I problemi di lungo periodo dello sviluppo economico italiano

Emanuele Felice, Alessandro Nuvolari e Michelangelo Vasta intervengono sul tema delle specificità del capitalismo italiano, e sostengono che due tare storiche hanno accompagnato il processo di modernizzazione del Paese fin dall’Unità: un assetto istituzionale mal congegnato e scarsi investimenti nella formazione di capitale umano e in attività innovative. La loro conclusione è che l’Italia ha bisogno di interventi incisivi che riconfigurino la matrice storica del suo processo di sviluppo.

Il declino italiano degli ultimi vent’anni è solo un episodio che interrompe un lungo processo di convergenza con altri paesi che avevano intrapreso il processo di industrializzazione in anticipo, o è invece il palesarsi di tare storiche che sin dall’unificazione hanno accompagnato la lenta modernizzazione del Paese? La domanda è cruciale non solamente in sede di diagnosi, ma anche per valutare i possibili rimedi. La sintesi che segue può trovare adeguati approfondimenti in due volumi usciti recentemente che propongono una prospettiva di lungo periodo: E. Felice, Ascesa e declino. Storia economica d’Italia (Il Mulino, 2015) e P. Di Martino, M. Vasta (a cura di), Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano (Il Mulino, 2017). Del resto, l’importanza del lungo periodo – cioè di un’analisi di storia economica che prenda le mosse già dall’Ottocento – si evince da una semplice constatazione: in Italia, così come nella gran parte degli altri paesi europei, il processo di industrializzazione, la rottura di un ordine millenario, si concretizza proprio nella seconda metà dell’Ottocento e molte caratteristiche strutturali del capitalismo italiano cominciano a delinearsi già allora. In aggiunta alla rottura economica, nel caso italiano c’è poi quella istituzionale: la creazione di uno stato nazionale, entità e cornice in larga parte nuova che precede di alcuni decenni il decollo giolittiano; e uno stato che arriva, certo in parte mutato, fino a oggi – proprio come il nostro capitalismo. È utile pertanto cominciare dall’inizio.

Le tare originarie, che accompagnano la costruzione dello stato nazionale e pesano sullo sviluppo economico, sono essenzialmente di due tipi. Primo, l’assetto istituzionale e il sistema burocratico-amministrativo, cioè le «regole del gioco» all’interno delle quali si muovono le imprese e che definiscono gli incentivi per esse rilevanti: in questo caso, si sono rivelati cruciali i deboli incentivi per crescere e specializzarsi nei settori tecnologicamente avanzati. Secondo, il sistema di istruzione e innovazione – dalla scuola pubblica alla ricerca scientifica e tecnologica – cioè un «bene pubblico» fondamentale dapprima, a fine Ottocento, per il decollo industriale nei settori della Seconda rivoluzione industriale (ma in parte anche in quelli della Prima), quindi, negli ultimi decenni, per agganciare saldamente la Terza rivoluzione industriale dominata dalle tecnologie ICT (Information and Communication Technologies) in un contesto in cui, per i vincoli posti alla circolazione della proprietà intellettuale (cfr. U. Pagano, in Cambridge Journal of Economics, 2014, e sullo scorso numero di questa rivista), è diventato via via più difficile importare tecnologia dall’estero. A questo proposito, non vi è dubbio che la stagnazione della produttività che perdura nel nostro Paese da circa vent’anni affondi le radici proprio nel ritardo nell’ideazione, nello sviluppo e nell’adozione delle nuove tecnologie.

Nel corso di tutta la sua storia unitaria l’Italia non ha mai seriamente investito né sul miglioramento delle «regole del gioco», né sul miglioramento della dotazione del capitale umano. Anche quando qualcosa di positivo è stato fatto – come in età giolittiana o durante il «miracolo economico», non a caso i periodi di migliore crescita della nostra economia – si è rimasti molto distanti dagli altri paesi avanzati.

