Il capitalismo immateriale e l’ascesa della ‘info-plutocrazia’

Stefano Quintarelli propone alcune delle tesi principali contenute nel suo recente volume ‘Capitalismo immateriale’ che analizza le conseguenze sociali ed economiche dell’espandersi della dimensione immateriale dei processi produttivi. In particolare, Quintarelli sostiene che al tradizionale conflitto tra capitale e lavoro si possa sostituire quello tra capitale e lavoro, da un lato, e informazione, dall’altro e avanza anche alcune riflessioni sulle possibili vie di uscita politiche dai rischi del capitalismo immateriale.

Dove siamo. La nostra capacità di risolvere problemi, di ottimizzare l’uso di risorse, è aumentata enormemente negli ultimi anni. Basti pensare alla disponibilità di informazione e possibilità di collaborazione dei ricercatori in campo medico, energetico o dell’alimentazione; all’ottimizzazione di trasporto e logistica grazie a sistemi di navigazione con pieno coordinamento e conoscenza; al controllo fine della produzione ed alla riduzione delle scorte; alla dematerializzazione di molte attività, che ha ridotto l’impatto materiale delle stesse sul pianeta.

Per oltre diecimila anni il mondo ha vissuto cambiamenti drastici ma molto più lenti, che richiedevano generazioni per dispiegarsi, consentendo alla società di darsi tempi adeguati per la comprensione e l’adattamento (anche se le transizioni sono state in alcuni casi violente). L’attuale processo di (radicale) digitalizzazione delle relazioni socio-economiche, ciò che in buona parte sostanzia la transizione verso il ‘Capitalismo immateriale’, si sta dispiegando in modo repentino. Parrebbe che la Divina Provvidenza sia intervenuta su un mondo che consuma risorse materiali ad un livello ben superiore alle possibilità di mantenimento, offrendo uno strumento di ottimizzazione (favorendo la transizione verso l’immateriale) impareggiabile.

La dimensione immateriale. Parlo di dimensione materiale e dimensione immateriale e non di mondi reali e virtuali. Non sono mondi ma dimensioni in quanto ogni attività umana precedentemente basata su strumenti e relazioni materiali in qualche misura è toccata dalla immaterialità. In generale l’immateriale non esclude il materiale ma lo integra, si fa supplemento nello stesso modo in cui la lunghezza non è alternativa alla larghezza ma si configura come un attributo ad essa complementare. Ed è tutto molto reale, non virtuale. Il termine “virtuale”, dal latino medievale virtualis, porta con sé un connotato di potenzialità non espressa. Ma questa dimensione immateriale, nella quale si svolgono relazioni sociali, economiche, politiche, è molto reale, non potenziale né inespressa.

Le regole base di comportamento della dimensione immateriale, sono assai diverse da quelle della dimensione materiale. Nella tradizionale dimensione materiale produrre, riprodurre, immagazzinare, trasferire, manipolare hanno costi (economici e di impatto ambientale) significativi. Nella dimensione immateriale in continua espansione questi costi sono marginali o nulli. La materialità è intrinsecamente disconnessa in quanto composta da oggetti che non comunicano tra loro; le sue frizioni richiedono tempo per essere superate, determinano usura e i rendimenti tendono a decrescere. L’immateriale, che è intrinsecamente connesso, è caratterizzato da feedback in tempo reale (e quindi possibilità di raccolta dati, analisi, personalizzazione ed adattamento), da una assenza di usura e fornisce la possibilità di rendimenti crescenti.

Salvo casi di grande standardizzazione e ripetitività, assistito da macchine specifiche, il lavoro nella dimensione materiale è svolto da persone che hanno necessità di mezzi di produzione, di oggetti in input sui cui lavorare, di cicli di riposo e di svago. Questo ha portato con la rivoluzione industriale la definizione dei turni di lavoro ed il commuting per svolgere l’attività, con conseguenti impatti sulla struttura delle città, il commercio, ecc.

Un lavoro che possa essere svolto nella dimensione immateriale, se ripetitivo, può essere svolto da macchine che non conoscono turni. Se si tratta invece di un lavoro richiedente significative dosi di creatività e relazionalità (attributi comportamentali non sviluppabili da esseri inanimati quali i robot) può essere svolto da esseri umani localizzati anche a chilometri di distanza gli uni dagli altri, beneficiando anche dell’effetto dei fusi orari per coprire l’arco della giornata.

