (il principale è Stevie interpretato da Robert Carlyle) lavora a giornata, è pagato poco e male, non viene abbastanza protetto ma tutto sommato può vantare un punto a suo favore: il vincolo di solidarietà tra gli operai. I lavoratori umili qui si capiscono, secondo Loach, possono litigare a vicenda ma tutto sommato si sostengono. Ecco perché, quando un incidente sul lavoro colpisce un giovane migrante africano, alcuni suoi colleghi decidono di “vendicarsi”: compiono il gesto, quasi luddista, di dare alle fiamme quel cantiere che ogni giorno li fagocita senza diritti. La solidarietà c’è.

Nel corso di quel decennio l’abisso del mondo del lavoro si chiama disoccupazione. Loach la guarda in faccia in Piovono pietre (Raining Stones, 1993), in cui il protagonista è proprio un disoccupato: Bob incarnato da Bruce Jones, che si muove a Manchester (cambiano le città ma non la sostanza) e si districa nelle trovate più varie per portare a casa la giornata. All’inizio lo vediamo intento a rubare una pecora, per portarla alla macellazione e così farsi pagare la carne. Quando proverà a sottrarre le zolle di erba da un rinomato campo da golf, nel piccolo furto si ritrovano perfino tracce di lotta di classe, poveri contro ricchi, i primi che rubano agli altri per mangiare. In realtà lo scopo di Bob è ben preciso: comprare un vestito nuovo per la figlia che sta per fare la prima comunione. Alla rincorsa di questo obiettivo chimerico, l’uomo farà tutti i lavoretti possibili, non sarà mai choosy, fino alla scelta inevitabile di rivolgersi a uno strozzino. Questa è una storia di non lavoro, del dramma di non avere un impiego che intanto quel mondo lo descrive, un universo di paghe a ore e deboli sfruttati per poche sterline. Il concetto viene riassunto da Loach nel geniale titolo, sempre attuale, che riprende un proverbio inglese: “Quando piove per i poveri piovono pietre”.

Tracce di lavoro si trovano in tutte le opere successive, anche in quella tematicamente incentrate su altri nodi. Se Ladybird Ladybird (1994) racconta la storia della proletaria e disagiata Maggie Conland, a cui gli assistenti sociali sottraggono i numerosi figli, la pellicola rappresenta puntualmente alcune forme di occupazione, con particolare riferimento al sistema di welfare inglese che per Loach storicamente non funziona. Ecco che gli assistenti sociali chiamati a prelevare i minori sono inscenati attraverso un’irruzione violenta a casa della donna, in una costruzione della sequenza che in altri film viene riservata ai criminali di professione (una simile irruzione, in Piovono pietre, la compie uno strozzino). È il modo provocatorio, nel discorso del regista, per avvicinare polemicamente le figure fuorilegge con gli emissari dello Stato: quando un sistema è sbagliato, evidentemente, i villain dei suoi film cambiano barricata ma cinematograficamente sono tutti sullo stesso piano.

Allo stesso modo La canzone di Carla (Carla’s Song, 1996) non è un film sul lavoro, bensì segue la parabola della giovane profuga giunta in Scozia per fuggire dalla guerra in Nicaragua tra Contras e Sandinisti. Il lavoro viene toccato lateralmente ma in modo decisivo: la persona che la aiuta, George (ancora Carlyle, feticcio loachiano di quegli anni) è infatti un autista di autobus che riesce a farla scappare. In tal caso un lavoratore interviene in soccorso di una migrante, in un rinsaldamento di quella vicinanza che già si era vista in Riff-Raff.

A inaugurare il nuovo millennio nel 2000 esce Bread and Roses, il film che più degli altri è dedicato al sindacato: a difendere i diritti dei janitors, i lavoratori messicani che puliscono i grattacieli americani, interviene la memorabile figura di Adrien Brody, attivista agguerrito che organizza manifestazioni per la dignità del lavoro. Certo, il capitale è un nemico spietato e sconfiggerlo è impensabile, ma nel tratteggio del sindacalista tenace e resistente c’è tutto l’omaggio di Loach alle trade unions, al ruolo centrale delle organizzazioni dei lavoratori quando esse lo svolgono bene e sporcandosi sul campo.

