Il canale di Suez, snodo della modernità globale

Barbara Curli ripercorrendo la storia dei passaggi attraverso il canale di Suez, dalla sua apertura nel 1869 fino a oggi, osserva che gli incidenti e le sospensioni del traffico sono stati spesso l’occasione per rivedere le regole internazionali sulla sicurezza della navigazione. Il recente incidente della porta-container Ever Given ha sollevato la questione del gigantismo navale e delle vie alternative dei commerci mondiali, mostrando tra l’altro come il canale – oggi come nell’Ottocento – rappresenti uno snodo simbolico della modernità globale, delle sue interconnessioni e vulnerabilità.

Il giorno dell’inaugurazione del canale di Suez, il 17 novembre 1869, mentre il corteo delle 46 navi in rappresentanza delle maggiori potenze mondiali partiva da Porto Said guidato dall’Aigle, lo yacht imperiale francese con a bordo l’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, i vertici della Compagnie universelle du canal maritime de Suez che gestiva il canale temevano incidenti durante il passaggio. Le insidie della navigazione lungo il canale a causa delle maree, dei venti, delle tempeste di sabbia e delle correnti (specie nel tratto più vicino al mar Rosso) erano state questioni dibattute fin dall’ inizio dei lavori di taglio dell’istmo, nel 1858, e avrebbero infatti per i decenni a seguire richiesto continui lavori di manutenzione, dragaggio dei fondali e rafforzamento delle sponde per impedire alle sabbie del deserto di reimpossessarsi del canale. Tre giorni dopo, alla chiusura delle celebrazioni, lo Chef du Transit informava con soddisfazione i vertici della Compagnia che il canale si era dimostrato “una via rapida e sicura per il traffico mondiale”: soltanto 6 delle circa 70 imbarcazioni transitate per le cerimonie si erano incagliate, ma erano state liberate dragando la sabbia sottostante e riportate a galla con l’aiuto di rimorchiatori. Proprio quanto si è fatto nei giorni scorsi, con ben altri mezzi, per liberare la Ever Given, la porta-container della compagnia di navigazione Evergreen con sede a Taiwan e battente bandiera panamense con equipaggio indiano, lunga 400 metri, larga 60 metri e del peso di 200.000 tonnellate, incagliatasi martedì 23 marzo 2021 a pochi chilometri da Suez. Gli incidenti non sono certo nuovi nella storia del canale, la via d’acqua lunga circa 190 km che collega il Mediterraneo e il mar Rosso, ma quello della Ever Given – per le dimensioni della nave e per il blocco prolungato al commercio mondiale che ha provocato – è particolarmente significativo e invita a mettere in prospettiva storica quanto è appena avvenuto.

La costruzione del canale di Suez era stata l’esito – non la causa, come spesso si ritiene – della crescita economica e della rivoluzione dei trasporti e comunicazioni allora in corso: se non si fosse aperto il canale, commentava in quel 1869 il fondatore della Società geografica italiana Cesare Correnti, le “irresistibili infiltrazioni di commercio si aprirebbero altre vie”. Innovazioni tecnologiche (la nave a vapore, i cavi sottomarini), boom del commercio marittimo, trasformazioni nelle società (l’emergere di una opinione pubblica internazionale) e nelle forme della guerra e dei suoi strumenti avevano anche prodotto una nuova consapevolezza politica della necessità di regolazione internazionale delle grandi infrastrutture della crescita. Nell’aprire nuovi spazi economici, coloniali, culturali, il canale di Suez aveva inoltre alimentato un discorso e una retorica – una sorta di pensiero unico ottocentesco – funzionali alla celebrazione della nuova modernità globale all’epoca della seconda rivoluzione industriale e di una nuova fase dell’espansione imperiale europea.

La storia dei passaggi attraverso il canale è quindi anche un po’ la storia delle trasformazioni di alcuni di questi caratteri della modernità.