Il cordone ombelicale digitale che lega le parti in una relazione immateriale viene sfruttato per aggiornare il prodotto/servizio fornito con frequenti rilasci e personalizzato grazie all’acquisizione e conoscenza dei dati. Tale personalizzazione si spinge fino al singolo individuo ponendo questioni nuove in merito alla disponibilità di dati come asset competitivo, alla estrema riduzione di informazioni disponibili in comune.

Fino ad oggi le informazioni disponibili in comune ad una collettività hanno sempre costituito un fattore importante per mantenerne armonia e coesione. Con la personalizzazione individuale del flusso informativo, si erode il ruolo dei media di agire da metronomo sociale. La personalizzazione delle informazioni ricevute, con gli attuali incentivi per chi gestisce gli algoritmi, determina l’esclusione di informazioni sgradite ed aumenta in chi le riceve la frequenza di messaggi di conferma delle proprie convinzioni e bias, favorendo con le cosiddette “filter bubbles” (bolle di informazioni filtrate) l’acquisizione di informazioni gradite, a prescindere dal loro grado di verità e correttezza. I costi marginali nulli nella produzione e divulgazione delle informazioni hanno eliminato le barriere di costo che costituivano una frizione alla loro creazione e circolazione. L’accessibilità di informazioni concernenti ogni tema, anche temi specialistici, prima limitata agli addetti ai lavori, è ora ubiqua a costo nullo alimentando la percezione di una riduzione estrema della distanza tra esperti, appassionati e lettori casuali. Ciò induce una percezione di appiattimento delle gerarchie che spinge alla banalizzazione dell’esperienza, un effetto moltiplicato dagli algoritmi degli intermediari dell’informazione la cui funzione obiettivo non è la correttezza dell’informazione ma la massimizzazione del tempo passato dagli utenti sui propri servizi online.

La proprietà privata, fondamento del modello occidentale di risposta alle sfide dell’industrializzazione, è radicata nelle proprietà intrinseche della materialità in cui i beni sono rivali ed escludibili. Conseguentemente i beni sono portatori di diritti, immunità, facoltà e privilegi (secondo la tassonomia proposta dal giurista statunitense W.N. Hohfeld) definiti e codificati in leggi che si fondano su rivalità ed escludibilità. Anche tutto il sistema giuridico trova un fondamento in queste due caratteristiche. Il controllo degli asset nella dimensione immateriale non avviene sulla base di rivalità ed escludibilità. Una informazione, una volta che viene comunicata a un terzo, non diminuisce la possibilità di goderne da parte di chi la comunica.

Per poterne mantenere il controllo e replicare rivalità ed escludibilità, un bene/servizio immateriale non viene posto nella piena disponibilità del ricevente come accade con un bene materiale ma spesso, se modello di business e mercato lo consentono, viene erogato in modo connesso con un controllo centralizzato della sua fruizione ed invariabilmente accompagnato da un contratto che disciplina in modo dettagliato diritti, immunità, facoltà e privilegi, che, in un braccio di ferro largamente asimmetrico, invariabilmente favorisce chi fornisce il bene/servizio rispetto a chi ne gode. Nella dimensione immateriale, la proprietà privata, per gli utenti, non esiste.

Feudalesimo tecnologico. A partire dagli anni 90 del secolo scorso, mentre i vagiti esponenziali delle tecnologie digitali (calcolo, archiviazione, comunicazione) iniziavano a diventare percepibili, la politica decise di favorirne lo sviluppo. Si parlava di società dell’informazione con l’idea – corretta – che avrebbe avuto un impatto inferiore sulle risorse del pianeta rispetto ad un modello di sviluppo basato sull’ ‘economia materiale’. Sono state così fatte alcune regole asimmetriche per favorire la concorrenza e, con essa, la nascita e la crescita di operatori di telecomunicazione alternativi e fornitori di servizi. Le modalità di monetizzazione non erano chiare, i modelli di business nemmeno, e non lo erano nemmeno i tempi in cui si sarebbe raggiunta una massa critica in grado di sostenere una economia immateriale. Un po’ alla volta queste nubi si sono diradate. La massa critica è stata raggiunta da anni e con essa sono diventati molto chiari i modelli di business e le possibilità di monetizzazione.

