I ricollocamenti dei rifugiati nell’Unione Europea tra aree urbane e rurali. Passato e futuro

Rama Dasi Mariani riflette sul tema del ricollocamento dei migranti che necessitano di protezione internazionale nel momento in cui viene a scadenza EU-FRANK, il progetto che aveva lo scopo di migliorare le azioni di ricollocamento degli Stati membri dell’Unione Europea. Rileggendo due recenti rapporti relativi al progetto, Mariani sintetizza le esperienze passate e traccia le opportunità future. Il suggerimento conclusivo è di accrescere, per diverse ragioni, gli sforzi per orientare i flussi non verso le aree urbane ma verso le piccole realtà rurali.

Il 31 dicembre 2020 segna formalmente la fine del progetto EU-FRANK (European Union Action on Facilitating Resettlement and Refugee Admission through New Knowledge). Nato nel 2015, l’anno della c.d. crisi dei rifugiati in Europa, e diretto dalla Swedish Migration Agency, il progetto aveva lo scopo di favorire la conoscenza, il coordinamento e la cooperazione degli Stati nella gestione dei ricollocamenti dei migranti che necessitano di protezione internazionale. La conclusione del progetto ci dà lo spunto per riflettere in maniera attenta sul tema del ricollocamento, tanto più che tra gli obiettivi del progetto vi era quello dell’apprendimento e dell’informazione.

Il ricollocamento è l’ammissione di un migrante che necessita di protezione internazionale nel territorio di uno Stato che non è quello d’approdo. Vale forse la pena sottolineare che, in base alla legislazione internazionale, il ricollocamento non è né un diritto del migrante né un dovere degli Stati firmatari della Convenzione di Ginevra; infatti, l’esito positivo di una richiesta di ricollocamento dipende dai criteri di ammissione scelti da ogni singolo Paese. Il ricollocamento è, però, una delle tre possibilità con cui una richiesta di protezione internazionale può definitivamente concludersi. Le altre sono il rimpatrio volontario e l’integrazione nel Paese d’approdo (o primo asilo).

Il progetto EU-FRANK non aveva l’obiettivo di aumentare i ricollocamenti, magari attraverso un nuovo approccio al problema, ma quello di rendere le azioni degli Stati più efficienti, aumentandone la qualità e riducendone i costi grazie alla condivisione di esperienze e pratiche di successo, di suggerimenti e raccomandazioni, ed anche di materiali e servizi. A tal proposito, nei quasi cinque anni di vita del progetto sono stati organizzati molti workshop e redatti alcuni report, i quali dovrebbero costituire la base d’azione dello European Asylum Support Office (EASO) ed essere di spunto per la stesura finale del Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo, di cui è stato scritto recentemente sul Menabò.

Allora, a conclusione di EU-FRANK, quali lezioni possiamo trarre dalle esperienze fatte finora e cosa ci possiamo aspettare dal futuro? Per provare a rispondere a queste domande, rileggiamo insieme i due più recenti report del Migration Policy Institute Europe (MPIE), relativi al progetto europeo: “Bulding Welcome from the Ground up” e “The Next Generation of Refugee Resettlement in Europe”.

Rural Welcoming. Il percorso dei rifugiati nelle piccole comunità rurali d’Europa. Il primo rapporto del MPIE si propone di valutare le migliori pratiche di ricollocamento a partire da circa sessanta interviste condotte direttamente dall’istituto in otto piccole municipalità di quattro Stati membri: Maldegem e Martelange (Belgio), Petruro Irpino e Sant’Arcangelo (Italia), Peel en Maas e West’Maas en Waal (Olanda), Kungsbacka e Vilhelmina (Svezia). Queste comunità sono state campionate sulla base di alcuni criteri, tra cui la popolazione (meno di 250.000 abitanti), l’ubicazione in aree rurali e l’appartenenza a Stati caratterizzati da una diversa esperienza di ricollocamento.

Come ricorda lo stesso MPIE, prima di iniziare a ripercorrere le interviste, e i vissuti a cui esse sono legate, è necessaria una premessa. L’immigrazione europea è un fenomeno che si concentra principalmente nelle aree urbane, e in modo particolare nelle grandi città, ma negli anni più recenti le piccole comunità rurali si sono dimostrate piuttosto attive nell’accoglienza dei migranti. Inoltre, indirizzare i ricollocamenti nelle aree rurali, distogliendoli quindi dalle città, ha il vantaggio di non gravare ulteriormente sulle infrastrutture e i servizi urbani. Sui benefici (e i costi) degli attori coinvolti nei ricollocamenti rurali torneremo in seguito, per ora è importante riconoscere che sono esperienze che meritano attenzione.

L’immigrazione si concentra nelle aree urbane perché il mercato del lavoro offre migliori opportunità, in termini sia occupazionali sia salariali, ma anche perché da tempo si sono formati network etnici in grado di attrarre i connazionali. I rifugiati che risiedono, invece, nelle aree rurali sono arrivati nell’attuale luogo di residenza principalmente per l’azione delle National Dispersal Policy, chiamate in Italia Piani Nazionali di Riparto. Questi sono dei sistemi di organizzazione e gestione dei flussi che nascono con l’intenzione di distribuire i rifugiati su tutto il territorio. Eppure, di recente nelle aree rurali si sono registrati anche arrivi spontanei legati a precedenti ricollocamenti. In altre parole, con i ricollocamenti si sono formate delle comunità di connazionali, le quali rendono più attraenti per i nuovi arrivati i piccoli comuni poiché rappresentano la possibilità di interagire e condividere con persone che parlano la stessa lingua e hanno vissuto la stessa esperienza.

