I ricchi e i loro paradisi (fiscali)

Francesco Vona si occupa dei paradisi fiscali che amplificano il divario tra i super-ricchi e il resto della popolazione e creano danni all’erario pubblico. Vona ricorda che i paradisi fiscali continuano a proliferare nonostante le azioni portate avanti dal G20 e dalle maggiori economie mondiali. Basandosi sui recenti lavori di Gabriel Zucman, egli fornisce elementi per comprendere ed analizzare i fondamenti politico-economici dei fallimenti nella lotta ai paradisi fiscali e delinea le strategie in grado di combattere realmente i paradisi fiscali.

Quanto ricchi sarebbero i super-ricchi se non esistessero i paradisi fiscali? Probabilmente sarebbero molto ricchi, ma decisamente meno di quanto non siano oggi. Come documentano i dati degli ultimi decenni, la tolleranza istituzionale nei confronti dei paradisi fiscali ha, da un lato, attenuato la progressività del sistema tributario e, dall’altro, lasciato che si formassero nicchie fiscali vantaggiose per ricchi, contribuendo a rendere abissali le distanze economiche che li separano dal resto della popolazione. In particolare, le nicchie fiscali hanno consentito di eludere alcune forme di tassazione  e hanno reso la  diseguaglianza oltremodo iniqua e inaccettabile, soprattutto considerando i sacrifici chiesti alle classi medio-basse per fronteggiare la crisi iniziata nel 2007. Un paradiso fiscale può essere visto come un caso speciale di nicchia fiscale in quanto sfrutta la libertà di movimento dei capitali allo scopo di ridurre o eludere gli oneri fiscali dovuti al paese in cui la ricchezza è stata prodotta. L’impossibilità di combatterla a livello nazionale rende questo tipo di elusione ancora più inaccettabile e accresce la  sfiducia nei confronti dei sistemi di governo cosiddetti democratici.

Dati della United Nation Conference on Trade and Development (UNCTAD)  mostrano come la crescita degli investimenti diretti verso i paradisi fiscali sia andata di pari passo con la diminuzione della tassazione diretta sui ricchi e l’aumento delle diseguaglianze nei paesi sviluppati. La grande crisi del 2007 ha fortemente accelerato questo trend: gli investimenti diretti verso i centri offshore sono quintuplicati rispetto al periodo pre-crisi. L’entità del gettito fiscale perso è sostanziale: circa il 10% della ricchezza finanziaria (azioni, obbligazioni, fondi comuni di investimento, depositi bancari, etc.) europea è nascosto nei paradisi fiscali.

L’evidenza empirica mette dunque in forte dubbio l’efficacia delle politiche europee (essenzialmente l’European Saving Tax Directive, che sostanzialmente prevede una tassa forfettaria del 20% sugli interessi pagati ai residenti negli Stati Europei con assets nei paradisi fiscali, un quarto della quale  andrebbe al paradiso fiscale per spese amministrative), americane (il cosiddetto Foreign Account Tax Compliance Act) e internazionali (G20 di Londra del 2009) attuate per combattere il fenomeno dei paradisi fiscali dopo la grande recessione del 2007. Di fronte a una ricchezza nascosta di quest’ ordine di grandezza, com’è possibile che i governi democraticamente eletti dei grandi paesi europei non riescano a controllare efficacemente le fughe di capitali verso piccoli centri offshore come il Lussemburgo o la Svizzera e accettino di pagare il prezzo di una riduzione sostanziale della loro base fiscale ? Per rispondere a questo interrogativo occorre capire meglio come funziona un paradiso fiscale, perché le politiche attuate hanno fallito e perché quelle più promettenti per combatterli non vengano adottate.

Il segreto bancario è il criterio principale per identificare un paradiso fiscale. Di fatto segretezza e assenza di trasparenza nello scambio di informazioni sono i prerequisiti essenziali per eludere le tasse. Il modo più sicuro di mantenere segreta l’identità dell’intestatario di un conto svizzero è quello di creare una società fittizia, meglio se registrata in un altro paradiso fiscale come le isole Cayman o il Lussemburgo. Il proliferare delle società fittizie nonché la diversione della ricchezza nascosta nei paradisi fiscali non-firmatari è stata la naturale risposta all’azione del G20 che, sotto la minaccia di sanzioni economiche, ha imposto la firma di numerosi trattati bilaterali per lo scambio di informazioni (si veda al riguardo l’eccellente lavoro di N. Johannesen e G. Zucman).

