Il capitalismo dei monopoli intellettuali

Ugo Pagano parte dalla considerazione che nel capitalismo dei monopoli intellettuali il sistema dei diritti di proprietà e l’utilizzo delle forze produttive sono molto diversi dai precedenti modelli di capitalismo dove pure il monopolio della conoscenza favoriva l’esercizio del potere. Oggi, con la sua mercificazione, la conoscenza è diventata la componente più importante del capitale delle grandi imprese con conseguenze che Pagano illustra e che rischiano di aggravare le disuguaglianze e le tendenze alla stagnazione secolare.

Il capitalismo ha avuto caratteristiche molto differenti in diverse epoche storiche. Il tipo di capitalismo che si è affermato negli ultimi tre decenni può essere utilmente visto come un capitalismo dei monopoli intellettuali. Si tratta a mio avviso di una fase nuova del capitalismo che non era stata prevista da autori come Karl Marx e Harry Braverman che pure avevano scritto pagine ancora molto attuali sui processi di monopolizzazione della conoscenza.

 Marx  e Braverman analizzarono questi processi come un aspetto importante del conflitto fra capitale e lavoro. In particolare il principio di Babbage già considerato da Marx e i principi del Taylorismo chiarirono come il capitalismo fosse caratterizzato da una concentrazione delle conoscenze del processo produttivo. I datori di lavoro potevano sfruttare questo monopolio della conoscenza sia per rendere minimi i costi di apprendistato sia per esercitare un potere incontrastato nella organizzazione dei processi produttivi. Mentre una maggiore conoscenza veniva incorporata nelle macchine e nel management i lavoratori venivano così privati dei loro tradizionale  sapere che era stata una fonte importante del loro potere contrattuale.

A dispetto di questi importanti contributi né Braverman né Marx avevano potuto prevedere che la conoscenza non si sarebbe semplicemente concentrata nelle macchine e nel management ma  sarebbe essa stessa diventata la parte più rilevante del capitale delle grandi imprese. Questo è avvenuto anche grazie a circostanze storiche allora certamente imprevedibili che negli anni 90, dopo la fine della guerra fredda e la momentanea prevalenza di una unica superpotenza,  hanno portato alla fondazioni di nuove istituzioni globali del capitalismo come il WTO e gli annessi trattati TRIPS. Il capitalismo dei monopoli intellettuali va distinto delle precedenti forme di capitalismo non solo per comprendere la società in cui viviamo ma anche per proporre  rimedi alla tendenza verso una crescente diseguaglianza e una stagnazione forse secolare.

 Il capitalismo della prima rivoluzione industriale fu soprattutto caratterizzato dalla trasformazione di  macchinari e di risorse naturali in capitale. Il fatto che il macchinario prodotto dagli esseri umani potesse diventare parte del capitale non generò una forte opposizione. La privatizzazione della terra generò invece numerose resistenze .

 Nelle società precapitalistiche sulla terra gravavano molteplici diritti. Il potere aristocratico, legittimato anche dalla protezione data ai servi della gleba contro aggressioni esterne, permetteva il loro sfruttamento con lavori  obbligatori. I servi avevano il diritto (e anche l’obbligo) di restare sulla terra, una parte della quale era di uso comune. In queste condizioni la terra non poteva essere parte del capitale. Per questo motivo la sua privatizzazione fu spesso oggetto di conflitti sociali e di forte malessere sociale.

 Vinse una ideologia secondo la quale i terreni comuni erano necessariamente mantenuti in modo inefficiente,  come se non vi fossero state delle regole complesse per la gestione dei beni comuni. Il capitalismo della prima rivoluzione industriale si affermò soprattutto in settori che richiedevano industrie di modeste dimensioni come il tessile. Non a caso, fu caratterizzato da una esaltazione dei liberi mercati contrapposti alle corporazioni e alle servitù del sistema feudale.

La seconda rivoluzione industriale ebbe invece come epicentro lo sviluppo delle ferrovie, i materiali ferroviari e poi l’industria automobilistica e la chimica. In Europa, Stati Uniti e Giappone emersero enormi complessi industriali e le  concentrazioni di potere economico che ne seguirono resero difficile la conciliazione fra libero mercato e capitalismo e anche tra quest’ultimo e la democrazia.

Con un certo grado di semplificazione si può sostenere che furono seguite due strade diverse per superare queste contraddizioni lungo le quali si generarono tipologie di conflitti sociali e di organizzazione della produzione che si rafforzarono a vicenda.