Un vantaggio evidente dei ricollocamenti nei comuni rurali è quello di ridare vita ad aree che stanno fronteggiando un serio rischio di spopolamento per l’effetto combinato dell’invecchiamento della popolazione, l’emigrazione e il conseguente declino economico. Come emerge dal rapporto, il successo delle esperienze di ricollocamento dipende non dalle caratteristiche delle comunità ospitanti, ma dall’impegno attivo delle istituzioni durante tutto il percorso di integrazione dei rifugiati. Infatti, il supporto nei piccoli centri rurali si rivela più personale, ma anche meno specializzato, a causa della mancanza di infrastrutture e competenze. Si tratta di un supporto informale, che proprio per questo motivo ha bisogno di un’azione attiva da parte del pubblico per perdurare e non perdersi nel tempo. D’altra parte, le soluzioni informali hanno il vantaggio di basarsi su reti di conoscenze personali che danno ai rifugiati un maggiore senso di protezione. Molti rifugiati, però, durante le interviste, hanno dichiarato che le interazioni con i residenti autoctoni raramente sono andate oltre un rapporto superficiale.

Un altro vantaggio menzionato spesso durante le interviste condotte dal MPIE è la disponibilità e convenienza economica delle strutture abitative. Allo stesso tempo, la scarsità di domanda nei piccoli centri può trasformarsi anche in un’offerta limitata di alcuni beni o servizi, cosicché la scelta si restringe e talvolta anche i prezzi aumentano rispetto ai centri urbani.

Lo svantaggio maggiore resta la scarsità delle opportunità di lavoro e, insieme a questa, di formazione. Perciò dalle numerose interviste emerge che l’attività imprenditoriale è una delle più frequenti. I benefici dell’apertura di nuove imprese da parte dei rifugiati si estendono anche ai loro connazionali che giovano così di una maggiore probabilità di impiego. Sul tema esistono anche diversi contributi della letteratura economica e un recente articolo di Dagnelie, Mayda e Maystadt (“The Labour Market Integration of Refugees in the United States: Do Entrepreneurs in the Network Help?”, European Economic Review, 2019) sottolinea come la condizione economica dei nuovi arrivati migliora con il numero di imprenditori connazionali che vivono nella stessa area, ma diminuisce con il numero di dipendenti connazionali. Per i lavoratori migranti vi sarebbe, dunque, complementarità con i primi e sostituibilità con i secondi.

Tornando al rapporto del MPIE, i rifugiati intervistati hanno rimarcato la necessità di un sostegno iniziale nelle loro iniziative imprenditoriali. Il sostegno più apprezzato è stato quello tecnico e psicologico, che li ha aiutati a districarsi nelle pratiche legali e burocratiche iniziali.

Il futuro dei ricollocamenti in Europa. Quali sono gli obiettivi che dovrebbero essere facilitati o perseguiti dall’Unione Europea al fine di aumentare l’impegno e il successo delle politiche di ricollocamento? Il rapporto del MPIE pubblicato a metà dicembre del 2020 ne individua quattro.

  1. Creare una leadership mondiale.

L’Europa è passata dall’accogliere il 7% dei flussi annuali di rifugiati nel 2007 ad un sorprendente 40% nel 2017. Sulla spinta di questo aumentato impegno, l’Unione Europea dovrebbe cercare di interagire maggiormente con le agenzie delle Nazioni Uniti (principalmente UNHCR e IOM) per favorire un coordinamento tra gli Stati membri e i Paesi terzi e una gestione strategica e coerente delle pratiche di ricollocamento.

  1. Aumentare il sostegno ai rifugiati.

Abbiamo visto come il ricollocamento da solo non è sufficiente a garantire l’integrazione sociale ed economica dei rifugiati. È necessario, infatti, un sostegno nella formazione e nell’avvio di attività imprenditoriali. Una buona pratica è la creazione di gruppi di piccole imprese ai quali possono accedere i rifugiati per superare i costi fissi di informazione e di avvio della loro attività economica. Un simpatico esempio è il Potato Backyard nella cittadina svedese di Uddevalla. Un’iniziativa nata nel 2014 per dare vetrina ai prodotti di piccoli produttori ed artigiani. Tali realtà, hanno dimostrato di sopravvivere ed espandersi anche autonomamente, ma occorre aumentare la loro diffusione.

  1. Costruire comunità di accoglienza.

Sempre in riferimento ai risultati del precedente rapporto, i ricollocamenti rurali sono la scintilla di avvio di nuovi network. Bisogna, perciò, diffondere queste piccole miccie, anziché concentrare i ricollocamenti nelle città.

  1. Costruire sui ricollocamenti le basi di altre politiche migratorie.

Dato che ai ricollocamenti fanno seguito migrazioni spontanee, è giusto iniziarli a pensare anche in funzione della gestione dei flussi di migrazione regolare.

Lo shock provocato dalla pandemia da Covid-19 è arrivato mentre il progetto EU-FRANK per il coordinamento e la cooperazione delle politiche di ricollocamento degli Stati membri si trovava in una fase molto delicata. Con la conclusione di quel progetto le consegne passano agli organi dell’UE che dovranno continuare a impegnarsi nella ricerca delle migliori azioni per il ricollocamento. Il lockdown ha obbligato a sospendere le azioni sul campo ma è stata anche l’occasione per fermarsi a riflettere sulle esperienze fatte e per acquisire un prezioso bagaglio di conoscenze che questo articolo ha voluto sintetizzare.

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