I tabù europei e la creatività dei grigi burocrati

Fabrizio Patriarca esamina alcune proposte emerse di recente nell’ambito del progetto di completamento dell’Unione Economica e Monetaria e da esse trae spunto per sostenere che contrariamente a un diffuso luogo comune i “grigi burocrati” di Bruxelles e Francoforte sono in realtà dotati di notevole creatività. Essi, infatti, ad avviso di Patriarca trovano soluzioni creative in grado di mediare tra posizioni diverse senza toccare i “tabù” che sono all’origine di quelle divisioni. Però, le conseguenze di questa creatività sono spesso molto negative.

Un diffuso luogo comune vuole che il colore associato ai burocrati delle istituzioni europee sia il grigio. Le ragioni che spingono verso questa associazione sono probabilmente diverse, ma certamente una di esse, forse la più importante, è la tendenza a considerare i burocrati di Francoforte e Bruxelles privi di creatività. Io, invece, credo che, valutati sotto questa prospettiva, essi siano tutt’altro che grigi. Frequentemente si trovano nella condizione di dover mediare tra posizioni molto distanti, e in questo compito dimostrano un’eccezionale capacità inventiva: con fantasia e creatività riescono ad aggirare le divisioni di fondo, guardandosi bene dal cercare di rimuoverle. Le loro soluzioni creative permettono di tenere in vita i diversi tabu sui quali si manifestano le divisioni e per questo svolgono un ruolo simile a quello che nel cattolicesimo ha il pentimento: assolvere chi viola le leggi divine, senza negare il valore assoluto di queste ultime.

I tabu riguardano, soprattutto, il principio generale dell’austerità e lo statuto della BCE che definiscono due fondamentali decisioni di politica economica: la fissazione delle priorità per le politiche fiscali e di bilancio, da un lato, e l’individuazione del soggetto garante della solvibilità dei debiti pubblici, dall’altro. Considerare l’austerità e lo statuto della BCE un tabu significa sostenere la priorità del “consolidamento fiscale” combinato alla “delega” ai singoli stati della responsabilità di solvibilità del debito tramite il contenimento del deficit (che è la posizione difensiva rispetto agli accordi scritti). A questa è la posizione si contrappone quella di chi rivendica la necessità del sostegno pubblico alla domanda e il ruolo di garanzia sul debito, diretto o meno, della Banca Centrale. Nel mezzo, si distinguono diverse sfumature. Queste diversità di posizioni si rilevano sia tra i paesi membri sia, e soprattutto, al loro interno.

Di fronte a queste divisioni, la fantasia dei “grigi burocrati” ha avuto modo di dare buona prova di sé. Gli strumenti “non convenzionali” delle politiche monetarie, le innovazioni istituzionali di ESM ed ESFM, finanche l’idea di procedure econometriche di frontiera, sono tutte invenzioni orientate ad “accordare flessibilità” ai tabu nelle quali va anche riconosciuto l’aspetto creativo.

Da quando il sesto presidente, quello della Bundesbank, ha posto il tema della risoluzione dell’anomalia dell’incidenza di obbligazioni pubbliche nei portafogli delle banche di alcuni paesi membri, come condizione per la realizzazione del fondo di garanzia unica sui depositi bancari, la nuova frontiera delle innovazioni sembra essersi spostata alle garanzie bancarie. Il fatto che l’esclusione per statuto degli stessi titoli dalle attività della Banca Centrale costituisca anch’essa un’anomalia, rimane tuttavia un tabu. Però ci si ingegna a surrogare, inventando altri sistemi di garanzia o di riduzione del profilo di rischio, magari semplicemente mascherando l’intervento sotto un altro nome (Eurobond), o lasciando a qualcun altro il compito di intervenire (ESFM), eventualmente giungendo a farlo col contributo dei bilanci dei singoli stati membri, magari per il tramite delle “bad bank”.

