Il capitalismo italiano: una specializzazione forzata?

Filippo Belloc intervendo nel dibattito sul capitalismo italiano, collega l’evoluzione recente del nostro sistema industriale alla regolamentazione globale della proprietà intellettuale. Belloc sostiene, in particolare, che il cosiddetto “monopolio globale delle idee”, imposto con gli accordi TRIPs, potrebbe aver influito in modo significativo sulla specializzazione industriale del nostro Paese, riducendo le opportunità di investimento e innovazione proprio nei settori in cui l’Italia aveva costruito il proprio successo industriale nel XX secolo.

L’arretramento della performance tecnologica dell’Italia rispetto alle principali economie sviluppate, osservato negli ultimi vent’anni, è un fenomeno complesso, che per molti aspetti ha radici profonde nelle caratteristiche strutturali del capitalismo italiano. In questo articolo, cercherò di contribuire al dibattito su tale fenomeno, aperto sul Menabò con gli interventi di Pagano, di Simoni, e di Felice, Nuvolari e Vasta, spiegando come le regole del capitalismo globale possano aver influenzato il sentiero di sviluppo tecnologico del sistema italiano.

In quello che potrebbe essere definito il “monopolio globale delle idee” (Pagano, 2014), cioè un sistema globale di privatizzazione della conoscenza tecnologica attraverso gli Intellectual Property Rights (IPRs), i Paesi maggiormente dotati di risorse intellettuali proprietarie si trovano nella posizione di poter escludere i Paesi privi di tali assets dalla possibilità di utilizzare le conoscenze più evolute nei propri sistemi produttivi. Un aspetto importante di tale fenomeno è legato all’emergere di una “snowball dynamics” nei processi innovativi, secondo cui i Paesi riuscirebbero a sfruttare maggiori opportunità di investimento – via via accrescendo le proprie dotazioni di IPRs – nei settori laddove le proprie imprese già detengono tutte le conoscenze proprietarie funzionali allo sviluppo di nuova tecnologia, mentre i Paesi con tecnologie relativamente più arretrate rischiano di stagnare in un equilibrio di bassi investimenti e bassa innovazione.

La tesi di questo articolo è che questa fonte di alterazione dei vantaggi comparati dei Paesi potrebbe aver coinvolto in modo significativo anche il modello produttivo italiano, in particolare in coincidenza con la ri-definizione della disciplina internazionale di tutela della proprietà intellettuale, seguita agli accordi TRIPs (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights) siglati con la nascita del WTO nel 1994. Da allora, infatti, l’evoluzione industriale del nostro Paese sembra aver registrato un netto cambio di passo, seguendo quella che potrebbe essere definita una “specializzazione forzata”.

Il ragionamento prende spunto da uno studio che con lo stesso Pagano abbiamo condotto sul tema della privatizzazione globale delle conoscenze e sugli effetti che tale privatizzazione genera sulle opportunità di investimento e di sviluppo tecnologico.

