I riders e la Cassazione

Stefano Giubboni illustra e commenta – in termini sostanzialmente adesivi – la prima, attesa decisione della Corte di cassazione, dello scorso gennaio, sulla natura del rapporto di lavoro dei riders delle piattaforme digitali. Giubboni mette anche a confronto la decisione della Corte di Cassazione con gli orientamenti giurisprudenziali che si stanno formando in altri Paesi dell’Unione europea e in particolare in Francia, rilevando le principali differenze.

1. Con l’attesa sentenza 24 gennaio 2020, n. 1663, la Corte di cassazione si è per la prima volta pronunciata sulla natura del rapporto di lavoro dei riders di Foodora e sulla disciplina protettiva ad essi applicabile, parzialmente confermando le conclusioni cui erano giunti i giudici d’appello torinesi.

Come rammenta la Cassazione nella parte motiva della sua pronuncia, la Corte d’appello di Torino – sul presupposto che l’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 avesse «introdotto un tertium genus, avente caratteristiche tanto del lavoro subordinato quanto di quello autonomo, ma contraddistinto da una propria identità, sia a livello morfologico, che funzionale e regolamentare» – aveva tratto da tale inquadramento la conseguenza che si dovesse fare «applicazione delle tutele del lavoro subordinato al rapporto di collaborazione dei riders». Tuttavia, la Corte territoriale non aveva ritenuto «praticabile un’estensione generalizzata dello statuto della subordinazione», avendo optato per «un’applicazione selettiva delle disposizioni per essa improntate, limitata alle norme riguardanti la sicurezza e l’igiene, la retribuzione diretta e differita (quindi relativa all’inquadramento professionale), i limiti di orario, le ferie e la previdenza ma non le norme sul licenziamento» (così al punto 13 della motivazione della sentenza n. 1663 del 2020).

2. La Corte di cassazione ha corretto – in parte – entrambe le statuizioni. Quanto al presupposto qualificatorio, la Cassazione ha infatti giustamente escluso che si sia in presenza di un tertium genus, intermedio e distinto dal lavoro subordinato (art. 2094 cod. civ.) e da quello autonomo (art. 2222 cod. civ.). Più semplicemente – e pragmaticamente –, come chiarisce la Corte, «al verificarsi delle caratteristiche delle collaborazioni individuate dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015, la legge ricollega imperativamente l’applicazione della disciplina della subordinazione» (punto 39 della motivazione).

Si tratta, infatti, (solo) «di una norma di disciplina, che non crea una nuova fattispecie» (così al successivo punto 40). Ne consegue, allora, che «in una prospettiva così delimitata non ha decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, così connotate e di volta in volta offerte dalla realtà economica in rapida e costante evoluzione, siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia, perché ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato, disegnando una norma di disciplina» (sempre in motivazione, al punto 25).

3. Nondimeno, proprio perché si è in presenza di una norma di disciplina, che non individua un tipo intermedio tra lavoro subordinato e autonomo, occorre anche coerentemente escludere che il legislatore abbia ridefinito le fattispecie di riferimento (di cui rispettivamente agli artt. 2094 e 2222 cod. civ.), che pertanto continuano a fissare – immutate – i confini che separano i due poli della subordinazione e dell’autonomia. E da un punto di vista tipologico, i rapporti aventi le caratteristiche individuate dall’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015 appartengono (come appare ancora più chiaro all’esito della modifica introdotta dalla legge n. 128 del 2019) all’area delle collaborazioni di natura autonoma, che – ancorché etero-organizzate dal committente – non sono, tuttavia, propriamente assoggettate al potere direttivo e conformativo di quest’ultimo (non ricadendo, di conseguenza, nella diretta sfera applicativa dell’art. 2094 cod. civ.).

L’accertamento della natura autonoma o subordinata del rapporto in presenza di tali caratteristiche diviene dunque superfluo (ove naturalmente non sia domandato in giudizio dalla parte) solo perché è lo stesso legislatore ad esigere imperativamente l’applicazione della disciplina propria del lavoro subordinato a fattispecie che – rimanendo autonome – gravitano tuttavia al confine con la subordinazione e per questo sono ritenute meritevoli di essere assoggettate al relativo statuto protettivo.

4. Anche quanto al secondo – e concretamente più rilevante – profilo, ovvero alla questione della disciplina applicabile a tali rapporti, la Cassazione ha inteso correggere, sia pure in parte, le conclusioni cui erano pervenuti i giudici d’appello torinesi. Mentre questi ultimi avevano infatti ritenuto di dover escludere l’applicazione delle tutele contro il licenziamento, la Corte di cassazione – nonostante la specifica questione non fosse stata oggetto di impugnazione incidentale da parte dei lavoratori e quindi tecnicamente non fosse oggetto del giudizio ad essa devoluto – ha voluto precisare che, «quando l’etero-organizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato» (punto 26 della motivazione).

Si tratta, infatti, come precisa ulteriormente la Corte, «di una scelta di politica legislativa volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoro subordinato, in coerenza con l’approccio generale della riforma, al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizione di “debolezza” economica, operanti in una “zona grigia” tra autonomia e subordinazione, ma considerati comunque meritevoli di tutela omogenea» (punto 27 della motivazione). E del resto «la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile, che non potrebbe essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici» (così il successivo punto 40), onde deve essere assicurato a tali lavoratori l’intero statuto protettivo del lavoro subordinato, senza limitazioni di sorta (certamente ricomprendendovi le tutele contro il licenziamento illegittimo).