Consideriamo anche il modo in cui i tabu vengono formalizzati. Un mio amico che lavora a Francoforte e passa molto tempo a simulare gli effetti di bilancio delle politiche dei paesi UE, mi ha raccontato un istruttivo aneddoto. Durante una intensa giornata di simulazioni uno dei suoi colleghi si alza esclamando: “Ragazzi, qui risulta che una politica fiscale espansiva riduce il rapporto debito-PIL nel lungo periodo”. Panico nella stanza: “Bisogna riavviare il computer”. Ecco, questo episodio illustra anche il cambiamento non da poco che è intervenuto nella professione dei macroeconomisti. Per dirla con le parole di un altro mio amico a Bruxelles, siamo passati dall’ ”Evidence Based Policy Making” al “Policy Based Evidence Making”: data per ipotesi la necessità del consolidamento fiscale, la diatriba si sposta su come definire uno scostamento di livello eccessivo. E quindi anche chi ha l’obiettivo di manovre di bilancio tese esattamente nella direzione opposta, si impegna a proporre indicatori diversi e parametri diversi; in altri termini, innova sul piano della metodologia di calcolo evitando di proporre direttamente politiche diverse.

Se le conseguenze di questo approccio “innovativo-elusivo” alla politica economica si limitassero al senso di frustrazione di chi si sente trasformato da scienziato sociale a strumento retorico, non sarebbe poi così grave. Ma aggirare le vie maestre per andare nella stessa direzione fingendo che sia un’altra, può avere altri costi. Un primo tipo di costi consiste nel fatto che le vie laterali sono più lente e, nel percorrerle, c’è il rischio di perdersi. Il che corrisponde alla posizione di chi sostiene che il sistema istituzionale europeo comporta ritardi che, per le politiche economiche, possono essere perfino letali. Il secondo tipo di costi riguarda quelli propri di qualsiasi “attività innovativa”: l’incertezza del risultato e il passaggio per una fase di implementazione e adattamento al contesto. Di questi problemi hanno sofferto i “nuovi canali” della politica monetaria attivati dalla BCE, e le nuove istituzioni create, strumenti che infatti continuano a cambiare nel tempo. Il terzo tipo di costi deriva dalle “distorsioni” che i tentativi di aggiramento dei vincoli comportano, come nel caso del moltiplicarsi di clausole di salvaguardia, di fondi pubblici di garanzia, di operazioni sulle partecipazioni pubbliche per la riduzione dei debiti a bilancio.

Questo leit-motif del Bruxelles-Francoforte pensiero si ritrova anche nella cosiddetta lettera dei “cinque presidenti” delle istituzioni europee, uscita quasi un ‘anno fa, che costituisce una sorta di massimo comune denominatore delle posizioni delle diverse istituzioni dell’unione economica e monetaria sia negli strumenti adottati che negli obiettivi individuati e nelle relative priorità. Siamo di fronte a una conferma delle capacità innovative dei “grigi burocrati”. La proposta che ha fatto più discutere è stata quella della “euro area treasury” come “collective decision-making”, una proposta sicuramente suggestiva ma non molto dettagliata e comunque rimandata alla “phase two” del piano.

Più a breve sarebbe invece prevista la realizzazione dell’Advisory European Fiscal Board con il compito di “provide a public assessment” della corrispondenza delle politiche fiscali alle linee UE. Il non detto di questa proposta è che, tra i problemi aperti, vi è il fatto che gli stati membri non rispettano gli impegni. Questo punto, che sta sullo sfondo del documento, non emerge mai direttamente, anche se si evince che alcuni impegni disattesi (sul debito) preoccupano più di altri (sulla bilancia commerciale). Si tratterebbe comunque di una nuova istituzione. Rimane la curiosità di capire perché Francoforte e Bruxelles, che già svolgono separatamente questo compito, non bastino.