La prima, prevalente negli Stati Uniti, consisteva in una dispersione dei poteri che rendesse il capitalismo coerente con la democrazia. La legislazione antitrust, partita già con lo Sherman Act del 1890,  veniva estesa con il Clayton Act del 1914 per limitare la possibilità di partecipazioni incrociate. Oltre a leggi antitrust, i provvedimenti fiscali contro le piramidi limitarono la possibilità di controllare molto più capitale di quanto se ne possedesse. Si creavano così le condizioni per la crescita di enormi imprese ad azionariato disperso governate da estese gerarchie manageriali.

La seconda strada, prevalente invece in Europa, puntò invece su un bilanciamento dei poteri.  Socialdemocrazia e sindacati offrirono un contrappeso al potere economico dei capitalisti e una strada diversa da quella americana per conciliare democrazia e capitalismo.

Nella terza rivoluzione industriale, che stiamo vivendo, comunicazione e informatica hanno indotto cambiamenti radicali in tutti i settori produttivi e nella nostra stessa vita quotidiana. La diffusa programmazione e automatizzazione dei processi produttivi e la rapida trasmissione e condivisione delle informazioni sono stati da molti visti come i segnali più evidenti dell’avvento di una nuova società della conoscenza. Questa idea è stata rafforzata dalla scoperta che anche gli esseri viventi contengono dei programmi che possono essere analizzati dai computer ed essere opportunamente modificati. Le vicende legate agli sviluppi dei vaccini durante la pandemia che viviamo costituiscono un esempio delle possibilità offerte da  queste nuove tecnologie.

Il Covid-19 è stato rapidamente sequenziato in Cina e la sequenza, tradotta nel linguaggio del computer, è stata diffusa in tutti il laboratori del mondo permettendo di elaborare degli RNA messaggeri che dessero istruzioni alle cellule umane di produrre un pezzo innocuo di proteina del virus contro cui poi il nostro organismo potesse produrre degli anticorpi.

Questa economia ad alta intensità di conoscenza accese alla fine del secolo scorso la speranza che si potesse rilanciare il ruolo delle strutture di ricerca pubblica i cui risultati fossero messi a disposizione di tutti su mercati aperti e concorrenziali. Questo era per esempio successo per alcune straordinarie innovazioni come il vaccino antipolio che avevano cambiato la qualità della vita degli esseri umani. I due inventori dei vaccini antipolio Salk e Sabin  si erano rifiutati di brevettare i loro vaccini e si stupirono che si potesse pensare di farlo. Numerosi vaccini furono resi disponibili per contrastare  malattie che avevano per secoli afflitto il genere umano e il cosiddetto influenza network ha fornito gratuitamente a tutti i produttori la composizione dei vaccini per l’influenza stagionale che vengono aggiornati alla nuova variante due volte all’anno.

Altro esempio molto rilevante furono Internet e il World Wide Web (WWW) che sono stati resi disponibili a tutti dopo essere stati inventati, il primo, dai militari e università americane e il secondo dal CERN di Ginevra. In poche parole ci si poteva aspettare che la cosiddetta società della conoscenza fosse caratterizzata da una scienza aperta e da mercati aperti.

La conoscenza ha purtroppo cambiato il capitalismo molto meno di quanto il capitalismo abbia cambiato la conoscenza. Con l’istituzione del WTO e con gli accordi TRIPS del 1994 si è infatti verificata una privatizzazione della conoscenza che ha cambiato la società più  di quanto avvenne con la recinzione delle terre. I terreni recintati limitarono solo le libertà delle persone che vivevano su quelle terre o in loro vicinanza. La privatizzazione della conoscenza, concordata a livello globale come condizione del commercio internazionale, limita le libertà di tutti in tutte le parti del mondo.

Le recinzioni delle terre potevano evitare un loro improduttivo affollamento ma questa giustificazione non può certamente valere per la conoscenza. Una stessa conoscenza può  essere simultaneamente usata da tutti.  La conoscenza, invece, diventa meno produttiva se è spezzettata in piccoli campi appartenenti a proprietari diversi. Non a caso la forza e il potere monopolistico delle grandi multinazionali dipende dalla possibilità che esse hanno di unificare parzialmente questi campi e di usarli per molteplici usi. Si verifica così un ulteriore paradosso: l’economia ad alta intensità di conoscenza che grazie all’uso intensivo di un bene utilizzabile simultaneamente da tutti potrebbe favorire piccole unità produttive permette invece che si affermino giganteschi monopoli e che si crei una gerarchia fra imprese detentrici di monopoli intellettuali e imprese delegate alla sola produzione fisica dei beni.

