Il capitalismo dei monopoli intellettuali: la sfida del nostro tempo

Cédric Durand e Cecilia Rikap offrono la loro interpretazione dei meccanismi che alimentano la predazione di valore e il consolidamento del potere economico da parte delle Big Tech, all’interno del capitalismo dei monopoli intellettuali. La conclusione alla quale giungono è che solo una socializzazione dei dati tali da renderli ‘beni pubblici’ può rappresentare una risposta politica all’altezza della sfida posta dal modello contemporaneo di capitalismo.

Scientia potentia est – sapere è potere. Il vecchio adagio ha acquisito una connotazione sinistra con l’allarmante dominio delle Big Tech nell’economia e nella società nel suo complesso. Il Corporate Europe Observatory ha recentemente rivelato che tale settore rappresenta oggigiorno di gran lunga il principale lobbista delle istituzioni dell’Unione Europea.

Ma questa è solo la punta dell’iceberg di quello che Ugo Pagano chiama “il capitalismo dei monopoli intellettuali” e sul quale ha scritto anche sull’ultimo numero del Menabò. La conoscenza, che dovrebbe essere un bene pubblico (ossia non rivale e non escludibile), è stata appropriata privatamente dalle grandi imprese come capitale: la quota di beni intangibili (intangible assets) tra le società incluse nell’indice S&P 500 è passata dal 17% nel 1975 al 90% nel 2020.

Per Pagano, la drammatica espansione dei diritti di proprietà intellettuale “comporta la creazione di un monopolio legale che può essere potenzialmente esteso all’intera economia globale”. La sua presa di posizione contro un modello che tutela con forza la proprietà intellettuale riecheggia la posizione tradizionale di quegli economisti che trattano la conoscenza come un bene gratuito. Friedrich Hayek, per esempio, sosteneva:

“La crescita della conoscenza è di così speciale importanza perché, mentre le risorse materiali rimarranno sempre scarse e dovranno essere riservate per obiettivi limitati, gli usi della nuova conoscenza (se non li rendiamo artificialmente scarsi tramite i brevetti di monopolio) sono illimitati. La conoscenza, una volta raggiunta, diventa gratuitamente disponibile a beneficio di tutti.”

I recenti appelli per una sospensione dei brevetti sui vaccini contro il Covid-19 illustrano veicolano perfettamente un principio più ampio: il progresso generale richiede che la conoscenza ottenuta grazie agli esperimenti svolti da alcuni membri della società sia resa liberamente disponibile.

La concentrazione del potere economico e dei profitti sta tuttavia aumentando e ciò si basa sul rendere impossibile ad altri l’accesso alla conoscenza. Il monopolio legale è già molto esteso, con appena 2.000 società per azioni che possiedono il 60% dei brevetti ottenuti simultaneamente nei cinque principali Uffici brevetti del mondo.

Nell’arena digitale, la segretezza è un’altra forma molto diffusa di privatizzazione della conoscenza. Solo il 15% degli articoli sull’intelligenza artificiale ne rivela il codice sottostante. L’azienda DeepMind, di proprietà di Google, è tra le organizzazioni che di solito non lo fanno.

Meccanismi aggiuntivi. Tre ulteriori meccanismi contribuiscono alla monopolizzazione intellettuale globale. Il primo è la predazione nell’ambito delle reti scientifiche e di ricerca in cui le imprese private sono coinvolte. Questo è particolarmente evidente nell’industria farmaceutica, dove le aziende si basano ampiamente sul lavoro degli studiosi e usano i finanziamenti pubblici per la loro ricerca, per poi essere le uniche ad appropriarsi dei profitti derivanti dallo sfruttamento commerciale di tali ricerche.

Un esempio recente è il Remdesivir, usato per trattare il Covid-19. Questo farmaco è stato brevettato e venduto ad un prezzo esorbitante da Gilead, anche se si basa interamente sulla ricerca universitaria finanziata dagli Istituti Nazionali di Sanità (National Institutes of Health, NIH) degli Stati Uniti. Il NIH è la fonte di finanziamento esterno più frequentemente citata nelle pubblicazioni scientifiche di Pfizer, Novartis e Roche. Allo stesso modo, al 2019 tra il 78 e l’87 per cento delle pubblicazioni scientifiche di Google, Amazon e Microsoft mostrano anche altri autori (per lo più università), ma la quota dei brevetti di cui condividono la proprietà con altre organizzazioni varia solo tra lo 0,1 e lo 0,3 per cento.