Un’altra innovazione è la creazione di un sistema europeo di autorità per la competitività. Anche qui, il problema è nel “controllo”, che in questo caso riguarda specificamente le dinamiche dei salari rispetto a quelle della produttività. Da quello che si legge, le relazioni di questa autorità entrerebbero nel fascicolo delle procedure di infrazione. In altre parole, a far pendere la bilancia verso l’applicazione delle sanzioni contribuirebbero i salari troppo alti, le scarse capacità innovative o i bassi margini di profitto. Dato che le procedure riguardano sostanzialmente i saldi, più che la composizione dei bilanci pubblici, quest’innovazione istituzionale orientata a promuovere la competitività sarebbe anche parte di un meccanismo per il quale al peggiorare della competitività si incentiva la contrazione della spesa pubblica, e quindi anche degli investimenti pubblici. Considerando poi le numerose clausole di salvaguardia riguardanti le imposte sui consumi, si potrebbe dare il caso di una crescita dei salari nominali che si risolve in una crescita dei prezzi, una sorta di scala mobile 2.0, che opera all’inverso.

Tra le priorità individuate ci sono poi il Mercato Unico dei Capitali e quello Bancario. Sul fondo unico di assicurazione dei depositi si registra una situazione di stallo, ma l’originalità delle istituzioni proposte è indubbia. Sul Mercato Unico dei Capitali, le proposte sono meno concrete ma si aggiunge che: “Taxation can also play an important role…”. In questo caso, diversamente che dagli altri, non viene proposta un’autorità di controllo o, almeno, di coordinamento. Nonostante la presenza in Europa di alcuni “comodi purgatori” fiscali, in materia di tassazione dei Capitali la fiducia verso la convergenza affidata ai singoli stati sembra essere maggiore che per gli altri casi.

Quanto agli obiettivi dichiarati nella lettera, accanto a quelli dell’Europa “stable” e “competitive” spicca “a stronger focus on employment and social performance”, e più avanti si accenna al fatto che, nelle valutazioni sulle politiche di Bilancio, si debba inserire in qualche modo l’obiettivo della coesione sociale. Come e in quale modo ciò debba avvenire non è specificato, anche se c’è da notare che nella stesura della raccomandazione UE alcuni timidi passi in questa direzione si sono visti. Nonostante l’esempio della “vecchia donna sterile” non sia esattamente in linea con lo stile del mainstreaming di genere dei tempi di Lisbona, anche il Papa ha recentemente spinto l’Europa a ritrovare la sua “dimensione sociale”.

Ai bistrattati “burocrati” bisogna riconoscere che, per quanto senza scendere nel merito, sul tema avevano già dimostrato interesse: la “tripla A” sociale. Prezzare il welfare come i CDO non è il massimo, e talvolta le triple A non fanno una bella fine, ma, considerando chi ne parla, questo è sicuramente un modo per comunicare che ci si tiene proprio tanto. Allora perché non prevedere anche qui una nuova istituzione, di quelle innovative, tecnicamente raffinate come solo in Europa si sa fare? Se non si può sfatare un altro tabù, quello di una politica economica europea che non si occupa degli aspetti redistributivi, si usi come per il resto un’idea creativa per aggirare il problema.

Ed allora, ad esempio, si potrebbero sostenere proposte come quella (peraltro avanzata anche dal MEF e da studi della Banca d’Italia), di un unemployment benefit europeo. Invece che dichiarare palesemente obiettivi di coesione sociale, si potrebbe invocare la necessità di nuovi meccanismi di stabilizzazione automatica comuni che evitino gli “imbalances“ e favoriscano la “convergenza”. Questo significherebbe però che il percorso di “Completamento dell’Unione” avrebbe un diverso ordine di priorità. Chissà che un cambio di agenda in tale direzione non possa andare incontro al problema della “Democratic Accountability, Legitimacy and Institutional Stregthneening”, che è l’ultimo problema affrontato nel rapporto. I burocrati, sembra di poter dire, forse temono di apparire troppo “grigi”. La proposta di risolvere questo problema favorendo la comunicazione tra i parlamenti e tra le Istituzioni è insufficiente. Forse ci vuole più fantasia. Ma i “grigi burocrati” hanno mostrato di possederne abbastanza. Siamo ottimisti!

 

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