Per scelta non furono introdotte regole pro-competitive, perché si riteneva che avrebbero rallentato e possibilmente bloccato lo sviluppo. Si introdussero regole circa la proprietà intellettuale e la violazione dei sistemi, la responsabilità editoriale, la protezione dei minori, le indagini di giustizia, ma non in materia di contendibilità degli utenti e di concorrenza.

Gli operatori hanno imparato a sfruttare questa regolamentazione a proprio vantaggio usando le normative in materia di proprietà intellettuale per imporre condizioni contrattuali limitative per i propri utenti, sfruttando effetti rete per beneficiare di rendimenti crescenti (conquistare il primo utente, che bisogna convincere, costa molto di più che non conquistare il miliardesimo utente che prega per essere ammesso all’interazione con gli altri e spera di non esserne mai espulso) e per introdurre fattori di lock-in (vincoli di fatto nei servizi) capaci di limitare la mobilità degli utenti.

Mentre in altre industrie imponiamo portabilità del numero telefonico, del credito, del mutuo bancario, del contatore elettrico o del gas, per favorire la concorrenza, questo, online non è previsto.

Conseguentemente, chi conquista la world dominance in un settore, difficilmente potrà essere scalzato.

Quando un operatore sta per vincere in un settore, gli investitori gli riverseranno quantità di capitale immani in modo tale da farlo diventare LA scelta obbligata di fatto per quel settore. La competizione cessa di essere NEL mercato ma PER il mercato. Non si compete nel mercato dell’intermediazione delle case vacanza, ma per conquistare una posizione di leadership assoluta, inscalfibile, in una nicchia di mercato.

I costi di marketing per far adottare un servizio sono oggi l’investimento più importante in un operatore immateriale, ordini di grandezza maggiore di quelli tecnologici. Non sono operatori tecnologici, sono intermediari di mercato che intercettano una quota del valore aggiunto che fluisce tra produttori e consumatori. Si creano così mercati monopolistici o oligopolistici a due versanti, con gestori che dettano legge e, da un lato, intermediano i consumatori in via esclusiva di fatto e, dall’altro, produttori che devono sottostare alle regole per poter avere accesso al mercato (e non farli arrabbiare per non subire discriminazioni, di cui gli intermediari si riservano sempre contrattualmente il diritto). Quanti sanno che se una persona scarica un software e lo installa su un Macintosh, il relativo pagamento va al produttore del software mentre se lo fa su un iPad o un iPhone, il 30% va alla Apple? Lo stesso dicasi per un giornale, una canzone, un libro su Apple, Android, Amazon. O che il 25% del prezzo della camera (IVA inclusa) va a Booking? – praticamente il 100% del margine dell’albergatore, che deve però pagare i costi vivi, le manutenzioni e – non un dettaglio – il personale? Quanti conoscono le condizioni di lavoro di un autista di Uber (che fissa il prezzo delle corse) o di Foodora?

Rivoluzione digitale e info-plutocrazia. Non possiamo più limitare l’analisi a capitale e lavoro, dobbiamo includere anche l’informazione e la Rivoluzione Digitale che la esprime.

Possiamo pensare un futuro in cui, per ogni attività economica realizzata da produttori – capitale e lavoro – chi controlla la terza variabile, ovvero l’informazione, siano pochi intermediari monopolisti/oligopolisti (monopsonisti/oligopsonisti) che estraggono valore dal controllo della intermediazione, spremendo il valore dal capitale e, a cascata, dal lavoro?

Il capitalismo ha trovato delle modalità di rapporto tra lavoro e capitale che hanno superato il modello socialista/comunista di collettivizzazione dei mezzi di produzione. Abbiamo una parola per descrivere questa modalità, ovvero proprio “Capitalismo”.

In pochissimi anni, il tradizionale conflitto capitale-lavoro è stato avvolto e sovrastato da un altro conflitto, quello con l’informazione che, tramite il controllo della intermediazione, preme su entrambi. Quello che va acuendosi è il conflitto tra intermediatori ed intermediati, con compressione di diritti e garanzie per vaste parti sociali e con rilevante influenza politica. Un predominio che potremmo chiamare a buon titolo “info-plutocrazia”.

L’info-plutocrazia degli intermediatori si fonda su un controllo centralizzato dell’informazione, sia in termini di dati (di cui i risvolti sulla privacy sono un epifenomeno) che di processi con cui tali dati sono raccolti, elaborati, comunicati ed utilizzati. Ma è il modello opposto a quello con cui Internet è nata e si è sviluppata. Per lunghi decenni Internet è stata costruita su protocolli, ovvero regole pubbliche, che tutti potevano incorporare nei loro software, che stabilivano le modalità con cui i calcolatori (server e client) dovevano comunicare e chiunque poteva realizzare client e server e competere.