Andare un po’ più a fondo su questi temi contribuisce anche a fare chiarezza sulle cause. La mancanza di una strategia coerente per ammodernare e rendere più efficienti le regole del gioco, come pure i deboli investimenti in istruzione e ricerca si legano a un più ampio problema di inadeguatezza delle classi dirigenti; queste, a loro volta, sono generalmente espressione del contesto socio-istituzionale in cui si formano. È andato in questo modo prendendo corpo un circolo vizioso, lungo un sentiero di path dependence che tende a relegare l’Italia verso una specializzazione nei settori industriali leggeri e meno innovativi. Cause e conseguenze si alimentano a vicenda: l’inadeguatezza delle classi dirigenti è in parte legata all’assetto istituzionale del Paese (impossibilità dell’alternanza, clientelismo, scarsa responsabilizzazione degli elettori), in parte frutto di scarse risorse (bassi capitale umano e sociale, specie in alcune parti della penisola), inappropriate per un paese avanzato. Tale inadeguatezza è un problema di lungo periodo: presente in epoca liberale, poi durante il fascismo e, in parte, già negli anni del miracolo economico (ad esempio nella gestione clientelare dell’amministrazione ordinaria, o nella crescita senza regole che pure veniva tollerata e tanti danni ha poi recato nei decenni successivi). Nei decenni Settanta e Ottanta del secolo scorso, ha comportato la scelta di strategie di sviluppo opportunistiche (fondate su inflazione all’interno e svalutazione all’esterno, nonché sulla gestione clientelare della spesa pubblica) che non miglioravano i fondamentali del Paese, anzi li peggioravano: rendendo ancora più inefficiente il funzionamento del sistema burocratico e amministrativo, favorendo una specializzazione produttiva a favore delle piccole imprese meno innovative (che scontavano le rigidità del mercato del lavoro meno delle grandi, mentre beneficiavano allo stesso modo della svalutazione del cambio e della possibilità di eludere il fisco).

È bene notare che questi indirizzi di corto respiro sono stati ampiamente supportati da gran parte delle classi dirigenti politiche, imprenditoriali e sociali – ma anche dal voto dei cittadini. Del resto, il «fallimento» delle istituzioni non ha favorito soltanto una ristretta «casta» o alcune lobby, ma una minoranza sufficientemente grande la cui composizione ed equilibrio interno mutano nel tempo. Questa «cospicua» minoranza ha potuto eludere il fisco, estrarre le risorse dalle imprese per destinarle al proprio patrimonio individuale o anche, sfruttando l’opacità delle regole, godere di piccole rendite di posizione a scapito della collettività. Successivamente, negli anni immediatamente precedenti l’entrata nell’Euro e soprattutto nel decennio successivo, la medesima miopia delle classi dirigenti ha determinato interventi e linee di riforma privi di coerenza strategica: qual era (qual è) il nuovo modello di sviluppo cui l’Italia poteva (può) tendere, ora che debito pubblico e svalutazione competitive non sono più possibili (o almeno non dipendono più da scelte nazionali)? Quali ambiti e settori andavano potenziati, o riformati? Perché non si è fatto praticamente nulla dal 2001 in avanti, fingendo di non vedere la «rivoluzione copernicana» (cfr. M. Salvati La sinistra, il governo, l’Europa, Il Mulino, 1997) che l’entrata nell’Euro comportava?

Un ambito da cui traspaiono con particolare forza gli effetti perniciosi di questo circolo vizioso, in un processo di path dependence, è il sistema di istruzione e innovazione. Si ritiene che i limitati investimenti – pubblici, individuali – siano una risposta alla scarsità della domanda da parte delle imprese. Tuttavia, a ben vedere, la scarsa domanda da parte delle imprese rivela precisamente la natura del problema, la sua diffusione e pervasività. Il basso livello di capitale umano (dati OCSE mostrano, ad esempio, che nella percentuale di laureati sulla popolazione di età 25-64, per tutto il periodo 1990-2015 l’Italia è stata il fanalino di coda di tutti i maggiori paesi industrializzati e nel 2015 è stata superata persino dalla Turchia) conduce a una specializzazione in settori poco innovativi. Di conseguenza, le imprese utilizzano poca manodopera qualificata e, pertanto, questa subisce un ulteriore depauperamento: i laureati in discipline scientifiche (già in percentuale ridotta rispetto agli altri paesi avanzati) non trovano lavoro nel nostro Paese ed emigrano all’estero. Riguardo a ciò, pochi dubbi vigono sul fatto che un sistema industriale particolarmente orientato verso la piccola impresa dei settori tradizionali costituisca motivo di preoccupazione. In aggiunta, occorre però rimarcare come la retorica del «piccolo è bello» sia stata supportata da – e abbia contribuito a creare – una falsa percezione della realtà secondo cui, come scrive ad esempio Edoardo Nesi in un libro vincitore del Premio Strega (Storia della mia gente, Bompiani, 2010, sul quale Stefano Adamo ha scritto un acuto commento in Modern Italy, 2016), sarebbe stato possibile competere nel mondo «azzerando ogni costo di ricerca e sviluppo», puntando semplicemente sulla tradizione del made in Italy. Nello stesso tempo, e in via speculare, i moniti di quanti, già negli anni Novanta, come Marcello de Cecco (cfr. L’economia di Lucignolo, Donzelli, 2000) facevano notare come una parte del successo della piccola impresa italiana fosse basato su pratiche diffuse di evasione fiscale e contributiva – e quindi gonfiato dalla compiacenza, e dal mancato intervento, della politica – venivano lasciati cadere nel vuoto (cfr. il cap. 6 “Istituzioni e performance economica in Italia; una analisi di lungo periodo” di P. Di Martino e M. Vasta, in Ricchi per caso, dove si mostra come il capitalismo italiano sia caratterizzato da una diffusa indulgenza verso chi persegue, spesso sfruttando l’opacità delle norme, l’interesse individuale a scapito di quello dell’impresa).