Ancora negli anni 80 dell’800 oltre il 30% delle navi si incagliava durante il passaggio, sebbene questo fosse guidato da un pilota della Compagnia che (allora come ancora oggi) saliva a bordo quando una nave si presentava a uno dei due imbocchi del canale (Suez e Porto Said) e la conduceva per tutto il tragitto, con l’aiuto di rimorchiatori. Già alla fine del secolo la percentuale delle navi incagliate si era ridotta al 2%, anche in virtù di un primo Regolamento riguardante le “navi di grandi dimensioni”, stilato nel 1897 in previsione dell’annunciato arrivo dei piroscafi tedeschi Friedrich der Grosse e Barbarossa in rotta verso l’Australia, in quel momento tra le più grandi navi al mondo. Da allora, e a più riprese, i Regolamenti della Compagnia di Suez sarebbero stati il modello e l’occasione per adeguare i regolamenti internazionali di navigazione. A maggior ragione quando dal canale cominciarono a passare le prime petroliere provenienti dal Caucaso attraverso il mar Nero e poi dal golfo Persico, per le quali furono concepiti speciali regolamenti (il primo per le navi cisterna fu emesso nel 1892) poi estesi ad altri materiali pericolosi. La Nerite della Shell bruciò per oltre 15 giorni nel canale nel marzo 1902; nel 1905 ci vollero 56 giorni per svuotare la stiva della carboniera norvegese Congal e consentirle di riprendere la navigazione; e nel 1905 un incendio a bordo del cargo britannico Chatham che trasportava esplosivi diretto a Yokohama richiese l’intervento degli esperti della Nobel svedese. Fino al 1933 alle petroliere fu comunque proibito il passaggio notturno. La via del Capo di Buona Speranza, cioè la circumnavigazione dell’Africa, per quanto più lunga e a volte più pericolosa, rimase sempre (così come è ancora oggi) un’opzione – di fatto preferita in determinate circostanze – per il commercio tra Europa e Asia. E infatti non volle rischiare la flotta della Marina da guerra russa, diretta a Port Arthur per rispondere all’aggressione giapponese, quando l’11 ottobre 1904 arrivò a Tangeri e il comando decise di separarla in due divisioni, una che sarebbe passata per il canale di Suez e l’altra per il Capo, per poi ricongiungersi nelle acque del Madagascar nel febbraio del 1905. Gran parte di quelle navi (56 su 59) saranno affondate durante la guerra contro il Giappone.

Nel 1888 era stata firmata la convenzione di Costantinopoli che garantiva la neutralità del canale “in tempo di pace e in tempo di guerra”, ancora oggi formalmente in vigore ma non sempre applicata nel corso della storia. Essa fu invocata per consentire alle navi italiane di raggiungere l’Etiopia nel 1935-36; forse il blocco del canale – ipotizzato dal governo inglese – avrebbe scongiurato l’aggressione fascista all’Etiopia, ma si preferì evitare lo scontro con Mussolini. Durante la seconda guerra mondiale il canale fu bombardato a più riprese e vi furono paracadutate mine che provocarono danni alle navi in transito e compromisero per periodi più o meno lunghi i rifornimenti agli Alleati.

Dopo la guerra, fu affrontato nuovamente il problema delle navi di grandi dimensioni, specie le portaerei americane e soprattutto le petroliere (la Tina Onassis, oltre 30.000 tonnellate di stazza che trasportava fino a 45.000 tonnellate di petrolio, fu fino a metà degli anni Cinquanta la più grande che attraversò il canale), il cui traffico aumentò enormemente per andare ad alimentare la ricostruzione e il miracolo economico europeo. Con la campagna di lavori di manutenzione e miglioramento avviata nel 1948, fu consentita una media di passaggi di 24 navi al giorno, che arrivarono a 38 nel 1955.

Durante la “crisi di Suez” dell’autunno 1956, cioè l’attacco congiunto franco-britannico-israeliano in risposta alla nazionalizzazione della Compagnia del canale annunciata in luglio da Nasser, il canale fu chiuso per alcuni mesi e riaperto nel marzo del 1957. Quelle che sembrarono inizialmente le drammatiche prospettive di blocco dei rifornimenti di petrolio furono in realtà facilmente aggirate ancora una volta ricorrendo alla rotta del Capo, che in quella circostanza assunse anche il significato simbolico di alternativa occidentale alle provocazioni del nazionalismo arabo nell’età della decolonizzazione. Anche in seguito alla guerra dei 6 giorni del giugno 1967, quando il canale rimase chiuso per otto anni e riaperto solo nel giugno del 1975, la via del Capo restò un’alternativa fondamentale. Nel frattempo, la crisi energetica e l’embargo decretato dai produttori arabi dell’Opec in seguito alla guerra di Yom Kippur del 1973 avevano accelerato il processo di diversificazione geografica degli approvvigionamenti petroliferi dell’Europa (da Venezuela, Unione Sovietica, Libia, Algeria, mare del Nord, Nigeria) che non dovevano passare da Suez. L’Egitto di Sadat, anche in seguito alla nuova situazione di pace con Israele dopo Camp David, cominciò a pensare a un rilancio del canale e a un suo eventuale raddoppio, sollecitati nel corso degli anni Ottanta e Novanta dall’emergere delle “tigri asiatiche” prima e della Cina poi, che ha progressivamente provocato una notevole pressione sul canale di Panama, al punto che si cominciò a praticare la via attraverso il Mediterraneo e Suez anche per il commercio tra Stati Uniti e Asia.