Nelle economie capitalistiche contemporanee, il fatto che la conoscenza sia tutelata dagli IPRs introduce un fattore di escludibilità su un bene, la conoscenza, per sua natura non rivale. Il brevetto, infatti, fornisce a chi lo detiene la facoltà di escludere altri operatori economici dall’avere accesso alla tecnologia su cui il brevetto insiste. Mentre ciò, da un lato, allevia le conseguenze negative di un ben noto fallimento del mercato, dall’altro genera effetti rilevanti quando le tecnologie si presentano come fortemente interdipendenti. In particolare, il proprietario di una certa tecnologia può sia impedire ad altri l’utilizzo di una tecnologia più complessa che incorpora la componente proprietaria (simultaneous anticommons) sia impedire l’impiego della sua tecnologia per lo sviluppo di nuova conoscenza (sequential anticommons). Astrattamente, si potrebbe ritenere che questi due fenomeni non costituiscano un problema negli scambi tecnologici, se i costi di transazione nel mercato globale delle idee sono nulli. Questa non è altro che una conseguenza del Teorema di Coase: se un’impresa sa di poter fare un uso remunerativo di una certa tecnologia proprietaria, allora sarà anche disponibile ad acquistarne la licenza d’uso. Tuttavia, il mondo reale fornisce molti motivi per ritenere che i meccanismi di allocazione efficiente delle tecnologie possano incepparsi. Elevati costi di transazione, ad esempio, possono emergere nelle operazioni di ricerca di una controparte dotata proprio della tecnologia di cui si ha bisogno, a seguito dell’incertezza sugli usi possibili e sulla qualità della tecnologia, e nei molti aspetti inerenti alla complessità contrattuale negli accordi di trasferimento tecnologico. Ne risulta il rischio di una allocazione delle tecnologie tutt’altro che efficiente, in cui le imprese, laddove incapaci di sostenere gli elevati costi di transazione, tendono a sfruttare opportunità di investimento e di sviluppo solo nell’ambito ristretto del settore o segmento di settore in cui già detengono sufficienti assets intellettuali proprietari. E’ chiaro che l’estensione su scala globale, a partire dal 1994, dei rigidi regimi brevettuali fino agli anni ’90 adottati prevalentemente dagli USA non ha fatto che rafforzare questo meccanismo di “specializzazione forzata”, imponendolo ai Paesi che fino ad allora avevano beneficiato di standards di tutela più blandi, e avvantaggiando invece le imprese e i sistemi produttivi con un bagaglio di IPRs relativamente più ricco. Nel già citato lavoro con Pagano, in particolare, abbiamo misurato il significativo rialzo della magnitudo della correlazione tra specializzazione brevettuale (quota dei brevetti detenuti da un Paese in un certo settore sui brevetti totali di quel Paese) e specializzazione degli investimenti (quota degli investimenti di un Paese in un certo settore sugli investimenti totali di quel Paese) proprio in corrispondenza dei TRIPs, analizzando un campione di 26 Paesi dell’area OECD.

Come si lega tutto questo alla recente evoluzione dei capitalismi più sviluppati e di quello italiano? I dati presentati nello stesso lavoro ci dicono, anzitutto, che dopo i TRIPs gli USA hanno continuato a investire in maniera preponderante nei settori cosiddetti a innovazione radicale, cioè quei settori (come l’ICT, gli strumenti medici e i prodotti elettronici) dove l’innovazione procede a salti attraverso idee totalmente innovative e particolarmente adatte a essere oggetto di brevettazione, e nei quali gli USA già detenevano importantissime risorse intellettuali proprietarie. Questo nonostante un certo impegno nel difendere la propria quota dei brevetti sul totale-mondo anche nei settori a innovazione incrementale (come la meccanica e la chimica industriale), dove l’innovazione segue un percorso bottom-up e si fonda anche su conoscenze tacite (non brevettate) e segreti industriali. La Germania, invece, sembrerebbe aver intrapreso un riposizionamento dando relativamente più spazio, rispetto a quanto non avesse fatto fino a metà degli anni ‘90, all’innovazione in ICT, difendendo in tale settore la sua posizione anche su scala globale e cedendo al contempo qualcosa nell’ingegneria dei trasporti, civile e meccanica (uno dei suoi fiori all’occhiello). Lontano da noi, per allargare la prospettiva, Paesi dell’estremo oriente, come la Sud Corea, hanno saputo approfittare delle nuove condizioni, aumentando in modo quasi esponenziale le proprie quote brevettuali su scala globale sia nella meccanica sia nella strumentazione elettronica di precisione.

E veniamo, dunque, all’Italia. L’Italia sembrerebbe, ancora una volta, aver intrapreso un percorso ibrido. Da un lato, si è fortemente de-specializzata, all’interno del proprio sistema innovativo, nei settori della farmaceutica e della chimica, perdendo in tali settori importanti quote brevettuali su scala globale. Dall’altro, ha visto aumentare la quota relativa di brevetti nell’ICT rispetto alla sua produzione brevettuale interna, ma in modo insufficiente a competere su scala globale e perdendo, proprio nell’ICT, molto terreno rispetto alle altre economie OECD.

