Il bilancio è un bene pubblico

Marcello Degni analizza le ragioni sostanziali che fanno del bilancio (pubblico) un bene pubblico, e si sofferma sulle innovazioni legislative introdotte nel 2016, fondate su un approccio top down di ripartizione delle risorse e ampia flessibilità nella gestione. Secondo Degni queste innovazioni forniscono importanti strumenti per uscire da quella sorta di diritto provvisorio del bilancio, instauratosi nella prassi da oltre un decennio, e rendono possibile una stabilizzazione virtuosa del processo decisionale.

Quest’articolo scaturisce dalle riforme della decisione di bilancio introdotte nel 2016. Si tratta d’innovazioni che completano un ciclo avviatosi alla fine degli anni settanta (legge 468 del 1978) e che ha avuto uno snodo importante nella riforma costituzionale del 2012 (equilibrio di bilancio). La tesi è che le nuove norme possano consentire il ritorno a un processo decisionale razionalizzato, essenziale per valorizzare il bilancio come bene pubblico, e superare quella sorta di diritto provvisorio, instauratosi da oltre un decennio, che rende opache le decisioni e impedisce la corretta programmazione delle scelte pubbliche. Questi temi sono stati recentemente approfonditi da chi scrive nel libro, curato insieme a Paolo De Ioanna, “Il bilancio è un bene pubblico”, edito da Castelvecchi (2017).

Il bilancio è un bene pubblico essenzialmente per tre ragioni. Prima. E’ il punto di equilibrio di un processo eminentemente politico, il cui fine ultimo, in una società complessa, è quello di comporre interessi diversi e fisiologicamente confliggenti. Seconda. E’ un manufatto complesso, in cui si condensa un’esigenza di stabilità. Le decisioni del passato producono azioni e interventi che hanno bisogno di tempo per produrre effetti e non possono essere rimesse costantemente in discussione da un decisore sempre in cerca di nuovi obiettivi da realizzare. In questa dimensione contano molto gli specialismi, la consistenza delle basi informative, le tecniche di valutazione degli obiettivi. In altre parole è necessaria l’attivazione di uno strumentario fine che renda possibile al policy maker il controllo della sua azione e le correzioni necessarie per massimizzare efficienza ed equità. Terza. E’ sostanza. Come ha detto, da ultimo, la Corte Costituzionale (sentenza 10 del 2016) “anche attraverso i semplici dati numerici contenuti nelle leggi di bilancio e nei relativi allegati possono essere prodotti effetti innovativi dell’ordinamento, … (che) costituiscono scelte allocative di risorse” . Ciò significa che anche gli interventi sul bilancio dovuti a ragioni “tecniche” o “contabili” incidono, di solito, su diritti e aspettative pubbliche.

Questi tre aspetti non sono nuovi. “Tutti i popoli che si rivendicarono a libertà posero a fondamento di essa il diritto di votare le imposte per mezzo dei loro delegati”, scrivevano Mancini e Galeotti nel 1887 nel bel manuale “Norme e usi del Parlamento italiano”, in cui si narra degli accesi scontri tra la Camera elettiva e il Senato regio ogni qualvolta quest’ultimo metteva il naso nelle decisioni di natura tributaria. E’ il noto principio “no taxation without representation”, alla base della nascita dei parlamenti, che spiega la forte connessione tra decisione di finanza pubblica e democrazia rappresentativa. Non a caso Orlando, nel 1911, afferma che il “diritto di bilancio è un concetto giuridico entrato nel diritto pubblico con l’affermarsi dello stato costituzionale moderno” .

La questione della stabilizzazione del bilancio è stata affrontata storicamente con nettezza nel Regno Unito “per la distinzione della parte permanente e transitoria del bilancio”. Sulla seconda parte è più forte il discernimento e il sindacato parlamentare, mentre sulla prima si misura l’azione del governo. Il primo, ci dice Arcoleo nel 1880, “può bene segnare dei principii secondo i quali debba procedere il governo, in materia di finanza, ma al di là di questo è impossibile che il legislatore intervenga utilmente nei dettagli dell’amministrazione”. La separazione tra indirizzo politico e gestione amministrativa è quindi un principio risalente, necessario per trovare un equilibrio tra esigenza di stabilità e innovazione.

La discussione tra forma e sostanza con riferimento al bilancio ha riempito scaffali. Intendere il bilancio come una legge formale significa interpretarlo come mera proiezione contabile della legislazione sostanziale. Basta leggere l’allegato al DEF sulla formazione delle previsioni tendenziali per apprezzare, anche a prescindere dalla riforma costituzionale, l’elevato grado di convenzionalità nella quantificazione di molte partite finanziarie definite in base alla cosiddetta “legislazione vigente”. Del resto, anche su questo punto, se il Graziani riteneva, nel 1911, che i “i più insigni cultori di diritto pubblico ritengono che il bilancio sia una legge soltanto per la sua forma, non pel suo contenuto materiale”, il Majorana, di contro, sosteneva, nel 1886, che “il bilancio è una vera e propria legge e comprende la facoltà al governo di agire”.