Il raddoppio del canale di Suez è stato quindi l’esito della nuova fase geopolitica aperta dal ruolo ormai assunto dalla Cina nel commercio mondiale con l’apertura di nuove “vie della seta”. Il cosiddetto “nuovo canale di Suez” è stato realizzato in 2 soli anni e inaugurato nel 2015 per un tratto di circa 35 km all’altezza dei Grandi Laghi Amari, Ismailia e Kantara. Con il raddoppio si è notevolmente ridotto il tempo di percorrenza (da 18 a 11 ore in media) ed è aumentata la capacità di navigazione, con riduzione dei costi dei pedaggi. Questa riconfigurazione globale delle rotte commerciali appare molto simile (pure in presenza di nuovi attori e di un nuovo discorso ideologico sulla modernità globale) a quella di metà Ottocento, e ha ridato centralità al Mediterraneo, come prova l’aumento di 6 volte del traffico di container negli ultimi 20 anni. Attualmente, sul canale transita il 10-12% del commercio globale. Tuttavia, l’attenzione dell’egiziana SCA (Suez Canal Authority, che dal 1956 gestisce il canale) e degli enti regolatori internazionali per i problemi legati al gigantismo navale in questa nuova fase sembra assai minore di quella della Compagnia del canale alla fine dell’Ottocento. Mentre il numero di navi non è sensibilmente aumentato in questi ultimi anni, ne è enormemente aumentato il tonnellaggio (+75% nel 2018 rispetto al 2014, l’anno precedente il raddoppio). Le grandi porta-container costituiscono oltre un terzo delle navi che passano da Suez. Nel 2018 rispetto al 2014 la dimensione media delle navi che sono passate dal canale è aumentata del 12%, quella delle porta-container del 24%. Anzi, la nuova immagine di modernità del canale è stata propagandata proprio come non ci fosse un “limite” alla stazza delle navi che potevano passare.

L’epidemia da Covid 19 e la crisi economica da essa provocata hanno temporaneamente rallentato tali tendenze. Nel 2020 il traffico delle porta-container attraverso il canale è diminuito del 15%, con una particolare flessione delle petroliere: il ribasso del prezzo del petrolio ha fatto optare molte mega-navi per la via del Capo, che consente di risparmiare i costi di pedaggio del canale, tanto che l’Autorità del canale ha introdotto sconti speciali per le porta-container in direzione Sud (verso l’Asia) e sconti particolarmente consistenti (tra il 50 e il 75%) per quelle che scelgono la rotta East Coast degli Stati Uniti-Asia passando da Suez (i dati sono tratti da SRM, Italian Maritime Economy Report, per gli anni 2018, 2019, 2020). La nuova centralità del Mediterraneo negli scambi globali è confermata peraltro dall’acquisto del Pireo da parte della Cina come grande hub per la Cosco (il Pireo è diventato il primo porto per container del Mediterraneo) e dalle partecipazioni cinesi nei porti di Alessandria, Porto Said e Haifa.

Il canale di Suez è dunque a tutti gli effetti uno di quei chokepoints – letteralmente, strozzatura, che blocca un ingranaggio – della nuova modernità globale (su cui si veda il fascicolo 10, 2018, della rivista Limn), che non a caso in questi anni hanno attirato tanto interesse da parte delle scienze sociali, in quanto luoghi fisici (porti, pipelines, stretti, corridoi) di interconnessioni, flussi, networks, sistemi e supply chains, ma anche come luoghi metaforici di “sfide” legate alla natura della contemporaneità e alla percezione di nuove vulnerabilità e ansietà, a mano a mano che aumenta il gigantismo, appunto, delle poste in gioco (la globalizzazione, il riscaldamento globale, il cambiamento climatico). Peraltro, il riscaldamento globale sta aprendo lentamente altre rotte, come quella dell’Artico, che in prospettiva potranno porsi in alternativa o competizione con quelle tradizionali come Suez, Panama e il Capo di Buona Speranza. Il blocco del commercio mondiale provocato da una nave che per qualche motivo si è incagliata di traverso in un canale al centro di questi flussi ben simboleggia il significato di chokepoint. Quello che oggi può essere un canale, ma anche un virus, o un vaccino.

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