Se questa è la diagnosi, si può certo concordare sul fatto che la costruzione di reti per le piccole imprese (volte soprattutto allo scambio di conoscenze e tecnologie) potrebbe offrire valide opportunità; ma non si tratta solo di questo. In un contesto caratterizzato dalle piccole dimensioni e dell’elevato numero di imprenditori, sembra ragionevole ipotizzare che maggiori investimenti nella formazione di capitale umano e nella ricerca scientifica e tecnologica potrebbero tradursi nel rafforzamento di un segmento, tradizionalmente poco rappresentato in Italia, di imprenditori schumpeteriani, vale a dire con maggiore propensione a entrare nei settori più vicini alla frontiera tecnologica. Questo tipo di imprenditori potrebbero davvero giocare un ruolo cruciale per aumentare l’asfittica produttività e i bassi livelli salariali che ne conseguono e rompere il circolo vizioso appena descritto. Ma la classe politica non pare esserne neanche lontanamente consapevole. Infatti, la discussione sulle riforme strutturali si concentra su una serie di politiche volte a garantire un funzionamento più efficace dei meccanismi di mercato. In questa prospettiva, le riforme strutturali non sono altro che misure volte a garantire un funzionamento più «concorrenziale» dei mercati del lavoro, del credito, dei prodotti e dei servizi che hanno ricadute molto limitate, se non nulle, sulla capacità innovativa del Paese. Ancora più desolante è notare come anche buona parte degli economisti, di diversa estrazione, non riconosca il problema limitandosi a richiamare la necessità di «produrre» il capitale umano che le imprese richiedono.

Legati a questi problemi, vi sono poi quelli più specifici, e ugualmente di lungo periodo, della legalità – a livello nazionale ma ancora di più in alcuni territori – e del divario Nord-Sud. Non si può ignorare il fatto che l’Italia è oggi in Occidente l’economia con i più ampi divari di sviluppo al proprio interno; che il Sud non è mai riuscito a sviluppare una imprenditoria endogena significativa e che tutti gli interventi di policy per risolvere il divario hanno fallito, in maniera plateale dagli anni Settanta a oggi. Non si può nemmeno ignorare che il sottosviluppo del Sud è questione storica, atavica potremmo dire, legata alle classi dirigenti e all’assetto socio-istituzionale, ai livelli di capitale umano e sociale, di questa parte del Paese; e che contribuisce a ridurre le capacità di crescita dell’Italia tutta e la tenuta del sistema (cfr. E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013; E. Felice e M. Vasta, in European Review of Economic History, 2015).

Il Sud costituisce un caso emblematico, in cui si palesano con particolare forza i problemi nazionali; con la differenza che manca anche un tessuto adeguato di piccole e medie imprese. Ma non si può altresì fare finta di non vedere l’altra faccia di questa medaglia: negli ultimi decenni l’Italia tutta, anche il Centro-Nord, non risolvendo le sue tare storiche e anzi aggravandole, si è avvicinata al Mezzogiorno, denotando un sempre più allarmante deterioramento sia di quel complesso di fattori socio-istituzionali che favoriscono la crescita, sia della propria dotazione di capitale umano e di capacità innovative. Di conseguenza si è allargato il divario fra il nostro Paese e le altre economie avanzate: i risultati si vedono ormai da più di tre lustri, ma le cause profonde sono da ricercarsi nella matrice storica del nostro processo di sviluppo.

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