Le mega-imprese degli ultimi decenni sono diventate sia monopoliste, grazie alla proprietà di brevetti e progetti, sia monopsoniste grazie alla proprietà dei marchi e delle piattaforme che intermediano fra venditori e acquirenti di prodotti e servizi.

Le posizioni di monopolio e di monopsonio tendono a rafforzarsi nel tempo. Il monopolio della conoscenza favorisce l’accumulazione di ulteriore conoscenza per il semplice fatto che la conoscenza è sia un input per nuova conoscenza che un output delle conoscenze passate – un processo che  si accentua con l’intelligenza artificiale e i dati che raccolti dalle piattaforme. A questi processi cumulativi di crescita si contrappongono i circoli viziosi delle molte imprese in cui l’assenza di proprietà intellettuale non rende conveniente investire in capacità innovative e la  carenza di queste ultime  alimenta la  penuria di proprietà intellettuale. Inoltre come ha notato Cecilia Rikap una volta raggiunta una certa dimensione le imprese monopoliste possono decentrare persino i processi innovativi alle imprese più piccole perché le singole innovazioni hanno valore solo all’interno dell’enorme ammontare di proprietà intellettuale controllata dalle grandi imprese monopoliste. In altre parole il monopolio delle imprese-capofila in  una catena del valore permette loro di decentrare a condizioni spesso predatorie non solo molti processi produttivi ma anche alcune fasi dello stesso processo innovativo.

La gerarchizzazione fra imprese mina i tentativi di conciliare democrazia e capitalismo emersi in seguito alla seconda rivoluzione industriale. Questi tentativi si basavano sull’idea che nella stessa impresa si producessero sia conoscenze sia beni materiali e servizi. L’espulsione di molte fasi della produzione fisica rende difficile sia la dispersione dei poteri sia il bilanciamento dei poteri con cui rispettivamente Stati Uniti e Europa avevano cercato di conciliare democrazia e capitalismo.

La crescita dei beni capitali intangibili ha costituito una base per creare un numero crescente di azioni e altri tipi di finanza che, per quanto di proprietà di molti, sono gestite da fondi sempre più concentrati sbilanciando così ancora di più i rapporti di potere a favore del capitale.

La gerarchizzazione fra imprese diverse e lo sviluppo abnorme di monopoli e finanza hanno provocato una enorme crescita della diseguaglianza che mina la sostenibilità sociale del capitalismo dei monopoli intellettuali. Inoltre il rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale dovuto agli accordi TRIPS contenuti nei documenti istitutivi del WTO del 1994 ha solo inizialmente incentivato gli investimenti ma poi ha contribuito a bloccarli ed ha causato una prolungata stagnazione che sta assumendo caratteristiche secolari. Questo è coerente con le caratteristiche che hanno i diritti di proprietà intellettuale. Un loro rafforzamento rende più convenienti gli investimenti innovativi che permettono di conquistare delle solide posizioni di rendita monopolista. Al tempo stesso queste posizioni di monopolio costituiscono un forte disincentivo per nuovi investimenti innovativi che possono essere bloccati dai detentori dei diritti di proprietà intellettuale esistenti. Il profilo temporale dei due effetti è molto diverso. L’effetto incentivante è immediato mentre quello bloccante si accumula nel tempo. Il rafforzamento dei diritti di proprietà intellettuale può quindi spiegare sia il boom di investimenti degli anni 90 sia la successiva crisi e stagnazione  che portò fra l’altro a convogliare i risparmi verso impieghi legati a bolle speculative.

Il capitalismo dei monopoli intellettuali costituisce una nuova forma di capitalismo ben distinta dalle precedenti sia per la natura delle forze produttive prevalentemente impiegate sia per i diritti di proprietà che si configurano spesso come dei monopoli su beni non rivali. Esso conduce a un aumento della diseguaglianza e una stagnazione secolare e costituisce anche un pericolo per la democrazia. Come cambiare questa forma di capitalismo è la sfida del nostro tempo. Una sfida che non possiamo permetterci di perdere.

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