Per essere fino in fondo un bene pubblico, il bilancio deve essere il prodotto di una decisione trasparente, che non si concentri solo sui saldi, ma anche sulle politiche pubbliche e i programmi (e che non sia appesantita da micro decisioni); una scelta verificabile, in cui sia possibile definire la ripartizione delle risorse disponibili, e flessibile nella gestione, per meglio approssimare gli obiettivi. Infine una decisione comprensibile. Quest’ultimo è un elemento cruciale. Come sostiene Jurgen Habermas solo uno stato democratico è in grado di fornire la garanzia istituzionale dell’osservanza generale delle norme; e il principio della “razionalità discorsiva” si trasforma in principio giustificativo della democrazia, sia pure nella forma mediata dalla rappresentanza; ma questa non può ridursi al mero “involucro” del diritto; è necessario un processo cognitivo alimentato da una presenza costante e intensa dell’opinione pubblica. E ciò è un elemento essenziale della decisione di bilancio, che regole troppo complesse e ambivalenti possono offuscare. Per questo è necessaria una costante azione di decodificazione, per favorire un’ampia partecipazione alle decisioni, e di semplificazione (per esempio delle metodologie legate al calcolo del saldo strutturale, troppo ambigue per puntuali ricette di politica di bilancio).

Il processo tratteggiato è sostanzialmente il contrario di ciò che si è verificato in Italia, segnatamente dal 2003, anno in cui, è stato interrotto (con il decreto taglia-spese) il processo di condivisione delle regole ed è stato prodotto il frutto avvelenato delle clausole di salvaguardia. Da quel momento si è instaurata una sorta di diritto provvisorio del bilancio. Il governo propone al parlamento i documenti finanziari; si realizza una mediazione nella commissione bilancio; si riversa il risultato in un maxi-emendamento sul quale è posta la questione di fiducia. Il risultato è una legislazione monca, che non riesce a esprimersi sulle politiche settoriali, catturata da emergenze e piccole questioni. La ragione sostanziale di quest’approccio distorsivo va ricercata nel metodo utilizzato, da ribaltare completamente, che implica una contrattazione preliminare caratterizzata da una dinamica estenuante, cui fa da contrappeso una prassi attuativa molto statica, ingabbiata da un pervasivo controllo preventivo.

Le nuove regole introdotte nel 2016, a chiusura di un ciclo riformatore avviato da molto tempo, forniscono strumenti importanti per modificare la situazione. Si prevede una ripartizione top down degli spazi di flessibilità risultanti dalla governance europea della finanza pubblica; tra DEF e presentazione di bilancio un DPCM di ripartizione delle risorse tra i ministeri, in cui si dovrebbe tenere conto delle indicazioni (quantitative) del Parlamento, espresse nella risoluzione sul documento programmatico. Dalla decisione sulle politiche pubbliche si dovrebbe passare a quella sui programmi (unità di voto) nel corso della sessione di bilancio, attraverso un confronto tra commissioni di settore e amministrazioni di spesa, riconducendo a queste ultime molte attività assorbite nel corso degli ultimi anni dal tesoro. La flessibilità nella gestione è assicurata dal potenziamento del bilancio di cassa, dalla sostituzione dei capitoli di spesa con le azioni (articolazioni dei programmi su cui rimodellare le unità amministrative), dall’affiancamento alla contabilità finanziaria (che il processo di armonizzazione sta facendo migrare verso quella economica) della contabilità economico-patrimoniale per misurare, attraverso uno strumentario fine (piano dei conti), le performance della macchina pubblica.

Ma il modello non potrà funzionare se non si riuscirà ad anticipare l’ossatura della manovra nel DEF di aprile. Non si può affermare soltanto l’ammontare complessivo della manovra lorda, calcolata come spesso avviene, su saldi-obiettivo che già si pensa di modificare nella contrattazione degli spazi di flessibilità del Patto. In questo modo si mortifica la programmazione di bilancio e si vanifica in radice l’intento razionalizzatore della riforma. Gli altri paesi europei lo fanno; dobbiamo riuscire anche noi. A valle dell’approvazione del DEF, che deve anticipare l’azione che s’intende attuare sulle politiche pubbliche, ricevute le raccomandazioni da Bruxelles, si deve impostare il bilancio per l’anno successivo del quale, prima dell’estate, va disegnata, salvo intese, la struttura. In questo modo la decisione di bilancio potrà spostarsi su un livello più fine, sia nel merito (politiche pubbliche, programmi e azioni), sia nel metodo (un processo razionalizzato che garantisce i necessari passaggi cognitivi).

Alla riorganizzazione del manufatto contabile si affianca la diluzione del concetto di copertura in quello più generale di equilibrio. Su questi due fuochi ruota la nuova tipizzazione del bilancio dello stato, che dovrà essere consolidata nei prossimi anni; un percorso lungo accidentato e, per molti aspetti, solo abbozzato. Nelle scelte intraprese si scorge però una chiara direzione di marcia, anche se passi indietro in un terreno in cui conta molto la sperimentazione sul campo, sono sempre possibili, soprattutto in un assetto amministrativo che preferisce istintivamente la risposta formale, la logica dell’adempimento a quella del risultato.

Il raccordo tra i soggetti istituzionali che formano la pubblica amministrazione è molto più chiaro. Il processo di armonizzazione dei bilanci pubblici procede e s’intravede un progressivo allineamento nei tempi e nella struttura dei manufatti contabili. Il bilancio è tornato a essere lo strumento principale della decisione di finanza pubblica; un bilancio triennale, raccordato alla PA, e stretto in una scansione stringente. Il bilancio integrato definisce le variazioni quantitative necessarie per approssimare gli obiettivi programmatici, che sono anche dei vincoli; e ciò è realizzato modificando le politiche pubbliche sulla base dell’indirizzo politico. Trova così compimento un processo avviatosi alla fine degli anni settanta.

Il bilancio pubblico, nella sua nuova tipizzazione, vede ampliata, in potenza, la sua stabilizzazione, e si pone all’incrocio tra scelta politica, ben fondata e trasparente, e azione amministrativa, finalizzata al risultato. Per tradurre queste potenzialità della riforma in risultati effettivi, e rendere il bilancio fino in fondo un bene pubblico, è necessario un lungo lavoro, di cui la riforma rappresenta una buona premessa.

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