I riders delle piattaforme digitali tra autonomia e subordinazione

Stefano Giubboni commenta le recenti sentenze di merito sui riders delle piattaforme digitali. Dopo avere analizzato sotto il profilo giuridico le motivazioni di tali sentenze, Giubboni si interroga sulle opportunità di una regolazione ad hoc dei lavori tramite piattaforma, muovendo in particolare dalla qualificazione che la sentenza della Corte di Appello di Torino propone del rapporto di collaborazione dei riders.
  1. Anche in Italia comincia a formarsi, seppure con qualche ritardo rispetto ad altri paesi, una prima giurisprudenza sui lavoretti della cd. gig economy. Le prime sentenze dei giudici del lavoro italiani hanno, però, come nella nostra migliore tradizione, un sapore antico, ed il nuovo – ammesso peraltro che sia veramente tale – traluce piuttosto pallidamente al filtro delle categorie qualificatorie con le quali siamo soliti distinguere l’autonomia (art. 2222 cod. civ.) dalla subordinazione (art. 2094 cod. civ.). I pur autorevoli appelli a ragionare pragmaticamente nella prospettiva dei bisogni di tutela, e dei conseguenti rimedi (Treu), finiscono così per cedere alla inattesa forza di resistenza delle fattispecie, che, per quanto in crisi (Irti), continuano a incanalare i procedimenti qualificatori dei giudici nelle nuove controversie della gig economy verso approdi che assomigliano molto, per chi ha un po’ di memoria, a quelli con cui i vecchi pretori del lavoro di Milano decidevano ad esempio, a metà anni ottanta, gli indimenticati casi dei pony express.

Possiamo dunque ripetere che c’è davvero qualcosa di nuovo, anzi d’antico, nelle sentenze torinesi sui riders di Foodora (come in quella meno pubblicizzata del Tribunale del lavoro di Milano, pronunciata nell’analoga controversia intentata nei confronti di Foodinho). Ed è dall’analisi di queste prime sentenze che dobbiamo allora partire per capire su quali basi concettuali si sta formando il diritto del lavoro della gig economy all’italiana.

  1. L’elemento fondamentale che accomuna le motivazioni delle sentenze dei giudici torinesi sul caso Foodora, come pure quella del Tribunale di Milano, è che tutte escludono la esistenza di un rapporto di lavoro subordinato ai sensi dell’art. 2094 cod. civ. Mentre però per il Tribunale di Torino (e poi per quello di Milano) la insussistenza di un vincolo di subordinazione ex art. 2094 deve condurre al rigetto delle domande dei ricorrenti, diversa è come noto la conclusione cui è giunta la Corte di Appello torinese, che ha parzialmente accolto il ricorso dei riders. Le diverse conclusioni dei giudici d’appello di Torino sono motivate dalla diversa valutazione che essi svolgono in ordine alla applicabilità alla fattispecie della assai dibattuta previsione contenuta nell’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2015, che diviene dunque il cuore della querelle qualificatoria.

L’assunto di partenza che accomuna questa prima giurisprudenza è, peraltro, lo stesso: i riders delle piattaforme digitali non sono lavoratori in senso proprio subordinati. Sono invece collaboratori autonomi, e l’essenza della loro autonomia risiede nella circostanza che essi sono sempre liberi di accettare (o meno) l’assegnazione del turno di consegna (lo slot, nel gergo vagamente estraniante della neo-lingua del lavoro tramite piattaforma), potendo sempre revocare – senza conseguenze di natura disciplinare – la disponibilità in tal senso inizialmente manifestata. Come si dice nella motivazione della Corte territoriale torinese, «nel caso di specie l’appellata poteva disporre della prestazione lavorativa degli appellanti solo se questi decidevano di candidarsi a svolgere l’attività nelle fasce orarie (slot) stabilite». E se non sussiste un obbligo contrattuale di prestare la propria attività lavorativa, il collaboratore gode di una libertà incompatibile con il vincolo di subordinazione, dovendo pertanto essere dogmaticamente incasellato nella fattispecie del lavoro autonomo. Per questo, non diversamente da quanto aveva già ritenuto il Tribunale di Torino (e poi anche quello di Milano, nell’analogo caso citato), la Corte di Appello può anche valorizzare «il nomen juris concordemente adoperato dalle parti in sede di conclusione dell’accordo, proprio ai fini della qualificazione del rapporto medesimo» (come autonomo, appunto).

  1. Qui la sensazione di déjà vu con i casi dei pony express degli anni ottanta è impressionante, quasi che da allora ad oggi nulla sia davvero cambiato. Ed in effetti nulla è cambiato, a giudicare almeno dal ragionamento dei giudici, nella definizione del nucleo duro della subordinazione come assoggettamento ad etero-direzione.

Per la verità, nella sentenza della Corte di Appello di Torino si prende lungamente in esame – ma per distanziarsene – un minoritario orientamento giurisprudenziale alla cui stregua «il fatto che il lavoratore sia libero di accettare o non accettare l’offerta e di presentarsi o non presentarsi al lavoro e senza necessità di giustificazione, non attiene a questo contenuto, bensì è esterno, sul piano non solo logico bensì temporale (in quanto precede lo svolgimento del rapporto)»; onde è soltanto dalle modalità (etero-dirette) in cui questo concretamente si svolge che deve esser desunta la sussistenza del vincolo di subordinazione, non rilevando (in quanto operante ab externo, senza riflessi sul contenuto intrinseco del rapporto una volta in atto) l’originaria libertà di concedere o rifiutare la prestazione del collaboratore.