L’obbligo di firmare solo 12 trattati bilaterali per ciascun paradiso fiscale ha consentito,  ad esempio, alle banche svizzere di creare società fittizie registrate in centri offshore non firmatari. E sebbene la Svizzera sia stata costretta a firmare accordi con tutti i grandi paesi Europei, la sua attività di offshore asset management  è aumentata del 15% dal 2009 in poi.

Altro esempio è il Lussemburgo che ha attratto il  20% in più di ricchezza offshore tra il 2008 e il 2012 ed è al contempo inadempiente sugli standard di trasparenza fiscale e sullo scambio di informazioni bancarie (si veda il citato articolo di Johannesen e Zucman e anche  il Rapporto dell’OCSE 2014 sulla Tax Transparency).

Le lezioni che possiamo trarre dal fallimento sostanziale delle politiche attuate per combattere i paradisi fiscali sono essenzialmente due. In primo luogo, lo scambio (automatico o no) di informazioni non basta se non si crea anche  un catasto globale della ricchezza che permetta di identificare i proprietari degli assets finanziari e che potrebbe essere costruito agevolmente incrociando i catasti della proprietà finanziaria dei vari paesi (al riguardo si veda l’analisi contenuta nell’ottimo libro di G. Zucman). Inoltre, occorre fare uno sforzo ulteriore verso la ricerca di un accordo multilaterale sullo scambio di informazioni bancarie che impedisca la diversione di fondi e attività verso paradisi fiscali inadempienti. L’unico modo credibile di costringere tutti i paesi a firmare un accordo multilaterale è la minaccia di sanzioni commerciali che, per stati piccoli come i paradisi fiscali, sono particolarmente difficili da sopportare.

Il segreto bancario non è tuttavia sufficiente per definire e quindi affrontare le distorsioni create dai paradisi fiscali. L’offerta di un trattamento privilegiato per i non residenti rispetto ai residenti  costituisce un secondo modo per attrarre capitali verso i centri offshore. Occorre notare che l’ottimizzazione fiscale o profit shifting è messa in atto dalle grandi imprese multinazionali ed è fortemente aumentato dopo la crisi passando dall’1.8% nel 1980 al 18% nel 2012. In particolare, le imprese multinazionali hanno imparato a sfruttare a loro vantaggio i differenziali di tassazione tra paesi e le incongruenze negli accordi bilaterali sulla tassazione dei corporate profits. Queste pratiche tendono a creare forti distorsioni all’attività economica rispetto alla più normale competizione tra paesi per attrarre capitali.

A differenza degli investimenti diretti esteri in attività reali, il profit shifting non crea valore che per gli azionisti e i manager delle grandi imprese. L’incongruenza tra valore reale creato e valore dichiarato al fisco salta agli occhi guardando i dati sulla profittabilità di impresa: le filiali irlandesi delle multinazionali americane sono tre volte più produttive delle loro controparti con sede negli USA  mentre nelle Bermuda sono due volte più produttive . In generale, le affiliate di multinazionali con sedi nei paradisi fiscali hanno un fatturato per numero di occupati enorme rispetto alla casa madre. Il modo più consueto di fare profit shifting consiste nell’attribuire alle affiliate nei paradisi fiscali capitale intangibile (loghi, algoritmi, marchi) che è impossibile valutare usando prezzi di mercato (semplicemente perché un mercato per il capitale intangibile non esiste) e quindi si presta a facili manipolazioni negli scambi intra-impresa. Google, ad esempio, nelle Bermuda non effettua alcuna attività altamente innovativa (in particolare,  ricerca e sviluppo) eppure concentra nell’holding lì localizzata gran parte dei suoi assets intangibili. Ancora una volta, il punto di partenza per risolvere il problema del profit shifting sarebbe la stesura di un accordo multilaterale sulla tassazione dei profitti delle imprese multinazionali. Tale soluzione non sarebbe tuttavia sufficiente per evitare la manipolazione dei prezzi di beni intangibili nel commercio tra filiali di una stessa impresa allo scopo di realizzare la cosiddetta ottimizzazione fiscale. Per avere cognizione dell’entità del problema, che è ben superiore a quella della evasione da parte dei privati cittadini, conviene elencare tutti costi associati al profit shifting. Primo, sia le multinazionali che i governi spendono tantissimo per mantenere, rispettivamente, enormi uffici legali ed agenzie di lotta all’evasione. Secondo, le pratiche di profit shifting alterano la competizione e favoriscono le imprese grandi che possono affrontare i costi fissi legati al mantenimento di uffici legali specializzati sull’ ottimizzazione fiscale. Terzo, il profit shifting ha effetti negativi diretti sul gettito fiscale e indiretti sui livelli di tassazione del capitale. Molti governi infatti sono stati costretti a ridurre le tasse sui profitti o a fare amnistie una tantum (il tax holiday negli Stati Uniti, lo scudo fiscale in Italia) per rallentare il processo di rilocalizzazione delle grandi imprese. Infine, le grandi multinazionali affrontano costi crescenti per le attività di lobbying necessarie per mantenere lo status quo, ad esempio, riguardo all’opacità nella doppia tassazione dei redditi guadagnati da un cittadino del paese X nel paese Y.