Questo approccio di chiusura, una volta che il dominante planetario si è costituito, riduce la concorrenza e riduce la biodiversità dell’infosfera, con gli effetti di cui ho parlato sopra. Il contrario dello spirito di apertura e di massima contendibilità degli utenti che ha fatto nascere e crescere internet così rapidamente.

Gli effetti della rivoluzione digitale si estendono a tutti i mercati intermediati da operatori monopolisti/oligopolisti e monopsonisti/oligopsonisti.

Riassumendo, il conflitto tra capitalisti e lavoratori indotto dalla rivoluzione industriale del diciottesimo e diciannovesimo secolo si è sviluppato nel rapporto tra capitale e lavoro con ideologie contrapposte che hanno visto dopo molti decenni la prevalenza sul modello socialista/comunista di un modello di capitalismo di massa temperato da norme di tutela e garanzia ed il dibattito tra le sponde politiche di destra e sinistra si è sviluppato sul punto di equilibrio tra queste.

Il conflitto tra intermediatori ed intermediati indotto dalla rivoluzione digitale del ventunesimo secolo si sviluppa nel rapporto tra informazione e produzione (intesa come il prodotto di capitale e lavoro) e sta iniziando un confronto sociale tra un modello centralizzato di gestione dell’informazione quale quello che si è sviluppato negli ultimi anni (e sostenuto dalle grandi multinazionali tecnologiche) ed un modello decentralizzato promosso da alcune avanguardie (filosofiche, tecnologiche, politiche, ecc.), un dibattito con differenze profonde tra chi propugna sistemi ed ambienti chiusi e chi si batte affinché siano aperti alla maggiore concorrenza e contendibilità possibile.

In breve, se il conflitto precedente era tra capitale e lavoro, quello attuale è tra informazione da un lato e capitale e lavoro dall’altro.

Quale futuro? Per quanto sarà ancora possibile mancare di rilevare questa Infoplutocrazia e questo nuovo conflitto tra intermediatori e intermediati? Potremo consentire ancora per molto tempo che essa si espanda, settore economico dopo settore economico, sperando che una nuova mano invisibile risolva i problemi? Oppure, qualcuno pensa davvero che sia possibile dis-inventare le tecnologie digitali Internet, che ne è un’espressione? O vogliamo pensare a obiettivi socialmente desiderabili che richiedono interventi politici? E che tipo di interventi?

Fino a quando impiegheremo tempo e risorse per speculare su possibili futuri con tecnologie che prospettano la decostruzione di sistemi istituzionali o intelligenze ultra-umane che sconvolgeranno alla radice la nostra civiltà, rimandando la palla in tribuna, anziché intervenire a gestire la causa del conflitto che possiamo constatare oggi? Credo che a questa sfida dobbiamo rispondere come la società occidentale ha risposto alla rivoluzione industriale, ovvero con più interventi a favore del mercato, favorendo una minore concentrazione dell’informazione e regolamentando le esternalità negative. Credo che non si debba cedere alla logica della ineluttabilità dei sistemi chiusi e ci si debba schierare convintamente con forza dal lato dell’apertura.

Per affrontare la rivoluzione digitale abbiamo bisogno di un pacchetto complessivo di provvedimenti che si fondino su principi analoghi a quelli che hanno caratterizzato l’epoca della rivoluzione industriale: nuove forme di fiscalità, innovazioni nel welfare, nei diritti dei lavoratori e dei prestatori professionali, controlli pubblici di garanzia per i consumatori e, in modo fondamentale, aumento della concorrenza, regole capaci di stimolare la competizione, la contendibilità degli utenti, l’interoperabilità dei servizi, ecc.

Ma difficilmente ciò potrà accadere senza una presa di coscienza di questo nuovo conflitto di intermediazione tra l’informazione da una parte e della produzione (cioè il combinato capitale e lavoro) dall’altra e senza che questa presa di coscienza si traduca in azione politica.

Perché questa azione politica avvenga, è necessario che gli intermediati la esigano coalizzandosi nella presa di coscienza: “Intermediati di tutto il mondo, unitevi!”

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