Si arriva poi a un titolo fondamentale nella filmografia dell’autore, ovvero Paul, Mick e gli altri (The Navigators, 2001): ancora Thatcher e ancora privatizzazioni, in particolare quella delle ferrovie britanniche con gli effetti che vengono mostrati nel racconto ambientato nel 1995. Sceneggiato proprio da un ex dipendente delle ferrovie, Rob Dawber, l’intreccio segue l’arrivo dei privati nel settore delle rotaie, con la riduzione delle tutele acquisite, dei diritti sindacali e della sicurezza. Come se non bastasse, l’azienda fallisce comunque: gli ex operai del titolo italiano fondano una società interinale per cercare di riprendere le stesse mansioni, con bassi salari e condizioni peggiori. Il film si chiude con un incidente sul lavoro che proprio gli operai sono costretti a occultare. Le colpe del thatcherismo, di cui Loach è nemico giurato, ricadono qui sulla carne e sangue delle persone: malgrado tutto però i personaggi fanno gruppo, ancora una volta si sostengono, provano a camminare insieme.

È questo l’ultimo titolo in cui è presente un patto tra i lavoratori deboli, che almeno ci provano a tenere la linea: il cinema loachiano del nuovo millennio si fa gradualmente più cupo e privo di speranza. Ma in realtà, a ben vedere, si limita ancora una volta a fotografare il mondo del lavoro nel suo tempo: ecco allora la storia di due ragazze che aprono un’agenzia interinale e iniziano a sfruttare altri lavoratori più deboli (In questo mondo libero…, 2007) oppure la commedia La parte degli angeli (The Angels’ Share, 2012) dove i poveri rubano il whiskey dei ricchi. Ed eccoci soprattutto ai film di oggi, in particolare Io, Daniel Blake (2016) e Sorry We Missed You (2019).

Nel primo, il carpentiere cinquantanovenne Daniel resta incastrato nel gorgo della burocrazia, senza l’assegno di malattia che gli spetta né la possibilità di tornare a lavorare; nel secondo, il corriere Ricky cade nella trappola dell’auto-impiego, un termine che maschera lo sfruttamento e porta alla degradazione estrema della sua vita famigliare, alla faccia del lavoro autonomo. Negli ultimi due film di Loach non c’è più il sindacato: i protagonisti sono persone comuni, non organizzate né iscritte a partiti, affrontano da soli l’inferno dell’impiego. Il capitalismo è il nemico invisibile che ha vinto: si è rotto il vincolo di solidarietà tra lavoratori che c’era fino agli anni Novanta, è in atto una guerra tra poveri e gli sfruttati si scontrano spesso l’uno contro l’altro (emblematica in tal senso è la ricostruzione del magazzino dei pacchi in Sorry We Missed You, con i driver che si rubano il lavoro a vicenda). Inoltre, mentre prima lo spettro era la disoccupazione, adesso l’erosione dell’individuo si trova nel continuare a lavorare: un lavoro povero e senza diritti, che però non si può interrompere, deve continuare a qualsiasi costo come attesta il potente finale dell’ultimo film. Esiste un antidoto? Per Ken Loach è nella tavola familiare: i parenti di Ricky, la moglie e i due figli, si ritrovano continuamente a cena. Parlano, litigano, si scontrano anche duramente, il padre dà uno schiaffo al figlio come conseguenza della propria condizione, ma sono una famiglia: da qui, dal nido domestico e dagli affetti personali, sembra arrivare l’unica ipotesi di luce in una società che ci ha già lasciati soli. Il regista rappresenta il dramma del lavoro e, con il gesto politico di metterlo in scena da oltre mezzo secolo, di fatto ne allevia la sofferenza attraverso la catarsi del cinema.

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