Ma non è questa l’opinione maggioritaria in giurisprudenza (e in dottrina). L’orientamento dominante è invece quello riaffermato da tutti i giudici che si sono sin qui pronunciati sui riders delle piattaforme digitali e che conduce ad escludere in radice la subordinazione laddove non si accerti un obbligo, ma si ravvisi per contro una libertà, di svolgere la prestazione. E si può senz’altro criticare il formalismo qualificatorio dei giudici (come ha fatto un’acuta commentatrice), rievocando le beffarde parole di Anatole France sulla «maestosa eguaglianza della legge, che proibisce al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, di chieder la carità per la strada e di rubar del pane». Resta però il fatto che, nella logica che presiede alla divisione di campo tra autonomia e subordinazione, quella libertà – per quanto vacua e vuota di reale contenuto – sia ben stagliata nella lettura tradizionale dell’art. 2094 cod. civ., per escludere l’esistenza di un rapporto di natura subordinata.

  1. Tuttavia, la Corte di Appello di Torino, nella sentenza n. 26/2019, giunge ad accogliere (sia pure parzialmente) le domande dei riders di Foodora – riconoscendo loro «il diritto di vedersi corrispondere quanto maturato in relazione alla attività lavorativa da loro effettivamente prestata in favore dell’appellata sulla base della retribuzione, diretta, indiretta e differita stabilita per i dipendenti del V livello del CCNL logistica trasporto merci, dedotto quanto percepito» – sulla base di un diverso argomento, che transita in modo decisivo per l’interpretazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015. Questa previsione – l’unica disposizione dell’intero Jobs Act ad essersi probabilmente mossa con una certa decisione in una direzione di estensione delle tutele a favore dei lavoratori – stabilisce come noto l’innovativa regola alla cui stregua, a decorrere dal 1° gennaio 2016, «si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro».

Il Tribunale di Torino aveva aderito alla paradossale e contro-intuitiva interpretazione (accreditata anche in sede dottrinale dalla difesa della società convenuta) secondo la quale l’art. 2 del lgs. n. 81 non avrebbe alcun effetto precettivo, ma costituirebbe una sorta di bislacco lapsus calami, una parola (l’unica di sinistra, a quanto pare) dal sen fuggita (evidentemente per errore) al legislatore del Jobs Act: insomma, per usare le stesse parole di quell’autorevole dottrina, «una norma apparente» (Tosi), il cui (invero surreale) risultato sarebbe anzi quello di restringere il campo di applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato ex art. 2094 cod. civ., anziché di ampliarlo. La Corte di Appello di Torino ha per fortuna rigettato tale intepretazione, ritenendo di doverne accogliere una che dia un senso – reale e non apparente – alla previsione legislativa. E secondo il collegio, l’unico significato ragionevolmente attribuibile in quest’ottica alla norma sta in ciò: che essa «individua un terzo genere, che si viene a porre tra il rapporto di lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 cod. civ. e la collaborazione come prevista dall’art. 409 n. 3 cod. proc. civ., evidentemente per garantire una maggiore tutela alle nuove fattispecie di lavoro che, a seguito della evoluzione e della relativa introduzione sempre più accelerata delle recenti tecnologie, si stanno sviluppando».

  1. Siamo del parere che, al di là del richiamo al concetto di tertium genus (che ci appare inutile, prima che improprio), la Corte territoriale torinese abbia correttamente interpretato la norma, attribuendole il significato più coerente con quello avuto in mente dallo stesso legislatore: quello di estendere alle forme di collaborazione etero-organizzate, come quelle dei riders di Foodora (che pure restano tecnicamente lavoratori autonomi), la disciplina del lavoro subordinato (con le deroghe consentite dal secondo comma del medesimo art. 2).

Questa impostazione ha il vantaggio di indicare una strada piuttosto precisa alla soluzione del problema della individuazione di un adeguato quadro di tutele in favore dei nuovi lavori della gig economy: una strada del resto già emersa in talune proposte politiche e in sede sindacale. Nei limiti in cui ricorrano i presupposti definiti dal primo comma dell’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2015, è la legge in vigore ad esigere infatti l’applicazione dell’intero spettro delle tutele del lavoro subordinato a tali rapporti di collaborazione (e dunque anche di quelle in materia di licenziamento, diversamente da quanto ritenuto – qui erroneamente – dalla Corte di Appello di Torino, che, contraddicendosi, le ha negate ai lavoratori ricorrenti in quanto «non vi è riconoscimento della subordinazione»). Tuttavia, il secondo comma della disposizione del Jobs Act affida alla contrattazione collettiva il compito di adattare tali tutele alle esigenze di imprese e lavoratori (non solo delle piattaforme digitali, come ovvio), consentendo di modularle e di ritagliarle a misura delle diverse situazioni e dei diversi contesti produttivi e tecnologici.

Non si tratta a ben vedere di una tecnica regolativa del tutto inedita: anche in questa previsione, chiaramente volta a promuovere una «contrattazione all’ombra della legge», c’è infatti, insieme, qualcosa di nuovo e di antico. Come sempre.

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