Un secondo meccanismo che auto-alimenta il monopolio intellettuale è legato alla raccolta dei dati, e ciò non riguarda solo le preoccupazioni sulla privacy. In molte industrie, come ha detto l’ex amministratore delegato della Siemens Joe Kaeser, i dati tecnici relativi alla produzione sono “il Santo Graal dell’innovazione”. Poiché gli algoritmi di apprendimento profondo (deep learning) imparano e migliorano da soli man mano che elaborano sempre più dati, la raccolta di quest’ultimi si traduce in un continuo miglioramento tecnico.

Il deep learning automatizza in modo significativo le scoperte ed amplia i tipi di problemi che possono essere affrontati attraverso l’analisi dei big data. Le aziende che padroneggiano questa tecnologia e che possiedono in via esclusiva fonti di dati originali espandono il loro monopolio intellettuale ad una velocità sempre maggiore. Questo è vero in molti settori, dalla finanza con la piattaforma Aladdin di BlackRock, alla vendita al dettaglio con la spinta aggressiva di Walmart verso lo sviluppo di capacità proprietarie di data analytics. In questo contesto, i giganti della tecnologia occupano sempre più un ruolo di primo piano.

Nel 2015 Amazon, Microsoft, Google e Alibaba detenevano nei loro public cloud circa il 4,9 per cento dei dati immagazzinati in tutto il mondo, ma nel 2020 questa percentuale aveva già raggiunto il 22,8. Nei loro clouds queste aziende offrono, come servizio, algoritmi di deep learning. Ciò significa che, anche senza accesso diretto ai clienti, gli algoritmi possono imparare dai dati di soggetti terzi, espandendo il monopolio intellettuale delle Big Tech e permettendo loro di entrare in altri settori, dalla sanità ai trasporti.

Un terzo fenomeno è legato all’espansione delle catene globali del valore. Il corollario della disaggregazione (unbundling) delle attività produttive permessa dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione è che la circolazione di informazioni è drammaticamente aumentata e la relativa sofisticazione dei sistemi informative si è sviluppata di pari passo con la concentrazione delle capacità di governare le reti. La capacità di pianificazione delle imprese leader va dalla definizione delle dimensioni di ogni fase della produzione che si svolge nelle imprese subordinate alla definizione di norme, standard e modelli di comportamento. Inoltre, la diseguale distribuzione della capacità di maneggiare i beni intangibili lungo i diversi nodi delle catene permette alle imprese specializzate in segmenti ad alta intensità di conoscenza di catturare la maggior parte dei guadagni derivanti dalle economie di scala.

Il modello “fabless” [basato sull’esternalizzazione delle fasi relative alla fabbricazione dei prodotti] di Apple e il suo magistrale controllo sulle catene di approvvigionamento ne sono un esempio. L’azienda ha abbandonato le fabbriche di Colorado Springs e Sacramento rispettivamente nel 1996 e nel 2004, diventando il più rinomato “produttore di beni senza fabbrica” (factory-less goods producer) del mondo. La maggior parte delle fasi legate alla produzione manifatturiera dei suoi prodotti viene svolta da aziende localizzate in Cina e altrove nel sud globale, mentre Apple ha costruito “un ecosistema chiuso dove esercita il controllo su quasi ogni pezzo della catena di fornitura, dal design al negozio al dettaglio”. Cruciale in questo panopticon che sorveglia un processo produttivo altamente disperso è il monopolio sulle capacità intellettuali, il quale permette ad Apple di catturare la parte maggiore del valore prodotto nella catena.

Non all’altezza. La crescente consapevolezza dei rischi economici, sociali e politici associati alla crescente concentrazione del potere delle grandi aziende leader ha portato di recente a rinnovate iniziative delle autorità antitrust, prima nell’UE e nel Regno Unito, poi negli Stati Uniti e da ultimo in Cina. Queste iniziative, tuttavia, non sono all’altezza delle sfide poste dal capitalismo dei monopoli intellettuali, le quali non riguardano solo le Big Tech e che vanno ben oltre la tradizionale concentrazione dei mercati.