5. La scelta del legislatore è dunque netta ed è nel senso della integrale estensione della disciplina protettiva del lavoro subordinato ai rapporti di cui all’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2015, con le sole eccezioni consentite dal secondo comma di tale disposizione.

È vero che la Corte, in un passaggio della motivazione (al punto 41), ammette che «non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 cod. civ.», aprendo così ad un test di compatibilità circa l’applicabilità di segmenti di quella disciplina apparentemente affidato al singolo giudice. Senonché l’obiter non contraddice quanto la Corte ha chiaramente statuito appena sopra, intendendo evidentemente alludere alla ovvia circostanza che, non trattandosi per definizione di rapporti di lavoro subordinato, non sarà mai possibile l’applicazione della disciplina relativa ai poteri di direzione e conformazione che sono propri del datore di lavoro (artt. 2103-2106 cod. civ.), anche perché – ove si accertasse in concreto l’esercizio di siffatti poteri – si ricadrebbe direttamente nell’orbita applicativa dell’art. 2094 cod. civ., fuoriuscendosi da quella dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015.

6. La scelta del legislatore del Jobs act, come confermata ed anzi rafforzata da quello della legge n. 128 del 2019, è senz’altro innovativa, non solo rispetto alle tradizionali linee di politica legislativa perseguite nel nostro Paese, ma anche rispetto a quanto emerge sul piano della comparazione giuridica. La decisione di estendere a talune categorie di rapporti etero-organizzati, ma di natura autonoma, l’intero statuto protettivo del lavoro subordinato, trovando sicuramente giustificazione nell’art. 35 Cost., supera infatti l’approccio selettivo sin qui seguito dal legislatore italiano (ad esempio con la disciplina del lavoro a progetto, per l’appunto abrogata dal d.lgs. n. 81 del 2015) ed appare originale anche sul piano comparato, dove prevalgono senz’altro le opzioni selettive e modulari.

Il legislatore italiano, peraltro, con la legge n. 128 del 2019, nell’introdurre uno specifico statuto protettivo in favore dei riders autonomi delle piattaforme digitali (che prestino occasionalmente la loro opera e non ricadano quindi nell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015), ha seguito anche tale ultimo approccio, sull’esempio, in qualche modo, di quanto già fatto in Francia con l’art. 60 della legge n. 2016-1088 dell’8 agosto 2016. Si tratta di una scelta sicuramente opportuna, perché diretta ad assicurare tutele minime (ad esempio in materia di infortuni sul lavoro) nelle ipotesi in cui non sia possibile invocare la disciplina dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015 (si ha infatti notizia che, proprio per sottrarsi a tale disciplina come estensivamente interpretata dalla sentenza n. 1663/2020 della Cassazione, talune piattaforme della food delivery stiano reimpostando, ove possibile, le modalità di utilizzo delle collaborazioni secondo schemi di prestazione autonoma occasionale).

7. Va peraltro avvertito che, di fronte alla variabilità morfologica in cui può essere svolto il lavoro tramite piattaforma, il problema qualificatorio rimane aperto, dovendo come sempre essere risolto considerando le specifiche evenienze del caso concreto. Nei casi esaminati, la prima giurisprudenza italiana si è per ora orientata nel senso di escludere che l’attività prestata dai riders delle piattaforme digitali possa essere ricondotta allo schema tipologico del lavoro subordinato, risolvendosi per l’applicazione dell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015 quale norma di disciplina idonea comunque a garantire una tutela equivalente a quella derivante dalla diretta applicazione dell’art. 2094 cod. civ.

In altri ordinamenti la risposta dei giudici è stata diversa e sono stati frequenti i casi – ad esempio in Spagna e in Francia – nei quali è stata riconosciuta la natura subordinata del rapporto di lavoro app-driven. Nella recentissima (e importante) pronuncia n. 374 del 4 marzo 2020, la Chambre sociale della Cassazione francese ha così affermato la natura subordinata del rapporto di lavoro di un autista di Uber, collocandosi autorevolmente in una scia nella quale si erano in precedenza mosse altre Corti, non solo in Europa. Nel caso degli autisti di Uber, come in altri casi consimili, è in effetti senz’altro possibile riconoscere i crismi di un potere di direzione e di controllo della prestazione governata dalla piattaforma digitale che, per il fatto di svolgersi nel mondo della «info-sfera» (Floridi), non si manifesta tuttavia in forme meno cogenti e pervasive di quelle della subordinazione classica. Il potere di controllo esercitato dalla piattaforma può anzi risultare persino accentuato e dilatato, rispetto a quello disponibile al datore di lavoro «tradizionale».

I giudici italiani non hanno sinora mostrato un’analoga apertura. Ma ad esigerla, quando ne ricorrano i presupposti nel caso concreto, è – come sempre – la stessa nozione dinamica ed evolutiva di lavoro subordinato accolta (anche) dall’art. 2094 del nostro Codice civile.

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