Come messo in luce tra gli altri dal premio Nobel Joseph Stiglitz,  l’aumento della disuguaglianza a favore dei super-ricchi può avere un forte effetto distorsivo sul processo politico. Il potere di lobbying aumenta insieme ai corporate profits delle grandi imprese multinazionali (soprattutto se tali profitti sono nascosti e quindi facili da usare per corrompere i politici) e impedisce l’approvazione di una seria regolamentazione dei paradisi fiscali. Rispetto a questi ultimi,  l’efficacia dell’azione politica è inficiata dalla coalizione tacita  di due lobbies che sono  particolarmente potenti negli Stati Uniti e traggono forti benefici dall’esistenza di centri offshore: quella bancaria (il principale finanziatore di Romney nelle scorse presidenziali) e quella delle quattro sorelle della seconda era digitale (Google, Apple, Facebook e Amazon, ossia i principali finanziatori di Obama). Inoltre, alcuni degli stessi paesi che dovrebbero regolamentare i paradisi fiscali hanno paradisi fiscali al loro interno:  il Delaware per gli Stati Uniti e le varie isole e territori indipendenti per la Gran Bretagna. Peraltro, gli Stati Uniti attraggono investimenti  esteri promettendo regimi fiscali privilegiati ai non-residenti e la natura stessa dei grandi centri finanziari – oltre che  il valore aggiunto offerto ai clienti delle grandi banche con sedi a Londra e a New York –  è intimamente connessa con l’esistenza di paradisi fiscali prossimi culturalmente e geograficamente alla madrepatria. Una regolamentazione restrittiva di quei paradisi rischierebbe di annullare questo vantaggio competitivo con perdita di posti di lavoro direttamente o indirettamente creati dalla presenza del settore finanziario in queste città.

In conclusione, l’interesse maggiore per una strategia multilaterale di accordi sui paradisi fiscali dovrebbero averlo  i grandi paesi europei poiché  soffrono relativamente di più del fenomeno dell’elusione fiscale nei centri offshore e, inoltre, non  essendo specializzati nel settore finanziario non verrebbero danneggiati da tali accordi. La vecchia Europa, tuttavia, dovrebbe prima di tutto fare pulizia in casa propria promuovendo, da un lato, un minimo di armonizzazione fiscale sulle corporate taxes (ad esempio, una tassa minima sul capitale che permetterebbe di risolvere il problema di come attribuire i corporate profits di una società multinazionale a ciascun paese) e costringendo,  dall’altro, il Lussemburgo, l’Irlanda, la Svizzera e tutti i micro-stati presenti sul territorio Europeo a firmare un accordo multilaterale completo (catasto della ricchezza accessibile alle agenzie delle entrate e scambio automatico di informazioni bancarie) pena l’applicazione di pesanti sanzioni commerciali. Come mostrato da Zucman, queste sanzioni potrebbero essere molto efficaci: una tariffa del 30% imposta da Italia, Francia e Germania alla Svizzera costerebbe di più dei benefici derivanti dall’attività di management dei fondi offshore. Peraltro, una tassa comune sui profitti da capitale potrebbe rappresentare il primo passo per creare un bilancio comune Europeo che svolga tanto la classica funzione anti-ciclica di supporto alle spese sociali in tempi di crisi quanto quella strutturale di finanziare su larga scala progetti come le smart grid (le reti che valorizzano la produzione decentralizzata e diffusa di energia), il trasporto sostenibile su rotaia e la ricerca sui nuovi materiali e le fonti di energia pulite.

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