Ad essere in gioco è la concentrazione della capacità di comprendere, coordinare e trasformare i processi sociali ed economici. Il monopolio intellettuale riguarda nuove capacità collettive che non devono essere funzionali al perseguimento del profitto, ma piuttosto essere valorizzate per raggiungere obiettivi condivisi di sviluppo sociale, ecologico e psicologico. Ciò richiede una nuova generazione di politiche incisive, innovative e coordinate lungo almeno due dimensioni principali.

In primo luogo, seguendo il principio del “non nuocere”, dovrebbe essere prevista un’ampia responsabilità (in termini di accountability) per gli algoritmi. La responsabilità riguardo il processo decisionale algoritmico dovrebbe andare oltre le questioni inerenti alla privacy e oltre i pregiudizi che portano a risultati discriminatori e iniqui. Poiché il controllo degli algoritmi rende possibile “modellare, anticipare e influenzare preventivamente i comportamenti possibili” e queste capacità sono soggette a potenti forze monopolistiche, le autorità pubbliche devono impedire quegli usi dei big data da parte delle imprese che incoraggiano comportamenti dannosi, come il consumo forzato, le attività ad alto consumo di carbonio o il bullismo online. A tal fine, gli apparati algoritmici su larga scala dovrebbero essere sottoposti a un controllo annuale obbligatorio, con pubblicazione dei relativi risultati.

In secondo luogo, la risoluzione delle crisi e il raggiungimento di obiettivi socialmente ed ecologicamente desiderabili non devono essere limitati dai monopoli intellettuali. Si dovrebbe rinunciare automaticamente e generosamente ai brevetti quando la libera circolazione della conoscenza può contribuire ad alleviare le sofferenze sociali o di tipo sanitario ed ecologico.

Inoltre, i monopoli intellettuali stabiliscono le priorità della scienza e della tecnologia, come evidenziato da Big Pharma. Questo si traduce in tassi di innovazione e direzioni della ricerca che privilegiano il profitto rispetto alla risoluzione dei più pressanti problemi sociali, ecologici e sanitari. Sono necessari sforzi sul piano istituzionale a livello globali per stabilire nuove agende di ricerca sostenute da fondi pubblici. Ma questo non è comunque sufficiente.

Nel bel mezzo della pandemia, Google ha reso temporaneamente disponibili i suoi rapporti sulla mobilità delle comunità, che hanno aiutato a valutare l’impatto delle restrizioni alla mobilità sulla diffusione del virus. È sconvolgente che dati di interesse collettivo come questi non siano disponibili in modo permanente. Poiché la capacità di elaborare la conoscenza e i dati comportamentali è diventata un potente strumento di governo, gli algoritmi dovrebbero essere open-source e i dati di interesse generale resi disponibili pubblicamente in forma anonima. Solo così i big data di rilievo potranno essere utilizzati per realizzare politiche pubbliche efficaci e si potrà prevenire la predazione del loro valore nel sistema economico.

Lo stato cinese si sta già muovendo in questa direzione nel settore finanziario. Come parte dell’implementazione del suo sistema di credito sociale, la banca centrale ha definito i dati raccolti dalle piattaforme internet un “bene pubblico” che dovrebbe essere divulgato e regolato più attentamente. L’avversione per la mancanza di democrazia e la pervasiva sorveglianza statale in Cina non è una scusa per lasciare che risorse cruciali per il coordinamento della vita sociale diventino un monopolio privato. La creazione di beni comuni digitali (digital commons) che comprendano dati, algoritmi e infrastrutture digitali permetterebbe di affrontare sia il problema della sorveglianza che quello dei monopoli intellettuali guidati dai dati. Essa rappresenterebbe una potenziale via per una socializzazione tale da rafforzare tanto le istituzioni pubbliche quanto agli attori socioeconomici privati.

Muoversi in queste direzioni implicherebbe un’inversione a U rispetto all’ideologia proprietaria della fine del secolo scorso. Ma rappresenterebbe un giusto ritorno alla società. Dopo tutto, gli scienziati dei dati delle Big Tech riconoscono che “gli algoritmi non sono magici; semplicemente condividono con te ciò che altre persone hanno già scoperto”.

 

*L’articolo è una versione tradotta e riadattata di quella uscita con il titolo ‘Intellectual monopoly capitalism—challenge of our times’ su Social Europe https://socialeurope.eu/intellectual-monopoly-capitalism-challenge-of-our-times

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