In sostanza, il rafforzamento della tutela della proprietà intellettuale seguito ai TRIPs sembrerebbe aver alterato i vantaggi comparati dei Paesi, modificando le traiettorie di sviluppo innovativo in modo asimmetrico. I dati che ho brevemente descritto mostrano come il sistema globale degli IPRs abbia sostanzialmente avvantaggiato le economie con un modello di capitalismo del tipo market-based, come gli USA, già specializzate nei settori a innovazione top-down che quel tipo di regolamentazione brevettuale tende a promuovere. Mentre, dall’altro lato, le economie ricomprese nel modello “coordinato” (tipico dell’Europa Continentale, e particolarmente adatto a supportare settori a innovazione incrementale) sono state spinte ad adattare il proprio percorso di specializzazione al nuovo regime globale, in una certa misura sacrificando alcune delle tradizioni industriali che ne avevano segnato il successo nella seconda metà del XX secolo. Tra queste ultime economie, alcune hanno saputo trovare occasioni di sviluppo (come la Germania, tuttavia con alcune conseguenze negative, anche significative, ad esempio nel sistema delle tutele dei lavoratori); altre hanno avuto meno fortuna (come l’Italia), optando per una “ibridazione” istituzionale fatta di riforme spesso incoerenti, dal mercato del lavoro alla regolamentazione societaria (si veda il contributo di Simoni), e scontrandosi con un nuovo ordine nel mercato globale della conoscenza tendenzialmente incompatibile con la propria connotazione industriale.

Queste osservazioni di carattere generale possono avere concrete implicazioni di policy.

Ad esempio, si dovrebbe ritenere che la presunta inadeguatezza degli skills di chi entra nel mercato del lavoro, in Italia, non dipenda prevalentemente da un problema di offerta (si veda in proposito il recente National Skills Strategy Diagnostic Report dell’OECD), bensì da un problema di domanda. Se le imprese tendono a specializzarsi in ambiti tecnologici via via più ristretti e in settori poco dinamici, lasciati liberi dalla aggressiva attività brevettuale delle altre economie avanzate, esse perdono anche la capacità di capitalizzare molte delle competenze e delle eccellenze offerte dal nostro sistema formativo (questo in parte spiega la “fuga” all’estero dei laureati italiani).

Dal lato della domanda, tuttavia, strumenti di semplice natura fiscale indirizzati a creare incentivi monetari per le imprese innovative rischiano di essere, purtroppo, di scarsa efficacia. Questo potrebbe essere il caso del cosiddetto “patent box”, varato con la legge di stabilità del 2014, il quale prevede agevolazioni fiscali per le imprese titolari di brevetti e che non sembra avere la portata necessaria per aggredire un problema ben più ampio che concerne la natura stessa della specializzazione industriale del Paese. Interventi che favoriscano la messa in rete di conoscenze proprietarie tra imprese di piccole dimensioni, come il patent pooling, potrebbero invece risultare più appropriati, alla luce dell’analisi qui esposta, e meriterebbero di essere vagliati in modo più approfondito.

In conclusione, è impossibile una valutazione esaustiva del modo in cui l’Italia potrà affrontare le sfide dell’innovazione tecnologica nell’arena della competizione globale (è oggetto di ampia discussione come alcuni degli elementi che ancora caratterizzano il nostro modello di capitalismo siano inadatti a tali sfide e necessitino di interventi significativi). Ma è importante sottolineare che la direzione verso la quale la regolamentazione globale delle tecnologie proprietarie sta spingendo il nostro sistema produttivo e il nostro modello di capitalismo (ammesso che si tratti di un modello) dovrà essere al centro dell’attenzione se si vorrà intervenire per migliorare le prospettive di lungo periodo.

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